XIV

da prevosto a leone
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22 settembre, 2016

Un Flauto accademico alla Scala

 

Ieri sera al Piermarini terz’ultima delle dieci recite della mozartiana Zauberflöte, una specie di saggio di fine anno per le voci dell’Accademia scaligera.

Se si dovesse giudicare con il metro dell’assoluto, il voto sarebbe irrimediabilmente negativo (ma spesso capita che lo sia anche per produzioni da SantAmbrogio...); se viceversa si applica il principio di relatività ristretta (!) allora le cose cambiano assai e tutto diventa più che accettabile.

Peter Stein monta uno spettacolo simpatico e godibile, che non può non piacere ai ragazzini (e a tutti coloro che si sentono tali anche a 70 anni suonati!) e che scommetterei sia abbastanza vicino a quello che montò quel vecchio marpione di Schikaneder in un remoto venerdi 30 settembre 1791. (Certo, chi si aspetterebbe intellettualoidi ambientazioni in P2, P3 o Pvattelapesca, sarà rimasto deluso, amen...)

Adam Fischer - che conosce la partitura a memoria e quindi al posto del leggio fa sistemare il... carillon di Papageno – cava il meglio possibile dall’accademica orchestra (spesso i più grandi fanno assai peggio) e tiene in pugno i cantanti ovviando anche alle loro inevitabili incertezze.    

Cantanti che sono le speranze di domani e che proprio per questo non sono le certezze di ieri (lapalisse insegna). Martin Piskorski è un Tamino... verdiano, ma portamento e prestanza scenica promettono assai; Till Von Orlowsky fa un Papageno quasi perfetto sulla scena (comprese un paio di posizioni... ehm... kamasutriche con la Papagena gnocca!) e non demerita nemmeno sul lato vocale. Fatma Said è una Pamina un po’ pigolante, ma tutto sommato efficace. Un po’ sotto la media l’Astrifiammante di Yasmin Özkan, che non solo fa fatica sui FA, ma fatica assai a padroneggiare i virtuosismi delle sue due arie. Il basso Martin Summer è un Sarastro scenicamente apprezzabile: quanto alla voce, peccato che scarseggi proprio nei... bassi! Tutti gli altri (coro incluso) su un piano di onesta abnegazione, con una punta di merito per i tre fanciulli dei Wiltener Sangerknaben.

Pubblico assai folto e prodigo di applausi per tutti: a volte i saggi di fine anno divertono di più di tante paludate prime.

21 maggio, 2015

Il Flauto in 3D a Bologna

 

Ieri  pomeriggio il Comunale di Bologna ha ospitato la quarta delle sette recite della Zauberflöte, in una nuova produzione caratterizzata dall’impiego di tecnologie cinematografiche 3D, con tanto di occhialini bicolori distribuiti al pubblico all’ingresso in sala.

Devo purtroppo dire subito che - ai miei occhi (e un po’ anche alle mie orecchie) - il 3D è apparso come sinonimo di 3Delusioni. A cominciare proprio dalla base tecnologica materiale della ZAPRUDER: personalmente avevo avuto modo di vedere i primi, pioneristici filmati 3D (prima in USA e poi qui da noi) addirittura decine di anni fa e devo dire che erano di qualità e soprattutto di efficacia immensamente superiore a ciò che è stato presentato in questa edizione del Flauto. Immagini a prevalente contenuto di… frasche e con poche e per nulla impressionanti, né aggressive, apparizioni di oggetti e pupazzi assortiti.

Seconda delusione, il carattere generale dell’allestimento della compagnia di Luigi De Angelis e Chiara Lagani: l’impostazione targata Fanny&Alexander ha purtroppo finito per contagiare di infantilismo l’intera proposta, scaduta a livello di una recita scolastica. Scenografia inesistente; costumi di taglio francamente dimesso; eccessiva presenza in scena di frotte di bambini e ragazzi (a proposito di saggio di fine anno); e poi le solite trovate più disturbanti che gradevoli, quali le passeggiate di personaggi lungo i corridoi della platea, come il corteo di fine primo atto, col coro e poi con Sarastro che arrivano dal fondo della sala e costringono il Direttore a girarsi verso il pubblico, dando le spalle all’orchestra… Poco o nulla anche sul piano attoriale, dove i cantanti sembrano lasciati liberi di muoversi (o di star fermi) a loro discrezione.

E infine, terza (solo mezza, per fortuna) delusione anche sul piano strettamente musicale: dove mi sentirei di salvare la coppia Mariotti-Faidutti (e relativi… addetti) che hanno proposto un Mozart di discreto livello. Delle voci darei ampia sufficienza al Papageno di Nicola Ulivieri (peraltro non esente da qualche pecca sulle note più alte); poi al convincente Tamino di Paolo Fanale (bella voce dal piglio eroico e benissimo impostata); e infine a Maria Cristina Schiavo, una Pamina almeno onesta e gradevole. Tutti gli altri francamente al limite della sufficienza: alla Astrifiammante Christina Poulitsi non serve staccare i FA sovracuti, se poi gli arpeggi che li contornano sono approssimativi e dall’intonazione precaria; Mika Kares è un Sarastro imponente soltanto in… altezza (da pivot) ma per il resto gli mancano autorevolezza e corretto portamento; Gianluca Floris è un Monostatos piuttosto vociferante che cantante; e Anna Corvino una Papagena che canta meglio le frasi che richiedono la palese alterazione della voce (da vecchina sdentata) rispetto a quelle che ne caratterizzano la natura di donna piacente. Gli altri (Dame, Sacerdoti, Oratore) senza infamia e senza lode. Quanto ai tre fanculli-genietti qui si è deciso di schierare proprio tre voci bianche: scelta simpatica quanto discutibile.

La buona notizia è che il pubblico, piuttosto folto, direi, ha mostrato di gradire assai, tributando applausi e ovazioni indistintamente a tutti: quindi tutto bene così!


23 marzo, 2011

Un Flauto poco magico alla Scala


Ancora uno spettacolo appena-appena degno del teatro più importante del mondo (modestissima auto-definizione della Scala). Una produzione che arriva dal Belgio ed è già transitata dal SanCarlo, anni fa. Di livello accettabile nella parte musicale e pretenzioso, ma con risultati così-così (ai miei occhi, s'intende) in quella dell'allestimento. Che ha comunque il non disprezzabile merito di non ambientare l'opera nel variegato mondo e sottobosco delle logge P2, P3, P4 e così via P-contando. (Ma qualche geniale regista prima o poi ci arriva, matematico.)

Dico subito che la ripresa TV di domenica scorsa aveva ulteriormente fatto danni, con inquadrature quasi sempre generali che davano l'impressione di assoluta monotonia e piattezza. In teatro le cose sono andate un filino meglio, ma certo non in misura sufficiente a sollevare il livello della rappresentazione da dignitoso ad eccellente.

Sulle vicissitudini dell'opera e sui relativi caratteri, incongruenze e bizzarrìe, ho già scritto la mia qualche tempo fa, e non sto a ripetermi.

I testi parlati sono stati – come sempre, e non a torto – pesantemente tagliati, anche se in modo tale da garantire un plausibile senso logico allo sviluppo dell'azione. Mi domando però - stante il fatto che l'opera è in lingua crucca e per lo spettatore medio capir qualcosa dai sottotitoli è impresa più ardua dell'imparare i testi a memoria prima di assistere allo spettacolo – se non convenga eliminarli del tutto (come si fa nelle esecuzioni concertanti) rimpiazzandoli con la proiezione di immagini (live o registrate) che spieghino o mimino ciò che dovrebbe essere solo recitato e che – proprio per questo – viene spesso e volentieri tagliato.

Un esempio, assai circoscritto, ce lo propone proprio il regista William Kentridge nel trattamento delle scene 9 e 10 del primo atto, scene di solo parlato ma che hanno (o dovrebbero avere) una certa importanza, trattandosi del primo impatto che lo spettatore ha con il mondo di Sarastro. Nella prima compaiono tre schiavi che si rallegrano della fuga di Pamina, che dovrebbe avere come conseguenza la punizione capitale di Monostatos, suo carceriere e loro aguzzino, da parte di Sarastro (che non ci farebbe propriamente la figura di un capo nobile e illuminato, ma di uno schiavista che applica giustizia sommaria). Nella seconda, si ode Monostatos ordinare agli schiavi di preparare le catene per Pamina, che lui ha riacciuffato. Ecco, Kentridge taglia al completo – come sempre accade - il parlato delle due scene (e già che c'è toglie anche dalla locandina i personaggi dei tre schiavi) però recupera parte del contenuto di esse con un siparietto in controluce – accompagnato dal fortepiano - in cui si vede Pamina che si divincola dal bavoso Monostatos (che cerca di ingropparsela) e scappa… per poi arrivare in scena nelle grinfie dell'aguzzino, che è riuscito a riagguantarla, e iniziare il N°6, Terzetto.

Kentridge – che non è un regista di professione, e questo potrebbe anche essere un merito (smile!) – imposta la sua messinscena partendo dalla contrapposizione oscurità-luce (chiave dell'opera) che lui materializza nell'oggetto/concetto macchina fotografica: dove chiaro e scuro si invertono, da negativo a positivo, dove la luce penetra nella camera oscura, che la filtra prima di portarla all'occhio; e l'occhio, sappiamo, è uno dei simboli massonici, incastonato nel triangolo, nel numero tre, altro simbolo esoterico, centrale nel mondo della massoneria. Di passaggio segnalo qui una particolarità: in partitura si legge che le tre Dame escono dal Tempio armate di argentei giavellotti e con quelli ammazzano il serpentone, tagliandolo precisamente in tre pezzi. Strano che Kentridge, così attento alla simbologia, trascuri questo particolare.

Tornando all'allestimento, l'idea originale del chiaro-scuro dell'apparecchio fotografico viene applicata di continuo, attraverso la proiezione di immagini in bianco-nero (fisse o in movimento, per simulare movimenti) e soprattutto di linee bianche: rette, continue o tratteggiate, o curve, che costruiscono in tempo reale, su fondo scuro (tipo lavagna) figure e simboli legati alla dottrina massonica. Peccato che la cosa, alla lunga, finisca con lo stancare l'occhio dello spettatore, o per distoglierne la mente – impegnata a decifrare simboli – dall'azione e soprattutto dalla musica. Inoltre, il concetto chiaro-scuro non pare applicato con coerenza: nel procedere dell'azione, dalla notte di Astrifiammante alla luce solare di Sarastro, ci si aspetterebbe che quelle linee trascolorino al nero e che i fondi trascolorino al bianco. Invece no, anche la scena finale avviene nella camera oscura, con le linee bianche e una luce che sembra rimanere un miraggio, più che un elemento che si imponga, inondandola completamente.

In conclusione, un'idea intelligente che mi è parsa realizzata in modo troppo stucchevole e monotòno. Quanto ai personaggi, una regìa apprezzabile, tenuto conto del soggetto.

Sul fronte musicale note positive per Alex Esposito (trionfatore della serata) che mostra di identificarsi perfettamente con la personalità di… Schikaneder!

Albina Shagimuratova è stata una più che discreta Astrifiammante. Oltretutto ha eseguito in modo abbastanza corretto i suoi impegnativi svolazzi sui FA sovracuti (dove domenica aveva francamente palesato qualche difficoltà).

Sui FA gravi ha invece mostrato la corda Günther Groissböck, per il resto un Sarastro per nulla disprezzabile, anche come presenza.

Steve Davislim e Genia Kühmeier se la sono cavata discretamente, ma senza suscitare (almeno nel sottoscritto) particolari entusiasmi.

Nella normalità anonima tutti gli altri, eccetto Peter Bronder che ha interpretato un Monostatos schiamazzante, sparando esclusivamente berci invece di suoni.

Lodi meritate, come sempre, per i cori (adulti e piccoli) di Casoni. Roland Böer pare un giovane di solida preparazione, si vede che con questo Mozart si trova a casa sua. E l'orchestra lo ha ben assecondato.

Pubblico timido – o non entusiasmato – negli applausi alle singole arie. Più deciso nell'approvazione generale, a fine spettacolo. (Il campionato riprenderà prossimamente.)
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30 ottobre, 2010

Zauberflöte al Grande

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Ancora il Circuito Lirico Lombardo in evidenza, con la mozartiana Zauberflöte. Una recente co-produzione di Jesi-Treviso-Fermo che viene ripresa in Lombardia. Dopo le due rappresentazioni al Ponchielli di Cremona, è approdata al Grande di Brescia (poi a gennaio sarà a Como e Pavia). Come sempre, l'orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali, in questa occasione condotta dall'albionico Oliver Gooch, con il coro diretto da Antonio Greco.

La regìa e i costumi sono del pregiato marionettista Eugenio Monti Colla. Insieme a Roberto Gritti, che manovra le luci, ha allestito un Flauto in cui convivono in modo intelligente e piacevole i diversi aspetti dell'opera: quello magico, quello massone e quello popolar-leggero. Insomma, ha coadiuvato al meglio il grande Teofilo, che riuscì a padroneggiare mirabilmente con la sua divina ispirazione - cavandone uno dei capolavori più straordinari del teatro musicale - il bizzarro intruglio partorito dalla mente un po' troppo fervida di Schikaneder.

Da 220 anni studiosi, critici, recensori ed esegeti si sbizzarriscono a trovare - spesso inventandosele per mettersi in mostra – le altezze (e le magagne) e le più recondite e cerebrali significanze che si celerebbero nell'opera. Cercando ad esempio di spiegare (o di dimostrarne l'insussistenza) le palesi contraddizioni e bizzarrie del libretto. Chi – uno per tutti, Massimo Mila - attribuendole a un qualche incidente di percorso – accaduto durante la composizione dell'opera - che avrebbe portato il librettista-cantante-guitto-gaudente (e Mozart al seguito) a stravolgere tutta la trama originaria del Flauto – derivata dalla Lulu di Liebeskind – e nientemeno che a ribaltare, dopo 2/3 del primo atto, le personalità dei due sovrani. E chi - uno per tutti, Sergio Sablich - ad affannarsi a spiegare e dimostrare il contrario, e quindi la perfetta e mirabile concezione unitaria dell'opera, con argomentazioni tanto dotte e sottili, quanto poco razionali.

Quanto poi ai nobili fini etici e morali che sarebbero alla base dell'opera, basterà ricordare come le femmine ribelli (per così dire) vi fanno tutte una brutta fine, chè la teoria e pratica massonica relegava la donna a ruoli decisamente subalterni (le femministe avrebbero parecchio da ridire sul razionale presentato dal sapientone-massone Sarastro per giustificare la restrizione di libertà imposta alla povera Pamina: Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui suole ogni donna deviare dalla via che le è propria. Le parole saranno anche auliche, ma il concetto resta quello che usava ripetere il simpatico Bracardi: la dona c'ha 'n cervelo de galina!)

Insomma, Monti Colla non ha cercato minimamente di coprire le magagne del libretto, che sono molte e piuttosto clamorose, e la sua regìa lascia perciò aperte tutte le domande che lo spettatore inevitabilmente si pone: perchè Astrifiammante ci viene presentata come regina del bene e madre offesa, nel primo atto, e poi campionessa del male e aspirante terrorista nel secondo? A proposito, se la Regina rappresenta il male, perché allora fa distruggere il male-serpente per salvare Tamino? E perché non ha usato le armi (che più tardi scopriremo possiede) per difendere Pamina dal sequestro di Sarastro? E perché presenta i tre fanciulli-angeli-custodi come suoi fedeli, se invece si scopre dopo che questi sono al servizio e alla corte di Sarastro? A proposito del quale, se non è (più) un tiranno sanguinario, ma il sommo sacerdote della nobile massoneria, perché ha commesso un odioso delitto (il sequestro di persona) per strappare Pamina alla madre prima di incontrare l'aspirante-iniziato Tamino, giudicato idoneo a guidare la principessa sulla retta via? E come mai ci sono degli schiavi nella sua reggia? E perché tiene al suo servizio Monostatos, un bieco aguzzino (per poi divertirsi a punirlo ripetutamente)?

Parliamoci chiaro, non ci fosse sotto la musica del divino Mozart, questa sarebbe una farsa, e pure mal riuscita, come un tale Richard Strauss, che di teatro musicale si intendeva appena un pochino, non esitò a rilevare. Monti-Colla si limita – meritoriamente – a presentarci ciò che troviamo scritto su libretto e partitura, mostrandoci il serpentone-drago con fumanti narici, fatto secco dalle tre dame (e questa è effettivamente una libertà) con colpi di bacchetta magica, i tre genietti che svolazzano sopra una bianca nuvoletta, i leoni di Sarastro che muovono le minacciose mascelle di cartapesta, le belve che fanno capolino al suono del flauto di Tamino, e i diversi paesaggi e palazzi dove si svolge la trama. I personaggi si muovono il minimo necessario, salvo Papageno che interpreta al meglio il ruolo da macchietta che Schikaneder si era costruito per sè.

Quanto alla musica, Gooch ne dà un lettura convincente, nella qualità ed anche nella quantità, facendoci ad esempio ascoltare tutti i ritorni del Dreimalige Akkord previsti nella scena parlata all'inizio del secondo atto. A proposito di parlato, è pesantemente tagliato, come sempre, ma forse meno di altre volte. Francamente rimane sempre il dubbio sulla sua efficacia in generale e particolarmente nel caso di rappresentazioni davanti ad un pubblico di lingua non krukka. Assolutamente all'altezza il coro di Greco.

La compagnia di canto si è dimostrata di livello più che accettabile, a partire dai due principi innamorati, il Tamino di Leonardo Cortellazzi e la Pamina di Serena Gamberoni.

Filippo Bettoschi, assai bravo nella parte attoriale di Papageno, se l'è cavata piuttosto bene anche sul fronte voce, ricevendo un particolare applauso all'uscita singola.

L'Astrifiammante Regina della notte è Clara Polito. Che mostra qualche affanno nelle parti più spiccatamente virtuosistiche: per la verità arriva abbastanza bene ai diversi FA sovracuti che la sua parte comporta.

Il Sarastro di Stefano Rinaldi Miliani ha tutta la necessaria autorevolezza scenica: l'unico appunto che gli si può muovere è la scarsa udibilità del famoso FA sotto il rigo, sul doch della sua reprimenda a Pamina.


Dignitoso anche il Monostatos di Anicio Zorzi Giustiniani, forse meno cattivo di quanto servirebbe. Laura Catrani assolve bene il suo compito (del resto limitato nella quantità) nei panni di Papagena.

Le Dame Loredana Arcuri, Angela Nicoli, Lorena Scarlata e i Genietti Silvia Spruzzola, Beatrice Palumbo, Simona Di Capua sempre gradevoli nelle loro ripetute apparizioni. Han fatto del loro meglio anche Alessandro Calamai e Marco Voleri, nei panni dei Sacerdoti/Armigeri.

Dopo che, durante la rappresentazione, erano praticamente mancati applausi a scena aperta, grandi ovazioni e trionfo per tutti alla fine.