XIV

da prevosto a leone
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16 gennaio, 2020

Shakespeare gallico di ritorno alla Scala


Quando a giugno 2011 andò in scena questa produzione, Roméo-et-Juliette di Charles Gounod mancava dalla Scala da ben 77 anni. Adesso l’intervallo si è ridotto al 10%, a tardiva riparazione dell’offesa...

La messinscena, come detto, è la stessa del 2011, di Bartlett Sher, prodotta in origine per Salisburgo e poi portata al MET e alla Scala. Anche uno dei due protagonisti è quello di allora, Vittorio Grigolo, questa volta affiancato nel suicidio di coppia da Diana Damrau. Avendo scritto qualcosa sull’opera e sull’allestimento (versione, posizionamento dell’intervallo, tagli e regìa) in quella sia pur lontana occasione, vi rimando gli interessati.

La novità principale di questa ripresa è costituita, senza ombra di dubbio, dall’esordio sul podio scaligero (quello della buca, chè quello sul palco già fu calcato...) del rampante Lorenzo Viotti. Devo dire che, a primo ascolto e a prima vista, il non ancora trentenne rossocrociato (figlio d'arte, del padre Marcello, scomparso prematuramente nel 2005) mi ha fatto un’ottima impressione: gesto sicuro, autorevole e mai gigionesco, attacchi precisi e manina sinistra à-la-Abbado (già copiata da Mariotti...) per concertare al meglio chi sta sul palco. Attenzione alle sfumature e ai dettagli della partitura. Insomma, perfetto? Beh, sarebbe troppo pretendere... diciamo che di margini di miglioramento ne ha di sicuro, ad esempio imparare a trattenere la foga in passaggi dove è facile cadere nel bandismo e nel fracasso gratuito. In ogni caso, un esordio più che positivo, salutato da convinti consensi di un pubblico insolitamente (!) folto.

Detto dell’eccellente prestazione del coro di Casoni e di quella per me perfettibile dell’orchestra (ottoni ma non solo) vengo alle voci. Il Grigòlo (o Grìgolo o Grigolò, fate voi, haha) mi aveva lasciato un po’ perplesso nel 2011, quando però aveva 34 anni... oggi sono ancora perplesso, ma lui ne ha ormai 43. Conclusione: diventerà mai davvero grande? Per carità, mica fa schifo, sia chiaro, però, insomma, la presenza scenica è come la bella presenza che si richiede al commesso viaggiatore... ma poi non sempre è una condizione sufficiente per raggiungere l’eccellenza dei risultati. Il controllo dell’emissione mi pare sempre approssimativo e qualche ingolatura residua non fa che tenere bassa, non molto oltre la sufficienza (oh, parere mio eh!) la media.

La Diana Damrau è una Giulietta appropriata come timbro di voce, davvero sottile come si addice ad una giovanissima, peccato che i centri siano poco udibili (un esempio: nelle agilità della sua arietta del primo atto si distingueva una sillaba su due, o addirittura tre). Quindi anche a lei dò una sicura sufficienza, ma non mi spingo oltre.

Un qualche contrattempo deve aver impedito al titolare Nicolas Testé di proporsi come Frate Lorenzo: il sostituto Dan Paul Dumitrescu (presumibilmente arrivato all’ultimo momento) ha fatto del suo meglio e va quindi lodato per aver salvato la situazione. Frédéric Caton è stato un onesto Capulet, partito bene ma poi un poco appannatosi: voce quasi baritonale, che non si adatta perfettamente al personaggio. Anche l’altro basso, Jean-Vincent Blot (Duca) non ha sfigurato. Mattia Olivieri ha ben meritato come Mercuzio, avendo cantato con efficacia e bella voce baritonale la sua lunga filastrocca della Regina Mab.

Ottima impressione mi ha fatto Marina Viotti (un caso quasi unico, essere diretta alla Scala dal fratellino!) che ha sfoggiato una bellissima voce di mezzo interpretando, en-travesti, il ruolo di Stéphano. Corretto il Tybalt di Ruzil Gatin, voce rossiniana, penetrante e bene impostata. Cito ancora la Gertrude di Sara Mingardo, gli altri come da contratto sindacale.

Insomma, uno spettacolo godibile e di onesto livello musicale, accolto da consensi praticamente unanimi.

11 novembre, 2016

Alla Scala le prime Nozze dopo Strehler

 

L’ultima messinscena scaligera delle Nozze mozartiane risaliva ormai al giurassico (1981) Giorgio Strehler, ripresa per l’ottava volta (!) 4 anni e ½ orsono. Oggi viene rimpiazzata da una nuova produzione, firmata da tale Frederic Wake-Walker, uno che già dal nome ti fa pensare ad abbondanti libagioni a base di whisky (smile!) Però sappiamo che un cicchetto o due possono anche stimolare la... fantasia, ecco: e in fin dei conti lo spettacolo messo su da questo albionico rampante riporta un po’ (forse troppo, magari) di sana farsa casereccia nella giornata folle (!) che il suo predecessore aveva (magistralmente) ingabbiato in un forse eccessivo politically-correct.

In fin dei conti le Nozze non saranno certo una farsa tout-court, ma sono pur sempre un’opera buffa, che dalla farsa (come teatralmente intesa) mutua parecchi aspetti, a cominciare dal fondamentale episodio finale dei travestimenti, con annessi equivoci, qui-pro-quo e scambi di persona. Insomma, riportarvi qualche tratto goliardico e magari volgarotto non mi pare un’eresia nè un’offesa al buon gusto. Dopodichè si possono criticare come ingenuità alcune scelte registiche (metateatro da poareti, comparse e suggeritore che animano lo spettacolo e in parte lo disturbano, presenza in scena di personaggi presi di mira in privato da altri, eccessi di pandemonio come la montagna di scartoffie notarili che riempiono l’aria a fine atto secondo, palpeggiamenti ed altre sguaiatezze assortite) che oltretutto non sono nemmeno invenzioni (in un mondo dove ormai tutto è già stato inventato e re-inventato infinite volte) ma che tuttavia rientrano, a mio modesto avviso, nei confini delle libertà interpretative, poichè non stravolgono nè adulterano la sostanza del soggetto. Tanto per avere un riferimento concreto, la fortunata regìa di qualche anno fa di Michieletto a Venezia aveva non pochi caratteri in comune con questa.

E se alla fine di un’opera buffa un pubblico assai folto applaude convintamente divertito significa che ciò che si è visto non era proprio tutto da buttare, anzi. Dopodichè auguriamo a Walker non certo di cercar di diventare Strehler (sarebbe per lui la fine) ma di fare tesoro dell’esperienza per migliorarsi in futuro.   

Di tutto rispetto il livello della prestazione musicale, governata da una (ormai vecchia) volpe a nome Franz Welser-Möst, un compassato viennese famoso per la sua mancanza di... appeal (che a Vienna come a Cleveland gli ha portato più di un nemico): di ieri gli rimprovero due o tre eccessi di decibel che hanno coperto le voci, ma per il resto il suo mi è parso un Mozart abbastanza convincente e rigoroso (magari più in linea quindi con il vecchio Strehler...)

Markus Werba è un Figaro più lezioso che autorevole, ma in fondo in queste Nozze mozartiane sarebbe eccessivo travestirlo (vocalmente) da Barbiere rossiniano, ecco. La Contessa Rosina è una sempre impeccabile Diana Damrau, che riempie di calore il personaggio (l’unico davvero serio in tutta l’opera) della donna che ha visto la felicità sfumarle sotto gli occhi e a cui non restano che il... perdono cristiano e una serena rassegnazione.

Efficace e convincente la Marianne Crebassa nell’impegnativo ruolo di Cherubino, questa autentica mina vagante che rappresenta il prezzemolo sparso copiosamente da DaPonte-Mozart sul loro manicaretto. Accanto a lei bene, se non proprio benissimo, Golda Schultz, che ha dato la giusta dose di spirito e grinta al personaggio di Susanna. Il Conte, a dare il cambio a Carlos Álvarez, era un positivo Simon Keenlyside, al quale forse difetta ancora una pronuncia italiana che renda comprensibile tutto ciò che lui canta: ma i suoni che lui emette sono di tutto rispetto, per volume, corposità e padronanza del mezzo in tutti i registri.

Gli altri (Andrea Concetti sdoppiato in Bartolo e Antonio, Kresimir Spicer anche lui divisosi fra Don Basilio – aria compresa - e Don Curzio, e Anna Maria Chiuri, una sapida Marcellina) su livelli di aurea routine. Hanno fatto discretamente il loro compito le tre rappresentanti accademiche e il (poco impegnato) coro di Casoni

Che dire, in soldoni: già dimenticato Strehler? Sarebbe offensivo sostenerlo, ma come ha detto Obama a proposito di Trump: domani il sole sorge ancora!   

29 maggio, 2015

Torna alla Scala la Lucia yankee


 

A poco più di un anno di distanza è tornata in Scala (e ci resterà per altre 5 recite, fino all’11 giugno) la donizettiana Lucia di provenienza MET. Sullo spettacolo quindi non avrei da cambiare idea, né da aggiungere altro a quel poco dichiarato a suo tempo.

Sul piano del cast, la continuità col passato è garantita dal solo Vittorio Grigolo, che anche ier sera è stato accolto come un marziano, anche se a me non è parso aver fatto molti passi avanti in questi 15 mesi: eccessive forzature dei suoni in alto e scarsa efficacia nei passaggi più intimistici.

Accolta da grande esultanza Diana Damrau, che effettivamente è stata una Lucia convincente, e non solo nella famosa scena della pazzia: qualche difficoltà nelle note gravi non ha offuscato una prestazione di alto livello, sia sotto il profilo della tecnica che sotto quello del portamento drammatico.

Gabriele Viviani è un Enrico dignitoso, ma non trascendentale. Meglio Alexander Tsymbalyuk, ben calatosi nella parte non facile di Raimondo. Gli altri due componenti del famoso sestetto di fine atto II (Juan Josè de León, Arturo, e Chiara Isotton, Alisa) hanno fatto onestamente la loro parte. Il Normanno Edoardo Milletti ha faticato assai a farsi udire, causa il combinato disposto Ranzani-Casoni 

A proposito dei quali dirò che il Coro ha offerto una prestazione degna della sua fama, travolgendo – nei passaggi d’insieme – anche le voci soliste. Ranzani ha diretto a memoria e, a mio modesto avviso, forse ha talora scambiato la partitura della Lucia per quella di… Attila (smile!)  

Pubblico una volta tanto abbastanza folto (sarà l’effetto-EXPO?) e unanime nel giudizio categoricamente positivo (proprio come si fosse al MET!) per questo spettacolo.
       

16 dicembre, 2013

Violetta alla Scala: impressioni dal vivo

 

Ieri sera terza recita (in una Scala che presentava qualche buco in platea e parecchi vuoti nei palchi) del titolo che ha aperto a SantAmbrogio. Come accade non da oggi, dopo una prima contestata, quella di ieri (ma, dicono, anche la seconda) è invece stata accolta da convinti applausi e soprattutto senza aperti dissensi (per la verità è mancato il giudizio sulla regìa, renitente al momento delle uscite finali).


In ogni caso sul fronte dei suoni il risultato mi è parso di livello notevole, grazie ai tre protagonisti principali.

Diana Damrau si è confermata una Violetta di gran spessore, particolarmente convincente in quei passaggi di maggior lirismo (che lei canta a fior di labbra, quasi a bocca chiusa) ma sicura anche nel canto spiegato (e non solo per quel MIb che ieri ha staccato con grandissima autorità). Se proprio dovessi trovarle un pelo nell’uovo, direi di qualche acuto un filino calante e della cosiddetta ottava bassa che faticava a… percorrere gli enormi spazi del Piermarini. Per lei, un trionfo totale.

Piotr Beczala era partito un filino contratto e piuttosto impreciso nei passaggi di maggior virtuosismo, ma poi si è via via migliorato e nessuno ha trovato da ridire sulla sua prestazione complessiva.

Anche Željko Lučić (per la verità l’unico personaggio che il regista ha… lasciato in pace, smile!) ha confermato la prova discreta dell’esordio, ieri oltretutto anche Gatti lo ha supportato meglio che a SantAmbrogio.

Quanto ai comprimari, mi vien da citare per tutti il Gastone di Antonio Corianò. Sui suoi standard il coro di Bruno Casoni.

Daniele Gatti? La sua è una direzione improntata all’intimismo, quasi cameristica, che potrà non piacere del tutto a chi ama un Verdi più sanguigno. A me non è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico si è mostrato di questo avviso: qualche timido dissenso  è stato ampiamente coperto da applausi calorosi su cui si è inserita una raffica ritmata di bravo, bravo, bravo! proveniente (mi è parso) da un singolo punto della prima galleria (evidentemente un supporter particolarmente agguerrito…)

Chi non si è fatto vedere, come detto, è il regista, sottrattosi all’esame-finestra: così non possiamo sapere se il pubblico di ieri abbia gradito oppure no la sua proposta.

E allora ci torno sopra io, cominciando col dire che la visione dal vivo non mi ha fatto cambiare idea rispetto a quella di SantAmbrogio in TV. Questo di Cerniakov è uno spettacolo assolutamente coerente in se stesso, incentrato su una visione attualizzata del soggetto originale, ma dove l’attualizzazione, ahinoi, comporta uno scollamento tanto evidente quanto stridente fra ciò che si vede in scena e ciò che si ascolta dalle voci e dagli strumenti, cioè da ciò che Piave e Verdi ci hanno lasciato. 

Ora, per non dar l’impressione di emettere giudizi sommari senza motivarli, prendo alla lettera il motto di Lissner (non siamo qui per farvi divertire, ma per farvi riflettere) e  provo precisamente a fare qualche riflessione. Lissner mi perdonerà se in queste mie riflessioni parlo di un prodotto (uso qui il linguaggio universale anche se freddo del business) che lui mi ha venduto come originale e genuino (a giudicare dalla locandina) e che io (sulla fiducia) gli ho comprato, pagandolo, e profumatamente, in anticipo.

Per non farla troppo lunga, parto direttamente dalla fine (del resto in ogni opera in fundo stat dulcis…) Dunque, nella Traviata di Verdi-Piave (musica-libretto) abbiamo una giovane donna che muore. Di cosa? Di una malattia del fisico, del corpo, già ampiamente diagnosticata come letale e della quale Violetta è perfettamente cosciente da tempo: sintomi si sono manifestati già nel primo atto; poi, pur senza nominarla, ne ha fatto cenno a Germont-sr nell’atto secondo. Certo, una malattia potenzialmente aggravata da componenti psicologiche avverse, prima fra tutte una felicità tanto improvvisa, insperata, inimmaginata e totalizzante rapidamente distrutta da fenomeni estranei a lei e alla persona che l’ha resa felice.

Ma una cosa è lampante, straordinariamente chiara: Violetta, che sa di morire (devolve in carità gli ultimi spiccioli) muore però contro-voglia, mentre vorrebbe cocciutamente vivere; immediatamente prima del finale collasso… si rialza rianimata - ci spiega Piave - e canta Cessarono gli spasimi del dolore… in me rinasce… m’agita insolito vigor! Ah!… ma io… ritorno a viver!… oh gioia! La vita le viene strappata proprio mentre le cause della drammatica interruzione della sua felicità sono state interamente rimosse, e ripristinate le condizioni (di natura privata e pubblica) perché quella felicità possa tornare concreta, tangibile, possibile e praticabile. Insomma, Violetta vuole vivere! E per questo c’è una drammaticità commovente in quel suo sfogo Gran Dio! …morir sì giovane.

Chi le è vicino al momento del trapasso? Precisamente quattro persone care (Grenvil, vedete? tra le braccia io spiro di quanti ho cari al mondo...) di cui sarà bene ricordare ruoli ed atteggiamenti. In primo luogo Alfredo, che da quando se n’è innamorato non ha cessato di amarla, e non solo nelle tre lune trascorse con lei (contenta in quegli ameni luoghi!) ma anche successivamente, persino mentre sfogava platealmente contro di lei tutto il suo risentimento. In fondo, si era reso conto ben presto che lei era stata costretta a fingere di tradirlo, con il solo nobile senso di salvare l’onore suo e della sua famiglia. Poi papà Germont, sinceramente pentito per aver interrotto quella felicità, ed ora pronto ad ogni riparazione. E il medico, che amorevolmente accorre ripetutamente al suo capezzale (trascurando magari migliori opportunità di guadagno) per curarla e per confortarla. E infine Annina, ormai una fedele amica, prima ancora che donna di casa.

Scenario strappalacrime ottocentesco? Improponibile e ridicolo ai giorni nostri, dove le lacrime sono merce sconosciuta a pochi e risorsa esaurita per i più? Forse, ma è precisamente a questo scenario che stupendamente si attagliano i versi di Piave e - soprattutto! - la musica di Verdi. Per dire, le 23 battute che precedono lo spirare della donna che vorrebbe a tutti i costi vivere sono una vera e propria Tod-und-Verklärung ante-litteram (rispetto a Strauss ma anche al Wagner di Isolde e al Puccini di Mimì). E da questo punto di vista benissimo ha fatto Gatti a riprendere l’orchestrazione del 1853, facendo suonare i due soli violini à-la-Lohengrin (l’abbassamento di un’ottava del 1854 è ormai appurato fosse esclusivamente dovuto alla palese insufficienza di strumenti e strumentisti dell’epoca…)

Ecco, questo è il prodotto che uno spettatore che riflette - caro Lissner - si attende di ricevere in cambio del (salato) prezzo del biglietto. Il regista ci metta pure (e ci mancherebbe!) tutta la sua fantasia e sensibilità, ma il prodotto finale deve avere quella sostanza, e in primo luogo possedere piena coerenza con quella mirabile miscela di parole e musica che gli autori ci hanno consegnato. Altrimenti è solo una (per quanto accurata) contraffazione

 

Che prodotto ci consegna invece Lissner, per tramite del suo regista russo? Una donna malata e morente sì, ma affetta da una tipica malattia nervosa (lo abbiamo constatato durante l’intera opera, anche ben prima della stroncante irruzione di Germont-sr); una donna malata non ai polmoni ma alla mente (grottesca davvero la scena di Grenvil che ammicca ad Annina indicando la condizione di Violetta con un inequivocabile picchiettare dell’indice della mano contro la tempia, mentre canta la tisi non le accorda che poche ore… !) una povera donna distrutta nella psiche, una che non sta curando con farmaci un male fisico, ma una che sta impasticcandosi con droghe e riempiendosi di alcol col risultato di aggravare il suo stato psicologico. In poche parole: una donna alienata che non vuole (più) vivere! In questo scenario la sua esternazione Gran Dio! …morir sì giovane suona come una stridente contraddizione.

 

E chi si agita attorno a lei? Persone innamorate, pentite e caritatevoli? Nemmeno per idea: tre persone che – letteralmente! – non vedono l’ora che lei tiri le cuoia! Alfredo, che sembra infastidito, proprio come fosse lì controvoglia e avesse altro di meglio da fare. Suo padre che le si avvicina quasi timoroso (proprio come si fa con i matti…) E il dottore, che resta lì impalato, quasi fosse impaziente di tornare al suo ambulatorio per fare visite più lucrose. Alla povera Annina non resta che cacciarli tutti perché quella disgraziatissima Violetta possa finalmente morire senza disturbatori attorno.


Orbene, e vengo al punto cruciale dell’intera questione: con una scena simile la musica di Verdi (ma anche il testo di Piave, infatti in parte cassato, cosa del resto non nuova) ci sta proprio come i cavoli a merenda. Meglio le si attaglierebbe magari la musica che fu composta (80 anni dopo!) per un altro capolavoro: Lulu…

E al resto dell’opera si possono tranquillamente estendere le considerazioni fatte riguardo al finale: Cerniakov – a differenza della sua Violetta - non è mica fuori di testa, e quindi tutto il suo spettacolo è coerente con la sua concezione, fin dall’inizio non fa che preparare adeguatamente quel finale.

Non altrimenti si spiega l’approccio letteralmente parodistico del regista alla scena dell’incontro di Violetta con Alfredo e a quella successiva di Violetta sola: nella prima Alfredo dovrebbe lanciare un seme (Di quell’amor…) che germoglia in Violetta nella seconda (A quell’amor…) Noi invece vediamo un Alfredo di credibilità zero e una Violetta che sembra farsi beffe dei suoi sentimenti.

E così la scena d’esordio del second’atto viene banalizzata in modo indisponente, a partire dall’ambiente: invece di un salotto dove gli oggetti principali dovrebbero essere dei libri e l’occorrente per scrivere (capita l’antifona, Cerniakov?) noi siamo in cucina, in mezzo ad ingredienti assortiti per pizze e minestroni. E con Alfredo che ci racconta della sua nuova vita al fianco di Violetta con parole e musica che esprimono rapimento e felicità celestiale, mentre lei si aggira proprio lì attorno, impegnata come lui in prosaiche faccende domestiche. Dico: una presa in giro!  

Poco dopo, solo una Violetta isterica (che è diverso dallo sconvolta e preoccupata) può aggredire letteralmente a pugni e spintoni un esterrefatto Alfredo cantandogli …perché tu m’ami, tu m’ami, Alfredo, non è vero?

Prima di trattare del secondo quadro, un’osservazione di passaggio sulla cervellotica idea di fare l’intervallo lungo fra le due parti del second’atto. Non parlo degli aspetti legati alla struttura stessa dell’opera, che prevede, canonicamente, un finale d’atto in crescendo, con il concertato conclusivo, ma semplicemente degli aspetti pratici, proprio terra-terra, della questione. Dunque, qui ci sono tre intervalli: questo, lungo ben 40 minuti, più altri due – pubblico inchiodato alle poltrone - di ben 8 minuti ciascuno, in corrispondenza della fine del primo e del secondo atto. Totale, 56 minuti. Adesso, anche un bambino che sa far le somme arriva a capire che, a parità di tempo totale, dividendo l’opera come si deve, si potevano fare due intervalli di 25 minuti fra gli atti, più uno di 6 minuti fra i due quadri del secondo. Cosa normalissima per chiunque ed ovunque, ma qui le cose normali evidentemente sono considerate delle stupidaggini.

Ecco, la festa in casa di Flora. Si potrà anche sorridere dell’idea di Verdi-Piave di aprirla con i due cortei di invitati mascherati da zingarelle e toreri, ma ci spiega Cerniakov perché la trasforma in una specie di goliardico de-profundis per il povero Alfredo? Che arriva una prima volta per ricevere le condoglianze da parte degli invitati, prima di uscire per poi subito rientrare al momento previsto dal libretto? Quello che, con un riso nevrastenico, fa volare per aria mazzi di banconote per pagare Violetta non è un individuo alterato che sfoga dolorosamente il suo rancore, ma un povero idiota, in preda ad una crisi di nervi.   

La finisco qui (ma ci sarebbe ancora assai da contestare): insomma, un’idea-portante dello spettacolo semplicemente bizzarra e cervellotica (per quanto realizzata con indubbia maestrìa) che – manco a dirlo – è del tutto inconsistente con la musica e le parole che si ascoltano.

Ecco, caro Lissner: questo è ciò che uno spettatore che cerca di riflettere – eh sì, non un talebano infiltratosi in loggione – deduce dall’osservazione del tuo prodotto. Giudizio: buh!

07 dicembre, 2013

Alla Scala una Traviata… isterica


Sì, isterica sulla scena (la prossima, per contrappasso, avrà la personalità di barbie) e – alla fine – in loggione.

 

La regìa, che si può abbastanza bene giudicare anche dalla TV, mi è parsa di una puerilità disarmante. E non certo per la sfoglia e i cetrioli…

 

Le voci è un po’ difficile apprezzarle quando si sente un suono che arriva da un microfono posto sull’ugola del/della cantante. Comunque la Damrau mi è parsa all’altezza (salvo che nel MIb opzionale) mentre Beczala è partito discretamente, ma alla fine mi pareva in difficoltà anche sui SOLb (non parliamo di come ha fatto il DO all’attacco della ripresa di Oh mio rimorso). Lucic meno peggio dell’immaginabile, anche se Gatti non mi pare l’abbia aiutato, con tempi francamente troppo celeri. La Zampieri-Wanna mondiale!



In loggione c’erano evidentemente quelli che Alberto Mattioli chiama amichevolmente, e anche un po’ grillescamente, care salme… Per ripicca, han fatto loro il funerale al regista (smile!)