allibratori all'opera

bianca o nera?
Visualizzazione post con etichetta michieletto. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta michieletto. Mostra tutti i post

28 aprile, 2025

Filidei alla Scala: debutto con applausi e contestazioni

Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima assoluta de Il nome della rosa, opera che il Teatro ha commissionato a Francesco Filidei, che ha predisposto – con Stefano Busellato (e altri) - anche il libretto, derivandolo dal romanzo di Umberto Eco.

Parto dalla fine. Applausi convinti per i cori di Malazzi e Casoni, poi per i singoli cantanti. Sembra un trionfo, ma quando tutto il cast si affaccia in parata al proscenio ecco piovere dal secondo loggione una salva di buh, che poi si estende anche all’uscita del team registico e dello stesso Filidei. Insomma, un debutto piuttosto contrastato.

Parliamoci chiaro: la musica di Filidei non è propriamente un dolce rosolio, peccando forse di velleitarismo e di eccessiva cerebralità: la struttura cosiddetta a frattali, con le 24 scene che esplorano in andata e ritorno l’intera scala cromatica è di difficile comprensione, poiché gli scarti di tonalità, che sarebbero già difficilmente avvertibili se le linee melodiche e armoniche fossero di natura diatonica, diventano un grammelot se sono a volte improntate ad atonalità, altre a serialità e quasi perennemente infarcite di dissonanze e rumorismo.

Insomma, musica troppo artefatta e quindi fredda agli occhi orecchi di un pubblico che fatica a raccapezzarcisi. Aggiungiamo che il canto è spesso pura declamazione, se non puro parlato, e così si può spiegare la reazione negativa di parte del pubblico, di cui hanno fatto le spese in blocco i componenti del cast che singolarmente hanno invece dato il massimo e personalmente mi sento di accomunare in un generale elogio, da estendersi poi alla compagine orchestrale e al Direttore Metzmacher che l’ha guidata con polso fermo e sicuro.

Quanto all’allestimento, Michieletto (con il suo team) ha risolto da gran maestro di teatro tutti i problemi che la messinscena di un simile soggetto comporta. Mi limito a citare alcune intuizioni davvero geniali che caratterizzano il suo spettacolo, complessivamente di alto livello.

Dapprima, la presentazione della scena di apertura (il portale della Chiesa) mostrato non (come si potrebbe pensare) come un tableau vivant, ma come un enorme bassorilievo che progressivamente si anima con la fuoriuscita dei personaggi ivi scolpiti, ad evocare e rappresentare mirabilmente lo sconcerto e l’ammirazione insieme dello stupefatto Adso, mentre il coro canta versi dell’Apocalisse.

Poi una specie di enorme Dama con il liocorno, nel cui grembo va a sdraiarsi (al posto dell’animaletto) il conturbato Adso. E ancora la scena finale del primo atto, davvero geniale nel coniugare le due essenze della Ragazza: quella erotica e sensuale, che esce dal collo mozzato della testa di un enorme bue - trascinato dai sei personaggi dolciniani con teste d’animali - dal quale poi l’essenza umana e miserevole della stessa ragazza estrarrà l’enorme cuore.

E che dire della drammatica presentazione della morte di Malachia, che nel testo è descritta in tre parole, mentre noi la vediamo proprio come si materializza nell’incubo del povero bibliotecario, suggestionato da Jorge con la visione degli scorpioni che lo divorano!

E poi la resa (impossibile da ottenere se si dovesse seguire pedestremente il testo) della morte di Abbone, progressivamente imprigionato da due blocchi di pietra che lentamente si stringono al suo corpo, sospinti da Jorge!

E infine la scena conclusiva, con i tronconi del velario del labirinto che crollano al suolo mentre la croce si incendia e Guglielmo e Adso si congedano, prima che la visione della donna (nelle sue due espressioni) chiuda il dramma, con i contrabbassi che esalano, dopo il DO che ciclicamente ci riporterebbe all’inizio della storia, quel DO# nel grave che prefigura una nuova (?) vita.

Ecco: in sintesi, uno spettacolo di alto livello, che a mio modesto avviso va apprezzato per la nobiltà delle intenzioni degli autori e la professionalità degli esecutori.


24 aprile, 2025

Eco in musica alla Scala

La stagione scaligera 24-25 ha il privilegio particolare di offrire al pubblico la prima assoluta di una nuova opera (quasi) tutta italiana: a parte il Concertatore (Metzmacher) sono italiani l’ispiratore (Eco), il compositore-librettista (Filidei) e il regista (Michieletto).

[Stante la natura anche esoterica del romanzo, si può osservare come esista un legame, appunto… cabalistico, fra il cognome del compositore e un’esternazione che Eco mette in bocca a Salvatore: Filii Dei, sono! riferita ai poveri abitanti del villaggio che il vice-cellario rifornisce sottobanco di cibarie.]

Il romanzo di Umberto Eco compie precisamente 45 anni e la sua fama è stata ingigantita dal fiorire di trasposizioni cinematografiche, teatrali, televisive. Oltre che da una serie di Postille, che l’Autore pubblicò pochi anni dopo il romanzo, in cui fornì dettagli sullo stesso titolo, sulle ragioni dell’ambientazione (tardo-, e non alto-) medievale, sulla stagione in cui si dipana la vicenda, dalla quale dipende nientemeno che il luogo in cui si svolge… E poi da chi far narrare la storia (Adso e non… Umberto?) e come corredarla di dettagli, anche apparentemente barbosi, ma utili a far calare il lettore nello scenario altrimenti gratuito cui si riferisce la narrazione.

E tante, ancora tante altre profondissime considerazioni, incluse quelle sulle caratteristiche di thriller del romanzo. Ma un thriller che va ben oltre il classico stereotipo del tipo ma chi sarà il serial-killer? Che infatti c’è e non c’è, e comunque fa lui stesso una pessima fine!

E infine, lo Sherlock Holmes medievale, giustamente arrivato dalla Baskerville Hall di Conan Doyle, e di cui Adso ci sembra impersonare l’aiutante dott. Watson… Ma Guglielmo, essendo Inquisitore del Sacro Romano Impero, si occupa specialmente di reati che hanno a che fare con la Religione, proprio come il suo collega Bernardo Gui, che opera nel campo nemico, ad Avignone. Ed ecco allora che il romanzo si dilunga su (o si arricchisce di?) una copiosa dote di concioni di carattere metafisico, o secolare travestito da tale. Che finiscono quasi con il trasformare il thriller in una disputa tutta politico-religiosa fra le due fazioni principali (Papa e Imperatore) affiancate da ordini monastici (Domenicani e Francescani/Benedettini).

Detto ciò (e molto altro ci sarebbe da dire) la domanda che viene spontanea è: l’opera musicale di Filidei (con la direzione di Metzmacher e la regìa di Michieletto) cosa ci dirà di quella di Eco? Si fermerà (come il film con Sean Connery) al thriller (cioè alla superficie) o saprà spingersi oltre, in realtà un po’ più in alto?

Una prima risposta alla domanda ci è stata fornita dallo stesso Autore, intervenuto giorni fa alla consueta conferenza Prima delle Prime, spalleggiato dal musicologo Gianluigi Mattietti. Ed è una risposta rassicurante, nel senso che Filidei ha dichiarato di aver voluto portare nella sua opera tutti i diversi aspetti del romanzo, pur con le costrizioni che caratterizzano sempre operazioni di questo tipo. Ha suddiviso lo spettacolo in due Atti, con l’intervallo posto poco prima della fine del giorno 3, cioè dopo il romantico-erotico incontro di Adso con la ragazza innominata. Ciascun atto comprende 12 sezioni, rispetto ai 50 capitoli del romanzo, con parecchie simmetrie musicali che Filidei ha cercato di spiegare anche meglio in un’altra illuminante intervista rilasciata al canale youtube di Mario Calabresi.

La figura sottostante (che ho predisposto interpretando liberamente lo schema proposto da Filidei sul programma di sala) schematizza la macro-struttura dell’opera in termini squisitamente musicali: abbiamo le 24 scene, divise nei due atti, supportate dai 12 suoni della scala cromatica, che nella prima parte si muovono a ventaglio, come indicato dalle frecce, dal DO al FA# e nella seconda retrocedono dal FA# al DO, dove però un’ultima, faticosa salita al DO# (Filidei la sottolinea nelle due citate esternazioni, ma non la disegna nello schema pubblicato) sembra voler riaprire il discorso…

Insomma, un costrutto squisitamente… musicale (nel senso scientifico del termine). Staremo a vedere il risultato, se cioè si potrà dire che questa musica di Filidei sappia poetizzare l’intelletto (copyright Thomas Mann su Wagner).

___
Il libretto dell’opera ci permette di fare qualche considerazione riguardo l’approccio seguito da Filidei&C nella predisposizione del soggetto. Una di queste, ad esempio, riguarda la gestione delle numerose narrazioni che innervano il testo di Eco: racconti che il narratore (Adso) ci fa di fatti e/o di risposte che lui, o il suo capo Guglielmo, hanno ricevuto da personaggi che si muovono nella vicenda. Come presentare queste situazioni?

È chiaro che sarebbe stato ridicolo replicare questa modalità in modo pedestre: chè allora i personaggi dell’opera si sarebbero ridotti al narratore ed al suo capo, se non addirittura al solo narratore. L’ovvia alternativa è stata di limitare al massimo (se non proprio di togliere di mezzo) gli interventi del narratore e far direttamente parlare (=cantare) i personaggi narrati. Ed infatti la locandina ci presenta 17 interpreti di 20 personaggi. Ecco una tabella che sommariamente ne inquadra le caratteristiche e le voci (i personaggi colorati sono gli ospiti temporanei (come Guglielmo e Adso) del monastero benedettino, arrivati per un incontro di natura diplomatica fra rappresentanti del Papa e dell’Imperatore: in giallo i primi, in verde i secondi):

Filidei ha ignorato alcuni personaggi che popolano la vicenda narrata da Eco: alcuni sono effettivamente poco influenti, come Giovanni Dalbena, membro della delegazione papista (che figura nella locandina web, mentre è rimpiazzato da Alborea nel libretto) ma altri stupisce che non compaiano nel cast: Alinardo da Grottaferrata, vecchissimo monaco, le cui esternazioni sono di determinante aiuto a Guglielmo e Adso in relazione sia ai misfatti che si succedono, che a certi aspetti peculiari della labirintica biblioteca. E poi sono ignorati Aymaro d’Alessandria, che aiuta gli investigatori con informazioni sulla personalità dei reggitori dell’Abbazia; e ancora Nicola da Morimondo, esperto vetraio, Pacifico da Tivoli e Pietro da Sant’Albano, monaci che danno un più o meno forte contributo a definire il quadro complessivo del microcosmo dell’Abbazia.

Ma l’assenza più importante è quella del giovane Bencio da Upsala (che in Eco sarà nominato vicebibliotecario al posto di Berengario) la cui testimonianza è determinante ai fini di chiarire la morte per suicidio di Adelmo da Otranto, la prima delle (sette!) vittime di cui veniamo a conoscenza. Costui è già passato a miglior vita qualche giorno prima dei fatti narrati da Eco, e di lui Adso ci parla attraverso racconti di altri personaggi che ebbero con Adelmo un qualche rapporto, e magari ricordano qualche sua esternazione. Del più drammatico di questi racconti è protagonista Berengario da Arundel, che guarda caso si scoprirà aver avuto una relazione, ehm… equivoca, proprio con Adelmo, con il quale (anzi, con lo spettro del quale) afferma di essere stato protagonista di uno spaventevole incontro faccia a faccia, nel cimitero dell’Abbazia, la notte in cui Adelmo morì.

Ma è un racconto poco convincente per Guglielmo e Adso, che scoprono la verità proprio con il successivo interrogatorio di Bencio, che è stato testimone dell’equivoco rapporto carnale fra Berengario e Adelmo, del rifugiarsi di quest’ultimo nella cella di Jorge per confessarsi e del suo successivo vagare disperato nel cimitero, inseguito da Berengario (e spiato da Venanzio); il che dà a Guglielmo la quasi certezza del suicidio di Adelmo, per l’insostenibile vergogna del peccato commesso.

Orbene, dato che Filidei ha tenuto Bencio fuori dalla storia, come ha risolto lo spinoso problema? Primo: durante il Prologo, mentre Guglielmo e Adso sono ancora in viaggio, ci mostra in un flashback Adelmo che si confessa da Jorge e ne viene cacciato senza misericordia; secondo: ci presenta successivamente il drammatico incontro fra Berengario e Adelmo (guarda caso interpretati dallo stesso cantante) sotto forma di racconto del primo, che però canta anche ciò che racconta il secondo!  


Quanto alle tessiture vocali, la curiosità che si può avanzare qui riguarda i tre ruoli maschili assegnati a voci femminili en-travesti: quasi che Filidei sentisse il bisogno di rompere la monotonia di un’opera che avrebbe – all’origine – soltanto una voce femminile (la ragazza) su 20! A questo fine si potrebbe anche attribuire la scelta di affidare a due controtenori i tre personaggi (Berengario, Adelmo e Malachia) che presentano caratteristiche… LGBTQ+. E poi, come non pensare a Strauss (Octavian-Sophie) a proposito dell’incontro d’amore - fine primo atto, dalla penultima scena del giorno 3 di Eco - di due voci femminili (Adso e Ragazza del villaggio)?
___
Come anticipato più sopra, una delle caratteristiche del romanzo consiste nel frequente interrompersi della narrazione dei fatti principali – quelli relativi agli aspetti thrilling della vicenda, che il lettore vorrebbe divorare tutti d’un fiato – per fare spazio a lunghe (a volte lunghissime, e dottissime quanto… ehm, esasperanti) divagazioni – le cosiddette ecfrasi - su oggetti e/o temi che con l’azione hanno legami spesso assai labili, o come minimo assai remoti. Eco ovviamente ha qui modo di sfoggiare la sua enciclopedica cultura, e di arricchire la sua storia - di per sé molto coinvolgente ma anche di un genere piuttosto abusato - con elementi di alto spessore filosofico, religioso (e teologico), psicanalitico (ed erotico), scientifico e ovviamente artistico (come la minuziosa contemplazione del portale della chiesa da parte di Adso o la descrizione della struttura labirintica della biblioteca). Ma persino… culinario, come dimostra la descrizione del lavoro in cucina, con dotte e dettagliate citazioni di carni e verdure (inclusi i peperoni, errore storico rimediato nella riedizione, insieme a quelli relativi al violino e allo scambio di torrione meridionale-orientale dell’Edificio); non manca neppure una rara ricetta del casio in pastelletto!

Nelle sue citate Postille, lo scrittore paragona questo andamento altalenante della narrazione all’avvicendarsi, nel classico melodramma, di recitativi, dove si sviluppa l’azione, e di arie (o altri numeri musicali) dove il tempo si ferma per lasciare spazio a riflessioni di varia natura. E su questa similitudine di Eco il compositore rivela di aver fatto leva nella costruzione della sua opera.

Ebbene, devo dire che la promessa è stata mantenuta solo in parte. Parliamoci chiaro, pensare di riprodurre in musica le dottissime e lunghissime ecfrasi di Eco sarebbe stato quasi impossibile, e allora Filidei per trarsi d’impaccio si è rifugiato in corner nel… gregoriano. Ad esempio, rimpiazzando pagine e pagine di descrizione del portale della Chiesa con qualche verso dell’Apocalisse messo in bocca al coro; o impiegando antifone cantate da Adso e inni dal Salterio che il coro canta alla scoperta del cadavere di Venanzio; o impiegando parti del Cantico dei Cantici per sottolineare l’amplesso fra Adso e la Ragazza innominata.

Sono omesse quasi tutte le lunghe ecfrasi a contenuto rievocativo delle diatribe e degli scontri fra guelfi e ghibellini e fra ordini monastici e papato, con scambi di accuse di eresia e di secolarizzazione; resta, affidato al coro, un accenno alle vicende dei dolciniani; e restano ovviamente gli accesi scambi di vedute che accadono in presa diretta, tipicamente nella grande scena dell’incontro a carattere diplomatico fra le due delegazioni convenute all’Abbazia.

Per il resto l’opera si concentra sugli aspetti più strettamente thrilling del romanzo, relativi alle visite nella labirintica biblioteca e alla decifrazione dei diversi enigmi che porta progressivamente Guglielmo e Adso ad avvicinarsi alla definitiva scoperta della verità.

Un’ultima curiosità: nella conclusione, Filidei ha inventato un… ritorno di fiamma in Adso che, tornato ormai vegliardo all’Abbazia diroccata, rivede la statua della Madonna e torna con il pensiero alla ragazza innominata… [Siamo o no nel melodramma?]    

Qui una sommaria elencazione delle principali divergenze fra il testo di Eco e il libretto di Filidei. 

___
Scenografia e rispetto delle indicazioni di Eco. Sarà interessante osservare se e quanto delle minuziose indicazioni di Eco sono state osservate (o mutate) da regista/scenografo.

Ad esempio, ecco come Eco immagina il labirintico piano-biblioteca (secondo) dell’Edificio, la costruzione che ospita anche: scriptorium (primo) e cucine/refettorio (terra). La planimetria sottostante rappresenta il luogo del (pen)ultimo atto della storia: la sala eptagonale della biblioteca, detta Finis Africae, in cui si è barricato – protetto da una porta-specchio che ne dissimula uno dei due ingressi (l'altro, ancor più segreto, è raggiungibile salendo direttamente dall'ossario, sotto il piano terra) - l’autore morale (in un solo caso, l’ultimo, anche materiale) delle sei morti succedutesi nei sei giorni precedenti, cui si aggiungerà la sua (auto-avvelenamento, completato dalle fiamme) in quelle primissime ore del settimo giorno, dove si compirà il destino di distruzione dell’intero monastero. 

Certo, in teatro sarà difficile riprodurre fedelmente quel labirinto, suddiviso in 11 sezioni fra loro imbricate: ANGLIA, GERMANI, GALLIA, HIBERNIA, ROMA, YSPANIA; LEONES, AEGYPTUS, IUDAEA, FONS ADAE e ACAIA. Dalle poche immagini pubblicate (dove il labirinto è semitrasparente e… si muove ruotando su se stesso) è anche difficile immaginare l’efficacia della scenografia: ci penseranno Michieletto e Fantin a risolvere da par loro il problema.

___
Per finire, ecco invece uno schematico elenco delle sette morti, con relative cause:


Il problema da risolvere per autore e regista risiede nel fatto che, nel romanzo, le vicende relative a queste morti si imbricano fra loro (proprio come le sezioni del labirinto della biblioteca) ed è già complicato seguirle a dovere leggendo il romanzo. Abbiamo già visto come sia stato complicata e non del tutto convincente la soluzione del caso Adelmo-Berengario. Vedremo come Filidei-Michieletto sapranno toglierci queste castagne dal fuoco.
___
Commenti dal vivo dopo la prima di domenica 27 aprile (che sarà anche trasmessa in diretta da Radio3). 

15 gennaio, 2024

Médée est arrivée

Ecco quindi la Médée approdata ieri alla Scala. Trattasi (nel bene e nel male…) di un pastiche.

Emblematico al proposito un dettaglio non proprio insignificante: il testo del libretto come stampato sul programma di sala e messo in internet sul sito del teatro, che è  un autentico minestrone: la traduzione italiana a fronte del francese è quella di Zangarini, che ha sì fatto la fortuna dell’opera (Callas docet) ma che poco o nulla ha a che fare con il testo originale, essendo una versione ritmica adatta precisamente alle rappresentazioni in lingua italiana, ma fuorviante quando si mette in scena l’originale francese. Per fortuna qualche anima pia ha evitato che quella traduzione finisse anche sui display delle poltroncine, dove invece è stata proiettata una traduzione letterale (quindi fedele) del testo originale.

Sempre il libretto omette totalmente i parlati (tranne uno, il primo di Médée dell’atto terzo, comunque cassato come tutti gli altri) alcuni dei quali sono rimpiazzati dalla dicitura Dialogo, senza alcun dettaglio. Poi sui display compariranno i nuovi dialoghi del drammaturgo Mattia Palma, che ha collaborato con il regista Michieletto alla loro redazione. Dialoghi – in italiano, sia ben chiaro - messi in bocca ai due figli di Medea, ma diffusi dagli altoparlanti su sottofondo di carillon, e il cui contenuto a volte è un bigino delle avventure di Giasone, più spesso interpretazioni dei fanciulli di fatti che hanno una qualche attinenza con la vicenda. Dire che portino lo stesso risultato dei lunghi parlati originali sarebbe davvero esagerato.

Altre piacevolezze (e qui introduco l’idea portante di Michieletto): i protagonisti della vicenda sono appunto i due figli di Medea, più ancora che la madre. Quando Créon, nel primo atto, canta il mirabile Dieux et Déesses tutélaires, fa riferimento ai figli, che per lui sono Dircè e il futuro sposo Jason, per i quali chiede agli dèi protezione e benevolenza. Ma qui canta questo passaggio avendo accanto a sé i due pargoletti, ai quali dona dei nuovi vestitini-della-festa; così ognuno capisce che i figli suoi sono... i figli di Jason. Poi c’è Médée che nel duetto con Jason si rivolge all’ex-marito in francese dandogli del voi e parlando dei figli. In scena la vediamo cantare questo passo abbracciata ai figli, quindi capiamo che parla a loro, il che è abbastanza bizzarro, conveniamolo.

Insomma, questa idea di mettere al centro gli onnipresenti bambinelli sarà pure interessante e innovativa, ma presenta, insieme a qualche pregio, una serie di incongruenze (ed è pure di stucchevole ripetitività) che alla lunga finisce quasi per stancare, ecco.

Lo spettacolo di Michieletto è ovviamente di alto livello, per chi si lascia circonvenire dal fumo (inebriante, magari) trascurando l’arrosto, mi sento di dire… La gestione delle masse è uno dei punti di forza del regista, ma nella circostanza anche di debolezza, quando… non le fa vedere: la festa che chiude il secondo atto ne è testimone. L’originale prevede che il tempio sia sul fondo-scena, con processioni e canti festivi bene in evidenza, mentre al proscenio Médée e Néris commentano e Médée scaglia le sue maledizioni: un contrasto davvero lancinante. Invece noi vediamo solo la protagonista e la sua schiava in un ambiente degradato, mentre il tripudio (anche musicale) non solo non si vede proprio, ma anche si sente lontanissimo (la partitura prevede che dietro la scena ci sia solo la banda, non anche il tempio e il coro!)   

Idem per la recitazione dei personaggi, Médée in particolare, sempre curata e coinvolgente. Tuttavia è proprio la mancanza dei riferimenti che nell’originale sono presentati nelle omesse parti recitate a deformare non poco le personalità dei protagonisti (la stessa Médée ma anche Jason, per dire).

Il finale è anch’esso a due facce: sappiamo che Médée uccide i figli con un pugnale e proprio per questo la scena – troppo cruenta - non viene presentata al pubblico, che deve immaginarla - insieme con Jason - vedendo Médée arrivare con il pugnale insanguinato. Michieletto trova una soluzione ibrida, mostrandoci il momento dell’uccisione su uno schermo sovrastante la scena, dove si vede la madre che entra nella cameretta dei figli ai quali, prima di metterli a letto, somministra lo sciroppo per la tosse: noi possiamo immaginare che sia ovviamente avvelenato, sappiamo che Médée ha usato veleni anche per far secca Dircé, cosa che in questa produzione resta piuttosto inspiegata. Ma – in assenza del pugnale insanguinato - si fatica a comprendere la disperazione di Jason che vede sullo schermo una scena apparentemente innocente… 

Insomma: spettacolo in sé apprezzabile, ma piuttosto confuso e superficiale, in rapporto alla complessità del soggetto originale del dramma. Alla fine Michieletto si è preso la (prevedibile?) razione parallela di ovazioni e sonore contestazioni (questione di fumo e arrosto?)
___  
Sul fronte dei suoni notizie per fortuna discrete. A partire dalla concertazione di Michele Gamba, che restituisce tutta la severità della scrittura cherubiniana, senza cedimenti troppo romanticheggianti. L’Orchestra ha risposto da par suo, in tutte le sezioni come nelle parti squisitamente solistiche (flauto, oboe, fagotto…) Sempre ad alto livello il coro di Malazzi, un po’ sacrificato, come detto, nelle scene dove è stato relegato… fuori scena.

Rebeka più che dignitosa (di Callas non se ne sentono molte in giro, oggigiorno) e giustamente premiata alle chiamate finali. de Barbeyrac così e così (un Jason con qualche ingolatura di troppo). Idem il Créon di Di Pierro, voce dal timbro poco rotondo e scarsa proiezione. Bene la Rossomanno, una Dircè che si è fatta valere già dalla sua aria di esordio e nei concertati. Un gradino sotto la Néris della Brè, che non ha reso al meglio la sua grande aria, voce piccola e con qualche deficit di decibel. Doveri e Gaudenzi (ancelle) appena sufficienti.

Che dire, in definitiva? Intendiamoci, al problema-Médée non c’è una soluzione accettabile (perché rigorosa) al di fuori di quella indigeribile (Francia esclusa… forse) di eseguire precisamente ciò che fu messo in scena nel 1797. Ma allora, perso per perso, in Italia dovremmo fare di necessità virtù e restare sulla versione italiana (di Zangarini-Lachner) che è di gran lunga la meno-peggio di tutte (inclusa la recente versione francese di Alan Curtis…) Meglio di sicuro di questo ibrido francamente discutibile. Comunque il pubblico (a parte le divisioni su Michieletto) ha mostrato di apprezzare. E va bene così.  

11 gennaio, 2024

En attendant Médée

Sta finalmente arrivando alla Scala la Médée originale (o almeno così la si promette) del 1797 (la prima data a Parigi, Théâtre Feydeau, il 13 marzo) dopo che in passato (due sole volte, per la verità) al Piermarini era sempre stata eseguita la versione spuria in lingua italiana resa celebre dalla divina Maria Callas (1953 con Bernstein e 1961 con Schippers).

L’originale di Cherubini è in lingua francese (testi di François-Benoit Hoffmann) ed è un Singspiel (detto alla tedesca) in piena regola, cioè costituito da scene musicate alternate a dialoghi parlati (nella fattispecie in raffinato metro alessandrino, non in prosa usuale). Non per nulla tale Beethoven ne fu entusiasta, prendendolo a modello per il suo Fidelio!

Opera che si situa sullo spartiacque fra classicismo e romanticismo: vi si distinguono il lascito di Gluck e (fin dall’attacco dell’Ouverture) i prodromi di Weber.

Come succederà più tardi a Bizet e alla sua Carmen (originale in musica + parlato, come imposto obbligatoriamente dal capitolato tecnico di un’opéra-comique) che per l’esportazione verrà ritoccata da Guiroud (recitativi musicati a sostituire i dialoghi parlati) anche la Médée fu sottoposta a trattamento analogo per renderla meglio fruibile fuori di Francia.

Così nel 1855 in Germania, oltre alla traduzione del testo in lingua crucca, il Direttore Franz Lachner pensò bene di sostituire i dialoghi con recitativi da lui musicati (che con Cherubini c’entrano precisamente come i cavoli con la merenda…)

Nel 1909 l’intero pacchetto-Lachner venne poi tradotto in italiano da Carlo Zangarini: ed è in questa forma assolutamente spuria che ancor oggi si esegue la Medea nella nostra lingua. E così la cantò Callas, non solo alla Scala, ma anche in altre quattro occasioni (in teatri o sale di incisione).

Ed in effetti la cosa paradossale – vedi un po’ come va il mondo… - è che la versione inquinata è proprio quella che diventa celebre ovunque: vale per la Carmen adulterata da Guiraud, e vale per la Medea di Lachner, come anche per il Boris rimaneggiato da Rimski!

In anni (o decenni, ormai) recenti anche Médée ha goduto di un trattamento di rivitalizzazione, materializzatosi in esecuzioni della versione originale, come quella di Martinafranca del 1995 (Fournillier sul podio e Iano Tamar protagonista); oppure questa assai interessante (per lo sdoppiamento degli interpreti, fra cantante ed attore) messa in scena a Compiègne nel 1996 e poi portata in film (ahinoi di non eccelso livello e con qualche taglio di troppo…); e infine questa americana del 1997.

Più recentemente (2012) il compianto barocchista Alan Curtis ha realizzato (per l’edizione critica di Heiko Cullmann presso Simrock) una versione musicata dei dialoghi: questa versione fu presentata nel 2015 a Ulm e proprio poche settimane fa è stata ripresa con grande successo a Madrid.

Poi c’è chi – Krzysztof Warlikowski - ha sperimentato (2008 a Bruxelles, ripresa nel 2011 anche a Parigi) una soluzione ibrida, sostituendo i versi alessandrini dei dialoghi di F-B Hoffmann con testi in prosa moderna.

La Scala: cosa ci offrirà il trio Meyer-Gamba-Michieletto? Il numero di gennaio della Rivista del Teatro ci dà qualche importante anticipazione. Tanto per cominciare, è categoricamente escluso che si tratti proprio della versione francese del 1797: non ascolteremo infatti i dialoghi parlati originali (e ciò potrebbe già far tirare un sospiro di sollievo a molti…); al loro posto, Michieletto e il drammaturgo Mattia Palma (collaboratore editoriale del Teatro) ci hanno preparato interventi – parlati, c’è da giurarci, ma in francese? - dei due figlioletti di Médée. Di loro, nell’originale di Hoffmann si sente ovviamente parlare, ma compaiono (senza peraltro aprir bocca e menchèmeno il… cervello) soltanto alla fine del dramma; in Euripide pronunciano non più di due frasi smozzicate… Quindi ci rappresenteranno (come si dovrebbe immaginare) la loro visione di Michieletto-Palma della vicenda e del suo procedere (!?)

In ansiosa attesa di assistere (per giudicarlo) al prodotto finito scaligero, mi permetto di proporre, proprio a futura memoria, il testo del libretto (originale francese e traduzione italiana, non di Zangarini) che evidenzia chiaramente le parti parlate da quelle musicate. Da notare che l’aria di Jason del primo atto (Eloigné pour jamais d’une épouse cruelle) non era presente nel libretto stampato in origine, e fu evidentemente aggiunta in seguito. Un’altra curiosità riguarda la scena finale dell’opera: sulla partitura, dopo l’ultima esternazione di Medea, questa viene descritta librarsi in aria mentre dal tempio si alzano le fiamme. Nel libretto invece Medea sprofonda in un abisso dal quale si sprigiona poi l’incendio:

partitura
libretto
Medea

Più felice di te io me ne vado volando nell'aria!

(Con queste parole ella si invola nell’aria. Una esplosione di fuoco esce dal tempio e si diffonde dappertutto. Il popolo cerca di salvarsi in ogni dove.

Il temporale si fa sentire e continua fino alla fine.)

Médée

Plus heureuse que toi je m’en vais dans les airs!

(À ces mots, elle s’élève dans les airs. Un gouffre de feu sort du temple et se communique partout. Le peuple cherche à se sauver de toutes parts.


Le tonnerre se fait entendre et continue jusqu’à la fin.)
Medea

Più felice di te io me ne vado nell'Inferno!


(Con queste parole ella si inabissa con le tre Eumenidi che la trascinano. Fiamme escono dalla voragine dove essa è precipitata. Il fuoco si estende al tempio e al palazzo. Scoppia un temporale. Alla fine il tempio con la montagna stessa crolla e si inabissa. Il popolo afferra Giasone e lo trascina via. Il temporale si fa sentire e continua fino alla fine.)
Médée

Plus heureuse que toi je m’en vais dans les enfers!

(À ces mots, elle s’enfonce avec les trois Euménides qui la saisissent. Des flammes sortent du grouffe ou elle est descendue. Le feu se communique au temple  et au palais. La tonnèrre éclate. Enfin le temple, la montaigne meme s’écroule et s’abime. Le peuple soisit Jason et l’entraine. Le tonnerre se fait entendre et continue jusqu’à la fin.)

Infine, il libretto contiene un’ultimissima didascalia, assente nella partitura:

(Quando il coro e Giasone sono usciti di scena il palazzo crolla del tutto. L’intera scena è in fiamme e non si vedono che rovine e incendi.)
(Quand le choeur et Jason sont sorti de la scène, le palais achève s’écrouler. Tout le théatre est en feu, et n’offre plus que ruines et incendie.)
___
Sempre per ricordare l’originale-originale (che non avremo il piacere-dispiacere di ascoltare alla Scala, e quindi per immaginare cosa ci saremo persi o guadagnati) segue ora - con riferimento alla citata registrazione americana, non esaltante me almeno completa in tutte le parti - una sommaria sinossi dell’opera. In rosso le sezioni principali (canto-parlato).

La corposa Ouverture è in forma sonata (con alcuna licenza…), nella tonalità d’impianto di FA minore. I due canonici temi hanno – appropriatamente, per richiamare i due aspetti (crudo e sentimentale) del soggetto – caratteristiche contrastanti: severo e drammatico il primo, più lirico il secondo (28”). Il primo tema, subito esposto a piena orchestra, anticipa l’atmosfera del weberiano Freischütz (la gola del lupo, pure ripresa nell’ouverture di quell’opera). La struttura, invero originale, prevede una seconda esposizione dei due temi (1’14”) nelle tonalità relative (FA maggiore e LAb maggiore) con il secondo riesposto (1’53”) in forma assai ampliata. Lo sviluppo (3’32”), relativamente breve, è incentrato sul primo tema, esposto in diverse tonalità (LAb maggiore, SIb minore, DO minore e infine FA minore). La ripresa (4’27”) ripete il secondo tema dalla seconda esposizione, ma in FA maggiore, quindi chiude con il primo tema (6’13”) nel canonico FA minore, con una melodrammatica cadenza finale.

Chiusa l’Ouverture, il sipario si alza sul palazzo di Créon, dove la figlia Dircé si esibisce (7’41”) in un pezzo d’insieme (Quoi? Lorsque tout s’empresse à remplir vos souhaits) in SIb maggiore, ma con inflessioni malinconiche, con le due confidenti ad altre ancelle. Invece di gioire per le imminenti nozze con il grande Jason, la principessa ha oscuri presentimenti sul suo futuro: lui ha già tradito la madre dei suoi figli, potrebbe riservare anche a lei lo stesso trattamento? Le ancelle cercano di rincuorarla e lei, dopo un recitativo accompagnato (16’01”, Je cède à ta voix consolante) che modula a DO maggiore, canta, fra svolazzi del flauto iniziati già durante il precedente recitativo, la sua moderatamente ottimistica aria Hymen! viens dissiper une vaine frayeur.

Classica aria tripartita, dove Dircè dapprima (17’01”) e sempre in DO maggiore, invoca la benedizione sul suo prossimo matrimonio; poi (18’03”) con passaggio alla dominante SOL maggiore e divagazioni (19’02”) a LAb e LA maggiore, si augura che il destino e gli dèi tengano lontana da lei la perfida e vendicativa Médée. L’aria si chiude (19’40”) con il ritorno a DO maggiore per la ripetizione dell’invocazione iniziale, qui abbellita da virtuosismi e colorature, e seguita dalla cadenza conclusiva. 

Ecco poi (22’30”) il primo passaggio parlato: Créon teme che i figli di Pélias, per vendicare il padre ucciso da Médée, la stiano inseguendo fin lì per uccidere lei e i suoi figli. Il Re promette a Jason di difendere i suoi piccoli e Jason prima che inizi la musica del corteo fa consegnare alla promessa sposa, come doni di nozze, il Vello d’oro e il resto del bottino degli Argonauti. Ed ecco appunto  (23’50”) la marcia con coro (RE maggiore e dominante LA) in onore di Dircè.

Ma durante la sfilata in suo onore (24’59”, Belle Dircé) la giovane principessa è nuovamente assalita da foschi presagi, espressi in un breve recitativo accompagnato (26’58”, ô funeste présage!) che induce anche Jason a preoccuparsi. In un nuovo passaggio parlato (27’12”) è Créon a chiedere ragione alla figlia della sua tristezza, al che lei confida a Jason tutti i suoi timori su Médée, mentre lui cerca di rassicurarla cantandole la sua aria Eloigné pour jamais d’une épouse cruelle, in LA maggiore. 

È in forma di rondò, aperta (29’08”) dal ritornello su cui Jason si felicita del nuovo corso della sua esistenza, dopo la parentesi dell’infelice matrimonio. Seguono le brevi strofe, dove Jason si dice certo che il nuovo legame con lei sarà imperituro e, sull’ultimo ritorno del motivo principale, le giura eterna fedeltà.

Senza soluzione di continuità, modulando provvisoriamente alla sottodominante RE, si passa (33’01”) ad un recitativo accompagnato di Créon (Ah! c’est trop s’occuper d’un présage funeste) che introduce (33’42”) il successivo concertato (Dieux et Déesses tutélaires) in FA maggiore, aperto da una nobile, commovente perorazione del Re, che invoca gli dèi perchè benedicano il matrimonio, garantendo felicità agli sposi e a se stesso. Il coro (36’03”) modulando alla dominante DO, ribadisce queste implorazioni e questi auspici. Ora, accompagnati da volute dell’oboe solo, in atmosfera di Re minore, sono Jason e Dircè (37’26”) a promettere di amarsi eternamente. Il coro (39’01”) torna al maestoso FA maggiore per invocare solennemente benedizione e felicità per gli sposi. 

Ma la serenità della corte di Corinto è solo momentanea, poichè – dando inizio (41’07”) ad un interminabile parlato che copre ben tre scene del primo atto - un corifeo (nel libretto: il comandante delle guardie) entra ad annunciare l’arrivo di una misteriosa donna, sedicente sacerdote di Apollo, che viene per benedire gli sposi. Trattasi (come non immaginarlo!) proprio di Médée, che ben presto si palesa, fra la costernazione generale. Abbiamo qui un primo drammatico confronto, fra la donna e Créon, che minaccia di cacciarla dal suo regno e poi (45’24”) in una nuova aria con pertichini di Dircé e del coro delle ancelle (C’est à vous à trembler, Femme impie et barbare!, un cupo e agitato SI minore, a distanza di tritono dal solenne FA della cerimonia) assicura la figlia che Médée sarà punita come si merita. Davvero imperiosa (45’48”) e spaventevole la minaccia di morte che il Re muove all’intrusa!

E un nuovo e ancor più drammatico scontro, ancora in parlato, ha ora luogo (48’27”) protagonisti Médée e Jason, che si rimpallano le accuse: di tradimento, lei; e di atrocità, lui. A questo punto Médée canta (51’25”) la sua prima grande aria Vous voyez de vos fils la mère infortunée, aria tripartita, con una prima parte in FA maggiore, una dolce melodia che mostra il lato sensibile della personalità della protagonista che ricorda tutto l’amore e tutto l’aiuto che lei gli ha dato per una vita, venendo poi, per tutta ricompensa, da lui abbandonata. La seconda parte (53'34”, in LAb maggiore, poi con alcune modulazioni) è occupata dai bei ricordi di gioventù, prima che l’incontro con Jason cambiasse radicalmente la sua vita. Infine (ritorno alla melodia iniziale in FA, 54’54”) Médée si inginocchia ai piedi dello sposo e lo implora di tornare con lei, restituendole la gioia dei figli.  

Il battibecco fra i due, ormai un muro-contro-muro, si chiude (56’50”) con un nuovo, duro passaggio parlato, cui segue (58’49”) il lungo, drammatico duetto (Perfides ennemis, qui conspirez ma peine). In tonalità di MI minore è Médée a portare la sua minaccia contro chi la sta offendendo con questo matrimonio, che lei non consentirà si faccia. Jason sembra impaurito e invoca gli dèi perché fermino quella furia. Modulando a DO maggiore (1h00’17”) ecco la comune imprecazione (cantata in contrappunto!) contro quel fatal Vello che fu causa di tutte le loro sventure. Da qui, tornando a MI minore, si sviluppa un agitato susseguirsi di reciproche minacce, dove i due alternano le rispettive imprecazioni ed invocazioni agli dèi alla comune maledizione del Vello. Una pesante cadenza a piena orchestra pone fine all’Atto primo.

ATTO II

L’Atto secondo si apre con una breve (sole 79 battute) ma drammatica introduzione strumentale. Nella cupa tonalità di DO minore evoca parossisticamente la tempesta che ormai alberga nel cuore di Médée, più che mai decisa ad andare fino in fondo al suo disegno di vendetta.

Siamo nel palazzo di Créon ed assistiamo inizialmente (1’47”a scene di solo parlato, la prima delle quali vede protagonista assoluta Médée, che sfoga tutto il suo amaro, feroce risentimento di moglie tradita contro Jason e contro chi (la rivale Dircé e suo padre Créon) ha distrutto la sua vita: invoca quindi tutte le divinità infernali perché la aiutino ad annientare i suoi nemici.

Arriva poi la fida Néris per annunciarle che il Re e tutto il suo popolo le stanno dando la caccia. E proprio allora sopraggiunge Créon, che le intima di lasciare il paese, per non subire il meritato castigo. Médée risponde che lei è una vittima, e chiede ragione dell’esilio che le viene imposto. Créon le confessa di temere i suoi poteri e la sua vendetta, conoscendo bene ciò di cui è stata capace in passato. Ma lei ribatte che senza i suoi crimini oggi Jason non sarebbe lì come il benvenuto, a chiedere la mano di Dircé e ad offrirle in dono il bottino delle sue imprese.

Torna ora finalmente la musica (7’59”), con un lungo concertato in MIb (Ah! Du moins à Médée accordez un asile) protagonisti Médée, Créon, Néris e le guardie del Re. Una convulsa figurazione (ascendente-discendente) apre il concertato, anticipando le secche risposte negative di Créon alle suppliche di Médée. La quale cerca in tutti i modi (9’00”) di convincere il Re a consentirle di rimanere lì a fianco dei suoi figlioletti. Ma Créon sembra irremovibile, spalleggiato dalle sue guardie. Nel frattempo la tonalità è stata oggetto di divagazioni (RE e LAb maggiore). Néris (10’52”) cerca di placare l’ira di Médée, che passa alla tattica dell’implorazione (12’48”) supplicando Créon di concederle almeno un solo giorno di vicinanza con i figli, prima di andarsene per sempre. Dapprima titubante, il Re poi (14’56”) acconsente a malincuore, mentre Médée (tornando al MIb) già pregusta la vendetta.

Adesso è Néris a prendere la scena, manifestando tutta la sua pena per la triste sorte che aspetta la sua padrona, dapprima (18’52”) con un breve parlato, poi con la sua grande aria (19’40”, Ah! nos peines seront communes). La apre uno stupefacente recitativo di 27 battute del fagotto solo, che insedia la tonalità di impianto di SOL minore. Néris dichiara la sua totale fedeltà alla padrona. Poi (21’47”) modulando alla relativa SIb maggiore, le assicura che la seguirà fino alla morte. Torna a SOL minore (22’42”) per constatare lo stato di prostrazione di Médée, poi da qui vira fugacemente a RE maggiore, chiedendosi chi potrebbe trattenere il pianto di fronte al suo destino. Finalmente riprende il SOL minore (23’09”) con la reiterazione dell’impegno della schiava a seguire la padrona fino alla morte.

A questo punto (26’46”) abbiamo un altro corposo parlato, che inizia con Médée che medita la sua vendetta e Néris che la osserva sempre più angosciata. Poi Médée esplode nella sua folle idea: uccidere insieme Jason, Dircé e Créon! Proprio allora compare Jason e assistiamo al duro scontro con la moglie abbandonata: lui cerca di ammansirla, ma alla richiesta di lei di avere con sé i figli, oppone un deciso diniego 

Qui Médée pone in atto il suo diabolico disegno (32’59”): in un duetto con Jason (Chers enfants, il faut donc que je vous abandonne!) in tonalità di RE minore, tutto caratterizzato dalla di lei subdola ipocrisia, finge di accettare il suo infausto destino. Con un canto tutto spezzato, come singhiozzante, ricorda i bei tempi andati, provocando in Jason un misto di pietà, di rimpianto e di strazio, e così aprendo un varco nel cuore di lui, che le concede (34’35”) di rivedere i figli prima di andare in esilio. A parole lo ringrazia del favore, ma dentro di sé già prefigura il dolore che ha deciso di infliggergli. Jason sembra addirittura preoccuparsi del di lei futuro, le promette persino (37’05”) di pregare per lei, durante il rito che Créon si appresta a celebrare nel tempio. Lui è sinceramente addolorato, mentre lei dentro di sé gli giura che pagherà caro il suo tradimento.

Partito Jason (40’00”) riprende ora il parlato e Mèdée rivela a Néris il suo piano: donerà a Dircé un preziosissimo abbigliamento nuziale, impregnato di velenosi profumi che la uccideranno.

Eccoci ora al solenne finale dell’Atto secondo (41’54”). Il fondo della scena è occupato dal tempio e una banda dietro le quinte accompagna il corteo nuziale; al proscenio, Médée e Néris commentano (parlando) la scena. La marcia con coro (Fils de Bacchus, descend des Cieux) che anticipa quasi il Lohengrin, si apre in FA maggiore, con invocazioni a Bacco, mentre Médée sarcasticamente se ne compiace. Attacca ora (44’38”) una sezione in LA maggiore, con il coro che benedice le nozze, interrotto dall’imprecazione di Médée, che si auto-benedice. Riprende il coro, poi un subitaneo passaggio a DO maggiore (46’56”) introduce Créon e Dircé, che implorano felicità agli dèi (Médée interviene per offrire un diadema alla sposa). Si aggiunge a loro anche Jason, che chiede agli dèi protezione per i suoi figli (Médée commenta con una maledizione). Il coro riprende (48’15”) in FA maggiore e ancora Médée (in DO) si interpone per reclamare la fede di Jason. Infine il coro inneggia ai giuramenti degli sposi e Médée vi aggiunge il suo: la tremenda vendetta! 

Con ciò, come un’invasata, mentre l’orchestra chiude con una melodrammatica cadenza, si slancia sull’altare, afferra un tizzone ardente ed esce dal tempio agitandolo nell’aria.

ATTO III

L’Atto terzo è aperto da un’introduzione strumentale, in tonalità di RE minore, con squarci nella relativa FA maggiore. Come avvertono la didascalia del libretto e le note in partitura, siamo sulla montagna che sovrasta il palazzo di Créon e il tempio. È ancora notte, atmosfera da tregenda: dopo una cupa introduzione, che evoca sordi e lontani brontolii, ecco scatenarsi gli elementi: è l’ottavino a gettare i primi sinistri lampi del temporale. Si tratta di una tempesta materiale ed allo stesso tempo della tempesta psicologica che si agita nella mente di Médée, che si vede scendere dalla montagna e dirigersi verso il palazzo dove sono nel frattempo entrati Néris e i suoi due figlioletti per consegnare l’abbigliamento nuziale (avvelenato) per Dircé.

Médée arriva sul posto impugnando un pugnale e in parlato (6’25”) si prepara ad attendere i due figli, per ucciderli come castigo per Jason e i suoi protettori. Mentre albeggia sopraggiunge appunto Néris con i bambini, che incita ad abbracciare la madre. La quale si invece schermisce, poi li stringe a sé, lasciandosi sfuggire di mano il pugnale: Néris comprende le sue intenzioni e ne rimane inorridita.

Ora Médée ha come un ripensamento e lo esprime (9’01”) nella sua aria (Du trouble affreux qui me dévore) in MIb maggiore con parte centrale nella dominante SIb. Nella prima parte dell’aria – assai accorata - Médée sembra pentirsi della sua decisione. Poi il tempo si agita, si passa a SIb (10’40”) e Médée chiede agli dèi di aiutarla ad evitarle quell’insano gesto che meditava. Ma ben presto il pensiero cade su Jason, il fedifrago, e così ritorna in lei la decisione più drastica e orribile, confermata nella terza parte dell’aria (12’25”), ancora in MIb.

Inizia qui (13’36”) un nuovo parlato: Néris cerca di convincere la padrona ad accontentarsi della vendetta verso Jason: Dircè ha appena indossato l’abito nuziale che l’avvelenerà! Médée non è più padrona delle sue azioni, così prega Néris di portare i bambini nel tempio.

Siamo ormai giunti al finale dell’opera. Rimasta sola (15’42”) in un lungo recitativo accompagnato (Eh quoi, je suis Médée et je les laisse vivre!) in RE minore (FA maggiore) Médée si pente di aver allontanato i figli; poi (modulando di un tritono, a LAb maggiore) si vergogna di provare sentimenti materni, abbandonando però i figli alla mercè di un padre fedifrago. La tonalità passa a RE maggiore e il recitativo sfuma direttamente (18’38”) nella grande aria O Tisiphone! Implacable Déesse!

Dapprima Médée chiede alla dèa di soffocare i suoi sentimenti di umanità e di farle ritrovare il pugnale; poi, modulando a LA minore/maggiore, si ridà animo per compiere il fatale gesto verso i figli. Chiude in RE maggiore ripetendo l’appello iniziale a Tisifone.

Dal tempio (21’30”) arrivano grida e lamenti: è Dircé che sta morendo, in preda agli effetti del veleno. Jason (22’41”) si dispera per la sorte della sposa, ma Médée in un recitativo accompagnato (23’42”) gli ricorda che i figli sono ancora in suo potere e corre nel tempio per ucciderli.

Jason e il popolo la seguono per impedirle il delitto, ma Néris (26’27”) arriva inorridita e annuncia che Médée sta ormai per sopprimere i bambini. Jason si slancia nel tempio per fermarla, ma la donna (26’50”) esce, circondata dalle Eumenidi, impugnando ancora il pugnale insanguinato: i bambini sono stati sacrificati come vendetta per il suo tradimento! Jason, distrutto, la implora di lasciarle almeno vedere le piccole salme, ma Médée lo maledice, gli indica la sua meritata pena: vagare disperato nel mondo, mentre lei si librerà nell’aria per poi attenderlo negli Inferi.

Detto ciò si invola, mentre lingue di fuoco escono dal tempio (29’35”). Tutti fuggono per portarsi in salvo e l’opera si chiude con un generale sentimento di orrore. L’orchestra suggella il dramma con pesanti accordi di RE minore.