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11 giugno, 2024

Dopo 44 anni riecco un grande Werther alla Scala

La Scala ripropone il capolavoro di Jules Massenet dopo più di 44 anni (ultima apparizione il 23 febbraio 1980, allora il sommo Georges Prêtre sul podio e l’indimenticabile Alfredo Kraus nel ruolo del titolo). Si tratta di una nuova produzione, in partnership con il Théâtre des Champs-Élysées, dove approderà fra poco meno di un anno. Allestimento di Christof Loy e direzione musicale di Alain Altinoglu.

Qualche – più o meno peregrina – osservazione sul plot (quello del libretto, in confronto con il romanzo dell’irraggiungibile Goethe) avevo già avanzato più di sette anni orsono, in occasione di una recita a Bologna, alla quale rimando perciò le moltitudini di curiosi e perditempo…

Attenzione: le – sacrosante – critiche al libretto (profonde e maldestre deviazioni rispetto al testo di Goethe, presenza di fatti e situazioni del tutto improbabili se non addirittura in aperto contrasto fra loro, …) non comportano assolutamente un giudizio negativo sull’opera che al contrario, e grazie alla musica di Massenet, continua a coinvolgere ed emozionare ad ogni ascolto. In specie se presentata con la cura e la professionalità che contraddistinguono questa nuova produzione scaligera.

Benjamin Bernheim: un fenomeno davvero, Werther perfetto, fino al midollo. Non gli manca proprio nulla della personalità disturbata del protagonista: canto e portamento scenico in assoluta simbiosi (possiamo discutere la scelta registica del finale, dove Loy calca la mano sul melodramma strappalacrime, facendolo cadere e rialzare un paio di volte mentre duetta con Charlotte). A lui il pubblico ha meritatamente riservato il massimo del calore.  

Alain Altinoglu guida un’orchestra in gran forma, cavandone fuori tutte le meraviglie che costellano questa partitura: voci sempre accompagnate con equilibrio, squarci naturalistici che non cadono mai in eccessi di decadentismo e pathos continuamente tenuto alto (un breve applauso a scena aperta per Charlotte – per fortuna non per Werther nel Pourquoi me réveiller – ha un po’ rotto l’incantesimo).

Victoria Karkacheva è stata una Charlotte più che dignitosa: forse un po’ attorialmente impacciata e con qualche debolezza nella parte bassa della tessitura; ma anche per lei l’accoglienza è stata da alto gradimento.

I due comprimari (Jean Sébastien Bou e Francesca Pia Vitale) hanno degnamente completato il quadro: lui mettendo la sua calda voce baritonale al servizio di un Albert che sotto la crosta del fair-play nasconde una crescente insofferenza verso Werther, culminata (grazie a Loy) nel trattamento che riserva alle… lettere nel finale del dramma; lei creando una Sophie tutta verve e maliziosità, aiutata in ciò dalla scelta registica (quanto mai azzeccata) di farcela comparire in scena in tutti i momenti topici, dall’apertura del sipario all’arrivo di Werther, poi a tutto il finale,  dove i quattro protagonisti restano sempre presenti.

Di tutto rispetto le prove degli altri: Armando Noguera, Borgomastro severo e un po’ lunatico, Rodolphe Briand e Enric Martínez-Castignani (gli amiconi di mangiate e bevute).

Ammirevole la prestazione dei sei fanciulli, guidati dal venerabile Mario Casoni, con il loro canto fuori registro alle… prove di luglio che si nobilita poi nella notte di Natale.

Con i due personaggi muti (Pierluigi D’Aloia ed Elisa Verzier, Bruhlmann e Katchen) passo quindi a qualche nota sulla regìa di Christof Loy. Che ce li mostra quasi come due alias dei protagonisti: lui sempre ubriaco – di mal d’amore? – e lei perennemente cupa e preoccupata.

Johannes Leiacker ha approntato un ambiente scenico assai ristretto: in pratica al solo proscenio allargato, chiuso da un’alta parete che mostra una grande porta scorrevole. Oltre la quale si intravedono di volta in volta ambienti diversi a caratterizzare i diversi momenti del dramma: tavole imbandite, due grandi vasi con cespugli rinsecchiti (ritorno di Werther) e il finale albero di Natale. Per il resto, tutto si svolge in primo piano e a scena spoglia.   

I costumi di Robby Duiveman ci portano ad un’anonima contemporaneità, e le luci di Roland Edrich sono manipolate con parsimonia, senza grandi effetti speciali.

Fino alla scena madre del terz’atto (la tentata violenza di Werther su Charlotte) Loy si tiene su un rigoroso piano interpretativo che potrei definire fin troppo tradizionale e rispettoso anche della lettera (oltre che dello spirito) del dramma.

È il finale che ci riserva l’immancabile tocco di genio (o… sregolatezza? Ciascuno giudicherà liberamente…)

In scena vediamo tutti i quattro protagonisti, sempre insieme! Albert sopraggiunge accolto (ancora!) da Sophie, che lì resterà fino alla fine: dopo Charlotte, redarguita dal marito, rientra in scena anche Werther (!) al quale la donna reca direttamente le pistole, che lui si porta dietro la porta scorrevole. [Ho il vago sospetto che Loy abbia già in mente una versione ancor più concentrata del finale: dove sarà direttamente Charlotte a ficcare un bel colpo di pistola in testa a Werther.]

Albert raccoglie le lettere di Werther (che Charlotte aveva estratto nella famosa scena dalle tascone della pelliccia…) e le sfoglia, spargendole sul pavimento. Si odono due (!) colpi di pistola dietro la porta scorrevole. Ne esce Werther, barcollante. Dapprima si stravacca – e qui ci siamo! - proprio sulle sue lettere, ma poi si risolleva e ricade un paio di volte (e qui davvero si fa largo un po’ di Kitsch…) fino a stramazzare definitivamente. (Sophie ha indossato la pelliccia di Charlotte, non senza psicologica spiegazione.)

Devo dire che tutto ciò, insieme ad aspetti del tutto condivisibili, mi ha lasciato abbastanza perplesso (siamo al famola strana?)
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In ogni caso il pubblico ha tributato un autentico trionfo a tutti. Cosa che nella sostanza mi sento di condividere ampiamente.

19 dicembre, 2016

Werther a Bologna. 2


Ieri pomeriggio terza recita del nuovo Werther bolognese. Bibbiena piacevolmente affollato e, lo dico subito, entusiasta dello spettacolo, guidato in scena da Rosetta Cucchi e in buca da Michele Mariotti.

Occhi (orecchi, soprattutto) puntati sul mitico JDF, che non ha tradito le attese, anche se in questo repertorio dà l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua: non certo perchè canti male, ma per la forse eccessiva assuefazione che abbiamo noi, suoi ascoltatori, ad aspettarci sempre da lui i mirabolanti virtuosismi rossiniani, che il tardo-romanticismo ha irrimediabilmente mandato in soffitta. Insomma, il problema non è suo, ma nostro! Dopodichè stabilire graduatorie (meglio Kraus? Kaufmann?) è esercizio che lascio volentieri agli specialisti (o millantati tali): a me personalmente è piaciuto abbastanza come cantante e un po’ meno come attore, sempre impacciato e poco credibile.

I suoi fan non hanno perso l’occasione per osannarlo dopo Pourquoi me réveiller che, essendo l’unica aria dell’opera degna di questo nome, da sempre viene usata per celebrare il tenore di turno: fatto sta che quell’applauso prolungato rovina irrimediabilmente la drammaticità della scena (Massenet in quel punto non prevede alcuna pausa, arpa e archi bassi devono continuare a suonare, gli strumentini riprendono subito la melodia). Ma si sa, certo pubblico è lì per il fenomeno da baraccone, mica per il dramma! E ieri l’insistenza è stata tale da convincere JDF al bis. Così, quasi per vendetta, il destino ha voluto che il dramma, cacciato dal palcoscenico, si sia trasferito in platea, dove una persona è stata colta da malore proprio durante le rumorose richieste di bis: chissà se per l’emozione provocatale dal canto di JDF o per lo spavento dovuto a tutto quel baccano. Sta di fatto che sono dovuti intervenire gli addetti alla sicurezza per trasportare la vittima fuori dalla sala, passando dall’uscita di emergenza posta proprio a lato della buca. Mariotti ha visto, ma si è girato per attaccare il bis: insomma, una scena assai poco edificante!

Isabel Leonard veste i panni, ma soprattutto dà la voce a Charlotte e devo dire che se l’è cavata più che bene, mostrando belle qualità vocali in tutta la gamma e restituendoci efficacemente tutta l’ambiguità di cui Massenet (al contrario di Goethe) riveste il personaggio. Interessante, con lei, anche la sorellina, la Sophie di Ruth Iniesta, voce ben impostata e robusta, sempre a suo agio in questa parte leggera e scanzonata.

Albert è interpretato da Jean-François Lapointe: senza infamia e senza lode la sua prestazione, davvero in linea con la grigiosità (?!) del personaggio. Da dimenticare il borgomastro di Luca Gallo, vociferante invece che cantante. Bravi invece Alessandro Luciano, Lorenzo Malagola Barbieri, Tommaso Caramia e Aloisa Aisemberg nelle parti di contorno. Encomiabili i sei piccoli fratellini di Alhambra Superchi.  

Michele Mariotti non si scopre oggi: sapiente la sua direzione, che ha esaltato le raffinatezze dell’orchestrazione di Massenet; sempre precisi ed efficaci gli attacchi ai cantanti; fracassi mai esagerati e invadenti.

Complessivamente mi è parsa una prestazione più che accettabile.
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Rosetta Cucchi (coadiuvata da Tiziano Santi per le non mirabili scene, Claudia Pernigotti per i costumi anonimi e Daniele Naldi per le luci, molto efficaci) ha proposto un’idea allo stesso tempo interessante e abusata: il protagonista appare sin dal preludio seduto su una sedia al proscenio, dalla quale osserva gli avvenimenti in una specie di flashback, che però è anche flashforth, visto che Werther prevede anche il futuro ménage Charlotte-Albert con tanto di figlioletto (... mah).

Questa idea dell’osservatore fuori-scena viene sapientemente sfruttata dalla regista alla fine del terz’atto: lei deve essersi resa conto che quel finale è - nel libretto e contrariamente a Goethe – quanto di meno plausibile si possa immaginare, con quell’accavallarsi di avvenimenti nel giro di pochi secondi; così ha ideato un’autentica genialata: niente domestico di Werther a recare il messaggio delle pistole, ma il biglietto lo lascia sul tavolino direttamente Werther prima di andarsene. Però ci si chiede: come faranno adesso le pistole ad arrivare in mano all'aspirante-suicida? Semplice: è la stesa Charlotte che, invece di consegnarle al domestico, le deposita direttamente sulla poltrona al proscenio dalla quale Werther ha osservato in flashback-and-forth gli avvenimenti, e sulla quale lei lo troverà poi già sparato!

Ambientazione di inizio ‘900, come conferma l’etichetta 1919 della bottiglia di grappa che il Werther, osservatore di passato e futuro, sorseggia seduto sulla poltrona in proscenio (il libretto non fa cenno, contrariamente a Goethe, alle attitudini libatorie del protagonista). Tutto ciò forse in omaggio all’epoca di massimo sviluppo delle teorie di Freud, anticipate da Goethe già a fine ’700. Suppellettili e costumi adeguati all’epoca. Il clavicembalo di Charlotte si trasforma in un minuscolo carillon, così anche il libretto viene adattato alla bisogna: Werther canta (e il display lo conferma) Voilà le carillon, al posto dell’originale Voilà le clavecin. I libri posti sul tavolino di casa si trasformano nel terz’atto in un’enorme libreria occupata da lussuosi tomi rilegati in pelle, mentre Ossian è relegato a paginette di un’agendina tascabile di Werther. Ma insomma, piccolezze.  

La Natura, tanto adorata da Werther, è rappresentata da foglietti di cartavelina che cadono dall’alto e da due altissimi alberi, che poi si riducono ad uno soltanto e di cui infine non resta che un tronco di... tronco, radici all’aria. 

Tutto sommato, pochi danni e va bene così. Anche per il pubblico!

14 dicembre, 2016

Werther a Bologna. 1


Sta per andare in scena al Comunale di Bologna un atteso Werther in cui debuttano Juan Diego Florez nei panni del complessato protagonista e Michele Mariotti alla concertazione.

Il libretto di Edouard Blau, Paul Miller e Georges Hartmann fu derivato, come sappiamo, dal romanzo epistolare di Goethe (I dolori del giovane Werther) che giocoforza dovette essere smagrito per evidenti ragioni di compatibilità con i requisiti e le esigenze di un melodramma. E purtroppo questa riduzione/compressione ha comportato una serie di problemi, a partire dalla stessa definizione delle personalità dei protagonisti, che ahinoi nel libretto perdono parecchi dei tratti di cui li rivestì il sommo Goethe.

Così Werther ci appare come una sbiadita figura dell’autentico eroe che in Goethe trabocca romanticismo da ogni sua lettera, essendo ridotto qui a poco più di un velleitario e malato sognatore; Charlotte è una ragazza quasi volubile, non dissimula nemmeno la sua attrazione per Werther e il suo legame con Albert pare giustificato esclusivamente da un giuramento impostole dalla madre e accettato solo per dovere, mentre la Lotte di Goethe è una donna con la testa sulle spalle, che ama sinceramente Albert e per Werther prova un’affinità quasi esclusivamente cultural-spirituale; Albert è per Goethe un personaggio di larghe vedute, non esita a riconoscere il fascino che Werther esercita sulla moglie, non teme che i due si incontrino anche da soli, proprio perchè sicuro del rigore e della fedeltà della sua Lotte, mentre nel libretto assume via via i tratti di un marito geloso, che addirittura arriva carognescamente (assai più che nel romanzo, dove si dichiara contrario per principio al suicidio) a costringere la moglie a consegnare l’arma mortale a quello che ormai considera un pericoloso rivale.

L’estrema compressione dei tempi dell’azione - in Goethe, dopo un’introduzione che data dal 4 maggio, si va dal 16 giugno 1771 (incontro di Werther con Lotte) fino alla notte dell’antivigilia di Natale del 1772; nel libretto il tutto inizia in un non meglio precisato giorno di luglio per concludersi nella notte di Natale dello stesso anno (178x) cioè poco più di 5 mesi, nei quali i librettisti hanno dovuto liofilizzare le vicende di 18! - ha finito per creare nel libretto parecchie inconsistenze e salti logici piuttosto evidenti.  

Dunque l’opera inizia in luglio quando Werther, che a mala pena conosce il borgomastro (padre di Charlotte) si reca a casa di costui (facendosela indicare da un contadino) per prelevarvi una ragazza da accompagnare ad una festa: è lì che incontra per la prima volta Charlotte, che immediatamente lo colpisce... a morte. La serata passata in sua compagnia pare avere effetti afrodisiaci anche sulla ragazza-madre (ops... madre nel senso di sorella maggiore di 6 fratellini, come lei orfani della mamma) che arriva persino a scordarsi di essere promessa sposa a tale Albert, giovane, serio e intraprendente uomo d’affari. Costui torna proprio quella sera da un viaggio di lavoro e così il povero Werther deve constatare che la sua Charlotte si è trasformata in un miraggio.

Ora attenzione: nel secondo atto – siamo a settembre - Albert e Charlotte conversano amabilmente davanti alla chiesa e ci fanno sapere di essere felicemente coniugati da tre (!) mesi. Beh, dovremmo pensare che Albert stia un filino esagerando, a meno che il primo atto non si fosse aperto e chiuso il 1° luglio, il matrimonio celebrato immediatamente e il secondo atto sia ambientato il 30 settembre... ma insomma, non sottilizziamo. Ciò che ci interessa è invece scoprire Werther che sembra pedinare e scrutare da lontano i due coniugi, forse per verificare la solidità del loro legame o intravedere qualche falla (che gli dia delle speranze per il futuro) nella predisposizione di Charlotte verso il marito. Di più: Albert scorge Werther, lo avvicina e mostra di conoscerne i sentimenti verso Charlotte: sentimenti che lui non si sente di biasimare (sua moglie è talmente a modo che chiunque se ne potrebbe innamorare). Werther incontra poi Charlotte che lo congeda invitandolo a partire, ma giustificando la loro separazione esclusivamente con un dovere cui lei si deve assoggettare (lei dice Albert mi ama, ma mai... Io amo Albert!) Fatti un bel viaggio e scordami... tutt’al più torna per gli auguri di Natale! Alla notizia che Werther partirà Albert mostra i primi sintomi della gelosia, chiudendo l’atto con un sinistro sguardo alla moglie turbata e mormorando Egli l’ama...

Domanda: preso atto di questo scenario, è plausibile ipotizzare che nei (meno di) tre mesi trascorsi Werther sia stato ospite quasi quotidiano a casa degli sposini Albert-Charlotte e vi abbia incontrato la donna a quattr’occhi, intrattenendo con lei rapporti assai sospetti? Parrebbe proprio di doverlo escludere... e invece è ciò che scopriamo inopinatamente nel terzo atto.

Che si apre alle 5 del pomeriggio della vigilia di Natale, in casa di Albert-Charlotte. Questa scena è completamente inventata dai librettisti, non ve n’è traccia alcuna in Goethe: Charlotte è alle prese con una catasta di lettere inviategli nei tre mesi precedenti da Werther, auto-esiliatosi chissà dove, proprio su suo consiglio. Ma proprio come lei gli aveva suggerito, il giovane spasimante arriva a casa sua e - ohibò – assistiamo qui ad un’assurda, ingiustificata e impossibile serie di ricordi di momenti di grande intimità intercorsa fra i due in quelle stesse stanze - la casa di Albert! - in passato. E quando, di grazia? Fra luglio e settembre, quando Charlotte e Albert erano sposini freschi-freschi e – ne siamo stati testimoni - Werther poteva solo spiarli di lontano? O fra ottobre e Natale, quando Werther era chissà dove e non poteva che scrivere lettere su lettere? Ahi ahi, qui tutto scricchiola maledettamente!

Come si spiega questo clamoroso abbaglio? Precisamente con l’esigenza dei librettisti di comprimere il testo (e i tempi) di Goethe. Come vanno le cose secondo il grande drammaturgo? Ecco qua: dopo il primo incontro al ballo (16/6/1771) Lotte e Werther si ritrovano a casa della ragazza (del borgomastro quindi, non di Albert!) e lei gli rivela tranquillamente di essere fidanzata e innamorata di Albert, che è assente per affari e tornerà 40 giorni dopo, il 30/7/1771. Durante questi 40 giorni Werther incontra più volte Lotte a casa sua (ne fa cenno in due lettere, del 13 e 16 luglio) e fra i due si stabilisce una certa intimità (canzoni che lei suona al clavicembalo, letture un poco galeotte, le loro mani che si sfiorano, sguardi languidi) che lui interpreta (erroneamente, come ci verrà confermato dai successivi sviluppi) come amore da parte della ragazza.   

Ecco, ora abbiamo capito a quali incontri si riferiscono i ricordi della sera di Natale, a casa di Albert, nel libretto dell’opera: peccato che però siano relativi a fatti (raccontati da Goethe) avvenuti a casa del borgomastro prima del matrimonio di Lotte, fatti che sono del tutto incompatibili con la trama del libretto, che ci mostra Albert tornare la sera stessa del primo incontro fra Werther e Charlotte, cui seguirà a tambur battente il matrimonio, mentre il povero Werther (chiusura atto primo) è addirittura disperato!

Il racconto di Goethe prosegue poi con grande dovizia di particolari e con assoluta coerenza: dopo il suo ritorno Albert fa amicizia con Werther e lo invita (12 agosto) a casa sua (qui Werther vede le pistole fatali). Il 10 settembre Werther annuncia a Lotte e Albert la decisione di trasferirsi e a fine mese prende impiego all’ambasciata.  Poi un lungo black-out, rotto dopo quasi 4 mesi (il 20/1/1772) quando Werther scrive a Lotte ribadendole il suo affetto; il 20/2/1772 manda a lei e Albert una lettera di felicitazioni per il loro avvenuto matrimonio (!) Il 19/4/1772 si congeda dall’impiego e torna. Solo dopo altri 5 mesi, il 12/9/1772, incontra nuovamente Lotte a casa sua e di Albert; la rivede regolarmente, sempre a casa sua, a ottobre, novembre e dicembre, approfittando delle continue assenze di Albert, impegnato in viaggi d’affari (sono passati 7 mesi dal matrimonio...) ma si tratta di incontri che (perlomeno nelle intenzioni di Lotte) si mantengono sul piano di amicizia e cortesia, nulla più.   

Anche il finale dell’opera diverge abbastanza da quello del romanzo: è in effetti assai più melo-drammatico! Ma a spese anche qui di un affastellarsi di eventi invero al limite dell’incredibile, se non del ridicolo: Werther che fugge dalla casa di Albert, dopo quella drammatica scenata con Charlotte, Albert che rientra un minuto dopo e trova Charlotte sconvolta, il domestico che arriva proprio in quel momento con la missiva di Werther, Albert che ordina bruscamente alla moglie di consegnargli le pistole, Charlotte che corre fuori in scia al domestico per cercare di raggiungere Werther prima che si spari... (!?) Charlotte trova Werther ancora vivo e gli dichiara il suo amore; Werther (che come ogni tenore che si rispetti, prima di morire canta ancora un’ultima aria) muore contento nelle sue braccia, mentre si odono gli allegri canti natalizi dei fratellini di Charlotte.

Nel romanzo le cose vanno in modo assai più plausibile, ordinato e verosimile: la domenica prima di Natale Albert chiede a Lotte di diradare i suoi incontri con Werther, così lei lo invita a rifarsi vivo non prima del 24 sera (giovedi). Lunedi 21 Werther comincia a scrivere l’ultima lettera a Lotte contenente propositi suicidi (verrà trovata nella sua stanza); va a casa del padre di Lotte e saluta i bambini; la sera torna (anzitempo, rispetto alla richiesta della donna) da Lotte e la trova sola in casa; lei è infastidita, ma lo invita gentilmente a leggerle qualcosa e lui le sciorina una montagna di versi di Ossian, che la turbano profondamente; quindi le si avventa addosso coprendola di baci; Lotte si ritrae sconvolta e si chiude in camera; Werther fugge, torna a casa: il mattino dopo (22/12) completa la lettera per Lotte; poi manda ad Albert il biglietto con la richiesta delle pistole in prestito; Albert e Lotte sono a casa e ricevono il servo di Werther con la lettera: Albert chiede a Lotte di consegnargli le pistole e aggiunge auguri di buon viaggio per Werther; è l’ora di pranzo, Werther vaga ancora per il territorio e poi torna a casa nel pomeriggio e vi trova le pistole; a mezzanotte in punto si spara nell’occhio destro. L’indomani (23/12) viene trovato ancora in vita, muore senza riprendere conoscenza, verso mezzogiorno; la sera alle 11 viene sepolto secondo le sue volontà. Dal giorno precedente Lotte, sconvolta e prostrata immaginando il peggio, non si è più mossa da casa sua.
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Beh, dato a Goethe quel ch’è di Goethe, diamo doverosamente a Massenet ciò che gli spetta. Qui lo fa il grande Antonio Pappano, in occasione di una produzione della ROH con Grigolo e la DiDonato.
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La prima di giovedi 15/12 viene trasmessa da Radio3, ore 20.