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23 aprile, 2018

Crociati al Regio



Al Regio di Torino è andata in scena ieri pomeriggio la quinta delle sette recite dei verdiani Lombardi. Primo ma classico esemplare di opera degli anni-di-galera, nacque sull’onda del clamoroso successo di Nabucco, del quale ripete (purtroppo in peggio) il canovaccio: scenario (pseudo-)storico, che offre il destro per grandi affreschi epico-corali, sul quale innestare vicende private, occasione per scolpire in musica ogni sorta di sentimenti e paranoie umane. Ma mentre Nabucco ha una solida struttura drammatica, i Lombardi (ispirati al poema di Grossi, dal soggetto che definire contorto è un complimento, e così da Solera trasformato maldestramente in libretto) appaiono come un’accozzaglia di elementi eterogenei e spesso letteralmente inverosimili.

Tanto per cominciare: lo sfondo storico resta alquanto sfumato, e si materializza appena-appena solo nel secondo, terzo e quarto atto; per il resto tengono banco le prosaiche vicende di amori e vendette che maturano all’interno della famiglia del signore di Rò.

Sul fronte della ridicola plausibilità della trama basti notare che Pagano è andato una prima volta in esilio in Terrasanta dopo aver tramato contro il fratello Arvino, reo di avergli strappato l’amore di Viclinda, ed ora torna a Milano nientemeno dopo 18-20 anni (quanti ne deve avere Giselda, sua... nipote, ancora di là da venire ai tempi del misfatto). Poi pensa bene (con l’aiuto dello sbifido Pirro) di vendicarsi del fratello ammazzando lui per rapire per sè una babbiona ormai sulla soglia della menopausa (!)

E poi: la Viclinda medesima che fa a tempo a declamare giusto quattro versi smozzicati e poi a cantare un paio di concertati del primo atto, dopodichè scompare letteralmente nel nulla (sapremo della sua morte dalle parole della figlia nel second’atto...)   

A proposito di Viclinda e del suo matrimonio: forse ha poca importanza stabilirlo, ma è un fatto che nè Grossi, nè quindi Solera si degnano di chiarire chi, fra Pagano e Arvino, sia il primogenito. In casi simili al più anziano viene affidata la tessitura più bassa, al giovane quella acuta. Ma nella vicenda in questione si dovrebbe pensare che Arvino sia il maggiore dei fratelli e si sia preso Viclinda solo perchè a quei tempi la primogenitura garantiva anche il diritto di prelazione sulla femmina da impalmare, indipendentemente dal piano dei sentimenti. E ciò spiegherebbe il comportamento invidioso e vendicativo di Pagano. Ergo la tessitura di basso sarebbe stata da Verdi affibbiata al fratello cattivone (e poi... santone) anche se più giovane, e quella di tenore al fratello maggiore, nato con la camicia.

Ancora: Arvino, Pagano, Giselda e Pirro che partono separatamente per la Terrasanta - il primo come capo dei Crociati lombardi; il secondo per un nuovo turno di penitenza; la terza per adempiere il voto fatto con la madre (nel frattempo scomparsa appunto non si sa come nè dove); e il quarto che per il rimorso va in Palestina a... convertirsi all’Islam! - e che però, dopo un’interminabile peregrinazione attraverso Italia, Dalmazia, Grecia e Turchia, si ritroveranno tutti insieme, miracolosamente e con cronometrica puntualità, dalle parti di Antiochia! A proposito faccio qui un’osservazione critica al regista Mazzonis: negli atti 2-3-4, ambientati in Palestina a pochi mesi dal primo di Milano, tre dei quattro succitati personaggi (Arvino, Giselda e Pirro) mantengono pienamente le loro caratteristiche somatiche; invece Pagano, trasformatosi in eremita, pare invecchiato di 50 anni almeno: da giovanottone imberbe e dalla lunga chioma corvina raccolta a coda di cavallo, ora mostra capelli bianchi sciolti e una lunghissima barba pure bianca, talchè pare diventato il bisnonno di suo fratello Arvino! Pensavo di spiegare la cosa con il desiderio del regista di rendere plausibile ciò che in Solera è ridicolo (nessuno riconosce Pagano) immaginando che il cattivone si sia dotato (stando al regista) di capelli e barba finti. Ma alla fine, quando lui si rivela, il regista non gli fa togliere i peli posticci, e così al ridicolo di Solera dobbiamo aggiungere quello di Mazzonis...

Il tema di un amore che nasce fra due individui di religione ed etnia diverse e nemiche (nel Nabucco impersonati da Ismaele e Fenena) è qui riproposto nelle figure di Oronte e Giselda: là a convertirsi è la femmina, qui - par condicio - il maschio!   

(Buona parte di queste bizzarrie verrà lodevolmente rimossa da Royer&Vaëz, autori del libretto francese di Jérusalem, derivata 5 anni dopo dai Lombardi.)

Ciò che - a dispetto dell’inconsistenza del libretto - consente all’opera di rimanere saldamente presente nei cartelloni di tutto il mondo è (manco a dirlo) la musica del giovane Verdi, quella musica sanguigna, proterva, sfrontata, proprio dissodata con la vanga, come è stato coloritamente sentenziato. Ma musica che presenta anche preziosità e raffinatezze, includendo persino una specie di romanza per violino solista, una delle dimostrazioni di cosa avrebbe potuto fare Verdi nel sinfonico, solo ne avesse avuto voglia e soprattutto... gli stessi lauti proventi che gli garantiva il melodramma.

E della musica si è occupato assai bene Michele Mariotti, del quale è da lodare soprattutto l’accuratezza della concertazione: precisione negli attacchi (con la sua maninamorta-à-la-Abbado) ed accompagnamento sempre rispettoso delle voci, mai messe in difficoltà. Forse - ma è questione davvero di gusti - il direttore pesarese ha smussato un tantino di troppo le (supposte) volgarità di questo primo Verdi, che personalmente preferirei risaltassero maggiormente, essendo proprio una delle componenti di base di opere come questa (non parlo di decibel del suono, ma di una certa rusticità di fraseggio). Ma il mio voto resta comunque alto, magari senza la lode, ecco. Alto anche il voto per l’Orchestra, guidata da Stefano Vagnarelli, esibitosi nel pezzo solistico del terz’atto (applaudito a scena aperta) e alla fine chiamato da Mariotti sul palco.

Trionfatori del pomeriggio i due innamorati Angela Meade e Francesco Meli. Lui non ha bisogno di conferme, essendo in Italia il top. Lei invece è una piacevole conferma: voce di invidiabile corposità, acuti pulitissimi (un paio in pianissimo davvero pregevoli; su un paio di forzature si può sorvolare) e agilità brillanti. Ottima anche la sua espressività e la capacità di passare (come nel quart’atto) dal religioso raccoglimento alla gioia più sfrenata. (Qualcuno storcerà il naso per le sue ehm... dimensioni, ma meglio una sfera che canta così che una top-model gallinacea.)

Alex Esposito è andato un po’ a corrente alternata: stranamente apatico all’inizio, è cresciuto verso la fine, ma ai miei occhi (e orecchi, soprattutto) gli è mancata l’autorevolezza e la drammaticità del ruolo. Insomma, mi aspettavo di più, ecco.

L’Arvino di Gipali e il Pirro di Di Matteo non mi hanno francamente entusiasmato: voci modeste e poco penetranti, senza infamia e senza lode.

Gli altri 4 comprimari hanno dato il loro onesto contributo, del quale vanno ringraziati.

Discorso a parte merita il coro di Andrea Secchi, davvero all’altezza in quest’opera che lo mette duramente alla prova. Peraltro ne hanno fatto le spese Esposito e Gipali soprattutto, che nei concertati sono stati letteralmente ingluviati da quella debordante massa sonora.

Alla fine successo enorme per tutti, con ovazioni alle singole e ripetute chiamate al proscenio.
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La regìa di Mazzonis (viene dalla sua Liegi ed è mutuata da quella di Jérusalem) è precisamente ciò che si definisce tradizionale. Cioè ci si vedono (sullo sfondo) dapprima SantAmbrogio, un palazzo (di Folco) e poi ambienti orientaleggianti (Antiochia) e infine la Città Santa. Poco altro in scena. Costumi presunti degli anni attorno al 1100.

Unica concezione al modernismo è il filmato che scorre sulle note della battaglia fra crociati e musulmani: sono immagini del Nevsky di Eisenstein e ci si può domandare la ragione di tale accostamento. Mah, di certo c’è che nel Nevsky i crociati (cavalieri teutonici) vengono sconfitti! E Mazzonis in effetti chiude con una visione ecumenica, un abbraccio generale fra gli opposti combattenti.

Certo però che il soggetto sarebbe davvero allettante per farci delle geniali de-strutturazioni. Ad esempio, trasformandolo in un caso clinico di sapore freudiano... che so, Pagano che è affetto da complessi di inferiorità e da sete di vendetta a causa di uno sgarbo bullistico inflittogli da piccolo dal fratello maggiore, reo di avergli rubato e dato alle fiamme un’automobilina a pedali, o di averlo battuto con un imbroglio alla play-station. Oppure proponendo un’attualizzazione politica che ambienti la vicenda nella Siria di oggi, con Arvino(-Trump) che riempie di missili il povero Pagano (-Assad) reo di aver messo dei dazi sull’importazione di Coca-Cola.

Sì, perchè Verdi mica componeva opere, come questa, con cori e bande, per farci trascorrere un paio d’ore di sano svago musicale... no no, lui si proponeva di darci dei gran pugni nello stomaco, di costringerci a pensare e a macerarci sui massimi sistemi!

Peccato che il pubblico di Torino (quantomeno quello di ieri) sia apparso assai contento di non aver preso pugni, almeno a giudicare dall’accoglienza trionfale riservata a questa produzione. Amen.

12 maggio, 2014

Il Tell(enin) di Vick approda a Torino


Il Regio di Torino riprende in questi giorni l’allestimento del Tell di Graham Vick presentato all’ultimo ROF. Solo l’allestimento, chè ogni altro ingrediente del minestrone è totalmente diverso: là il Guillaume originale di de Jouy e Bis, qui il Guglielmo in versione Calisto Bassi (per fortuna ripulito da Paolo Cattelan); là l’orchestra del Comunale di Bologna con Mariotti, qui quella del Regio con Noseda; e (quasi) tutto il cast cambiato.

Anche i contenuti musicali divergono non poco fra le due proposte: a Pesaro andò in scena l’opera (quasi) come da edizione critica della compianta M. Elizabeth C. Bartlet per la Fondazione Rossini (un paio di tagli, rispetto alla prima di Gelmetti del 1995, comunque furono perpetrati anche là: il Pas de deux e l’invocazione degli austriaci a Tell, nella scena della tempesta dell’atto finale). Mentre a Torino si è sostanzialmente seguita la versione Muti (Cattelan) del 1988, che è comunque basata – lingua del testo a parte - sulla versione critica, ma non ne accoglie al 100% i contenuti: quindi esclusa, rispetto a Pesaro, anche l’aria di Jemmy, prima del tiro-alla-mela; in più Noseda ha (forse per coprire manchevolezze degli interpreti?) tagliato alcune ripetizioni alla fine di duetti (Matilde-Arnoldo) e concertati (Giuriamo): beh, diciamo che sono sempre dolorosi ma non proprio… scandalosi, ecco.

Dalibor Jenis è un Tell discreto ma non di più (secondo me, ovviamente): gli manca quel tocco di autorità che sarebbe richiesto per la parte. Insomma, le note le canta, ma non… incanta. 

John Osborn è stato il trionfatore della serata, in virtù della sfilza di DO acuti che ha sciorinato: l’ultimo, sull’all’armi, proprio à-la-Duprez (acuto che Rossini aborriva come verso di bestia sgozzata, e infatti non lo scrisse) emesso con piglio addirittura irridente. Evidentemente, dopo la catastrofe a Santa Cecilia di qualche anno fa, il nostro deve averne fatto un punto d’orgoglio: diamogliene atto!

Angela Meade (Matilde) è davvero una cantante a-tutto-tondo (stra-smile!): ha mostrato buona impostazione, acuti ben portati; mi è parsa un filino meno efficace nelle note basse.

Luca Tittoto (il bieco Gessler) è l’unico superstite del ROF-2013: per me ha confermato la discreta prova di allora.  

Anna Maria Chiuri come Edvige si è ben distinta: voce calda e bene impostata. Lodevole anche la prova di Mirco Palazzi (Gualtiero) un basso che mi pare in continua crescita.

Fabrizio Beggi è un buon Melcthal. Nel video del quarto atto, evidentemente portato da Pesaro, si doveva vedere l’interprete di allora, Simone Alberghini. Invece il proiettore, proprio come Jemmy, è rimasto fermo e immobile: chissà, forse perché Alberghini ha chiesto troppo per i diritti di immagine… (smile!)

Marina Bucciarelli mi è parsa, come Jemmy, un filino sotto la media: voce piccola, poco penetrante ed espressione incerta.

Bravo nella sua parte piccola ma impegnativa Mikeldi Atxalandabaso, assai sicuro nei DO acuti cui è chiamato, per di più proprio a… rompere il ghiaccio.

Luca Casalin (capo degli arcieri) Ryan Milstead (Leutoldo) e Giuseppe Capoferri (un cacciatore) hanno degnamente completato il cast.

Ottimo come sempre il Coro di Claudio Fenoglio.

Quanto a Noseda, ha ancora una volta mostrato grande sensibilità e cura dei particolari. Merito anche dei ragazzi dell’orchestra; peccato che l’assolo iniziale del violoncello di Lukic sia stato rovinato da interventi sconsiderati di alcuni percussionisti dislocati in platea (all’ingresso andrebbe fatto a tutti un test di idoneità delle vie respiratorie…)
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Sulla regìa di Vick ho già scritto abbastanza peste-e-corna in occasione del ROF-2013, quindi mi limiterò a re-citare le due fondamentali negatività di questa produzione. La prima riguarda la scelta, tutta ideologica, del simbolismo (vetero-comunista) impiegato per presentare una lotta di popolo per la libertà e l’indipendenza: il pugno chiuso e le bandiere rosse (purtroppo, dobbiamo ammetterlo) hanno perso ai nostri occhi il loro originale e nobile contenuto, dacchè l’esperienza storica ci ha detto inconfutabilmente che essi non hanno mai portato ai popoli né libertà, né indipendenza, al contrario hanno prodotto sempre dittature e sovranità limitata. Per cui, sostituirle alla gloriosa bandiera rosso-crociata è un autentico delitto.

La seconda negatività riguarda lo spregio dei contenuti testuali e soprattutto musicali dell’opera, come ho esemplificato a suo tempo. Non a caso anche ieri alla fine dei balletti del terzo atto, accanto ai doverosi applausi per l’esecuzione musicale c’è stata una chiara manifestazione di dissenso fra il pubblico del Regio, indubbiamente rivolta contro le efferatezze di cui Vick ha infarcito quella scena.
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In ogni caso, ancora una volta, è la musica ad aver colpito l’immaginazione del pubblico (assai folto) che ha lungamente applaudito tutti i protagonisti.  

La produzione – in forma di concerto, quindi significativamente senza il contributo di Vick – verrà portata il 7 dicembre (proprio SantAmbrogio!) alla Carnegie Hall con lo stesso cast (primo-secondo) di questi giorni.