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30 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°11

 

Indisposto il titolare Ivor Bolton, è stato chiamato Damian Iorio a dirigere i ragazzi de laVerdi (reduci dalla storica ottava mahleriana e guidati da Nicolai Freiherr von Dellingshausen) in un concerto ultra-tradizionale, sia come impaginazione che come contenuti.  

Si apre con la Ouverture zu den Hebriden (Fingals Höhle) composta dal giovane Mendelssohn dopo una gita alle Ebridi, in particolare a Staffa, dove si trova la celebre grotta marina che dal ‘700 ha preso il nome dall’eroe scozzese Fionn mac Cumhaill (per gli amici… Fingal):


L’Ouverture, canonicamente in forma-sonata, è tutta pervasa da atmosfere ossianiche, che si ritroveranno anche nel movimento iniziale della sinfonia scozzese, concepita, guarda caso, nello stesso periodo, anche se completata anni e anni più tardi.

Bravi i ragazzi – gli archi soprattutto - a trasmetterci queste sensazioni di mistero, fra folate di vento e squarci di sole sul desolato paesaggio nordico.
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Poi arriva una bella gnocca spagnola (smile! ma è brava quanto attraente!) a nome Leticia Muñoz Moreno per deliziarci con quello che è forse il più fischiettato (insieme a quello di Ciajkovski) dei Concerti per violino: l’op. 64 del compositore amburghese.


Qualche problema di concentrazione, prima di attaccare, grazie a rumori molesti, fra cui l’immancabile suoneria di un portatile, poi però questa ragazza col fisico da modella si scatena in un’interpretazione tutta nervi e spigoli, nel primo movimento. Quindi il centrale Andante è esposto con grande ispirazione, certo la parte migliore del concerto; nel  finale, la 28enne spagnola fa sfoggio di gran tecnica e trascina il pubblico ad applausi ritmati. E dopo Mendelssohn, il bis non poteva essere che Bach.
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Chiude Beethoven con la Pastorale. Iorio si fa recapitare sul leggio la partitura edizione Bärenreiter (quella di Jonathan Del Mar) ma francamente mi è impossibile dire se anche le parti degli orchestrali fossero coerenti con quella; del resto le peculiarità di questa edizione sono dettagli piuttosto (o del tutto) difficili da cogliere ad un ascolto dal vivo.

In ogni caso, un’esecuzione di tutto rispetto assai apprezzata dal foltissimo pubblico (molti i giovanissimi, forse tifosi della bella Leticia…) illustrato anche dalla presenza della neo-senatrice-a-vita Elena Cattaneo

Quindi – tenuto anche conto del repentino cambio di… podio - gran successo per Iorio e i ragazzi.

26 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 12





Per il 12mo Concerto de laVerdi sale in cattedra l'Opera italiana. In realtà, principalmente ciò che nelle opere oggi rappresentate in teatro quasi mai si suona, si sente e si vede: balli e balletti.


Rossini e Verdi dovettero – a malincuore? – pagare un certo pedaggio per poter accedere con loro opere nel tempio parigino. Dove vigeva una bizzarra quanto ferrea regolamentazione artistico-estetica (sic!) che escludeva tassativamente la rappresentazione di opere che non contenessero siparietti di balletto. Non solo, ma il siparietto, si badi bene (tale Wagner non ci badò, credendosi protetto nientemeno che dall'Imperatore, e fu impietosamente impallinato) doveva necessariamente essere collocato a metà, più o meno, della rappresentazione, per dar modo a certi simpaticoni (che casualmente erano anche pseudo-azionisti del teatro, in quanto detentori di abbonamento perpetuo a numerosi palchi) di arrivare con comodo, dopo cena, per ammirare le danzatrici e… portarsele poi a letto, a fine serata.



Quindi, si sospetterà: se quello era lo scopo, del tutto estraneo a canoni artistici ed estetici (un'anticipazione, per dire, degli odierni happening a base di bunga-bunga… smile!) chissà quale ciarpame musicale sarà stato scritto alla bisogna, dai pur grandi Verdi e Rossini. E questo sospetto sembrerebbe avvalorato dal fatto che, fuori dalle mura del teatro imperiale parigino, quei balletti e quelle musiche furono spesso e volentieri espunti dalle rispettive opere, e quasi sempre per iniziativa, o con l'esplicito consenso, degli stessi compositori.

Nulla di più falso e bugiardo. I tre brani eseguiti qui dimostrano come Verdi e Rossini ci misero tutta la loro ispirazione e la loro maestrìa, pur sapendo già in partenza che si trattava di corpi estranei rispetto al contenuto drammatico delle opere in cui dovevano essere inseriti.

A mo' di esempio vorrei citare Le Quattro Stagioni, la cui profondità di ispirazione e il cui solido contenuto sinfonico sono appassionatamente messi in rilievo da Riccardo Muti, in questa serie di prove d'orchestra (Inverno e Primavera) con la Cherubini, oggi disponibile in DVD, dopo essere uscita lo scorso anno per iniziativa di Repubblica-Espresso.

Con il cimbasso che spunta come un airone in mezzo ai fiati, si apre con La Pérégrina, questo siparietto del terzo atto del Don Carlos (in corrispondenza dell'incontro fra il principe ed Eboli, creduta Elisabetta) che è scenicamente una specie di bizzarro miscuglio di Bella addormentata e di Rheingold (prima scena) dove i legami con la trama e i personaggi del dramma bisogna scoprirli munendosi di microscopio elettronico. Invece la musica è a dir poco sopraffina, degna del miglior Ciajkovski! Con un assolo del violino - associato alla dormiente Perla bianca avvicinata dal pescatore (Alberich, per caso? smile!) – che, nell'incipit, sembra ricordare la celebre introduzione del violoncello al monologo di Filippo:

Qui ha modo di mettersi in mostra Gianfranco Ricci, avanzato per l'occasione al posto di spalla.

Ecco poi le citate Stagioni: quasi mezz'ora di musica, splendida da ascoltarsi da sola, mortale quando eseguita all'interno del terzo atto dell'Opera, di cui spezza inesorabilmente il pathos drammatico. Sull'esecuzione di ieri, credo proprio che anche il Muti perfezionista di cui sopra avrebbe poco da ridire.

Apre la seconda parte Rossini con il Pas de six dal primo atto e il Pas de soldats dal terzo atto del Tell: quest'ultimo brano, davvero trascinante, si merita un'ovazione.

Subito dopo Damian Iorio ci ha presentato la Boutique Fantasque, Suite dalle musiche del balletto di Diaghilev-Massine (della serie: bambole meccaniche e marionette semoventi e semi-umane, à la dottor Coppélius, o Spalanzani di turno, per capirci) che Ottorino Respighi trasse nel 1918 dal tardo Rossini (dai cosiddetti Riens, inclusi nei Péchés de vieillesse per pianoforte). Un pezzo frizzante e orecchiabile, nelle sue 7 sezioni (più l'ouverture).

Tanto per riderci un po' sopra: ecco, qui come ouverture non c'è male; la miglior tarantella? Eccola! Questi cosacchi sono un po' pesantucci; qui invece una cosacchina in erba, portata via proprio come una marionetta; e questo è precisamente un forsennato Galop! laVerdi è ovviamente meno spassosa, ma più precisa (smile!)

Si chiude in bellezza, a mo' di encore, con la sinfonia dal ??? (Barbiere? Aureliano? Elisabetta?) Iorio, che ha introdotto i vari brani con qualche pertinente riferimento (peccato che la sua voce, senza amplificazione, arrivi neanche a metà sala) informa che la sinfonia viene eseguita impiegando una edizione recenteVero, non è certo quella ottocentesca di Ricordi (visto che i tromboni elisabettiani mancano) ma neanche quella del 2008 di Barenreiter (Gossett) come testimonia la presenza dei timpani, tanto per dirne una. Ma al pubblico, tutto sommato, ha fatto l'effetto di sempre: straordinario!

Prossimamente su queste scene… Porgy&Bess!



19 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 11


Concerto (quasi) tutto russo per il ritorno di Damian Iorio sul podio de laVerdi. 
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Si comincia però con un brano di rarissima esecuzione: il poema sinfonico L'infinito di Aldo Finzi, compositore italico vissuto – non proprio tranquillamente, essendo lui ebreo in epoca di leggi razziali - nella prima metà del novecento. Iorio ricorda brevemente la figura del musicista, prima di dare l'attacco. A proposito, è da segnalare la lodevole iniziativa dell'Associazione Aldo Finzi Diacronia che mette a disposizione gratuitamente le partiture del musicista, oltre ad organizzare eventi a scopo benefico.

 
Opera del 1933, ma chiaramente legata al tardo-romanticismo - a partire dall'ipertrofica orchestra, che comprende due arpe, celesta e pianoforte, oltre a percussioni di ogni risma - il poema sinfonico è strutturato in tre sezioni, le due estreme piuttosto lente e con sonorità assai tenui, che chiudono all'interno quella più mossa e rumorosa. La prima, Calmo in SI maggiore, tempo prevalente 3/4, rappresenta inizialmente una quiete, rotta soltanto da interventi dei corni; poi è un lento e progressivo crescendo, con reminiscenze mahleriane (nona sinfonia e Abschied) che culmina in un climax caratterizzato da una perorazione in fortissimo di corni e tromboni (che riprendono un analogo motivo esposto assai prima dalle trombe, ripresa poi dagli archi che tornano alla calma iniziale per preparare la seconda sezione dell'opera: Mosso, in DO minore, tempo 2/4 ma con diverse escursioni a 6/8 e 9/8; la sezione presenta ancora reminiscenze mahleriane e wagneriane, ed è caratterizzata prevalentemente da un ritmo in metro dattilo (croma-semicroma-croma) che stringe fin poi a diminuire verso la terza sezione, assai breve, ancora SI maggiore, Calmo in 3/4. Prima della chiusura torna – nelle trombe - il motto udito nella sezione iniziale, poi tutta l'orchestra (trombe tacendo!) esala in pianissimo l'ultimo accordo nella tonalità principale.

 
Un lavoro interessante, anche se non mi sentirei di scandalizzarmi per la sua scarsa notorietà. Di sicuro, se anche alla Scala (dopo laVerdi) si programma Il lago incantato di Liadov, allora anche all'Infinito di Finzi va accordato il permesso di soggiorno (smile!)

 
Impeccabile comunque l'esecuzione (al contrario di questa, della prima americana!)

 
Poi arriva Natasha Korsakova con il suo violino per interpretare il Concerto op.99 di Shostakovich. Natasha è indubitabilmente quella che in tutti i bar (maschilisti, ma ce ne sono di femministi?) si definirebbe una gran gnocca (non per nulla è testimonial di una nota casa di moda). E poi nel testo albionico della sua biografia si trovano queste perle: è di decenza (sic!) greco-russa (in effetti discende nientedopodomanichè dal grande Nicolai) e un tale che scrive su un giornale tedesco afferma di provare, ascoltandola, un'esperienza musicale peccaminosamente bella. Ohibò, vuoi vedere che suona nuda? mi son detto – confortato anche dalle foto sul suo sito - e ho subito riesumato il mio binocolo da marina da portarmi al concerto!

 
Poi, continuando a leggere la sua biografia, ho notato che il primo auditorium della lista di quelli frequentati dalla bella Natasha è proprio il nostro, quello di Largo Mahler, che viene prima di catapecchie di provincia come la Gewandhaus e il Concertgebow. E allora mi è venuto il sospetto che ci sia sotto qualche traffico più o meno losco, data la nazionalità della ragazza e i trascorsi filo-sovietici del management de laVerdi (smile!) In effetti lei è di casa in Italia ed ha pure suonato per il nostro Presidente, quello buono, intendiamoci (qui non si tratta di bunga-bunga, ma di musica classica, chiaro?) forse per via dei suoi (del Presidente intendo) trascorsi comunisti (ri-smile!) Battute a parte, la bella Natasha è pure brava, anche se ho personalmente trovato l'esperienza vissuta ascoltandola… tutto fuorchè peccaminosa (mi viene il dubbio che fosse quel cronista tedesco ad avere qualche problemino – o qualche birra - di troppo).

 
Il Concerto di Shostakovich (qui il dedicatario David Oistrakh) – in 4 movimenti, un'eccezione alla regola classica – fu tenuto parecchio nel cassetto dall'Autore, che aspettò prudentemente che baffone Stalin e soprattutto il suo procacciatore artistico Zdanov togliessero l'incomodo, prima di decidersi a pubblicarlo (della serie: certe vacanze-premio in Siberia meglio evitarle, se possibile).

 
È un concerto di quelli tosti, dove c'è di tutto: grande ispirazione e religiosità nel Moderato notturno iniziale, un primo risveglio nel successivo Scherzo, dove il dialogo del violino con i fiati, chiamati via via ad interventi solistici, si fa serrato, particolarmente nella sezione centrale, sfociando nell'ostinato e poderoso finale. Il terzo movimento (Passacaglia) si apre con una cupa introduzione di timpani e corni (qualcuno ci vede un richiamo al motto della Quinta beethoveniana) seguita da un corale di matrice squisitamente russa, poi il violino sembra riprendere il languido discorso interrotto nel primo movimento, quindi assume un incedere più deciso e sonorità più marcate, per tornare a spegnersi, accompagnato dal mesto ritmare della tuba; per poi concludere con una lunghissima cadenza,dapprima di sapore quasi bachiano, e poi sfociante in una serie di passaggi di alto virtuosismo. E infine uno dei classici, inconfondibili, tarantolati Presto di questo autore, dove il solista e l'orchestra sembrano inseguirsi in una forsennata discesa senza freni, una reminiscenza del mahleriano Burleske (che dà il nome al movimento) fino al repentino schianto conclusivo.

 
La Korsakova ottiene un gran successo: la tecnica è sopraffina, il suono caldo e chiaro, ma soprattutto grande è stata la sensibilità interpretativa, in specie nei movimenti lenti ed in particolare nella cadenza. Forse qualcosa da ridire avrà la sua sponsor Laura Biagiotti, del cui pregevole lungo nero Natasha ha usato un paio di pieghe per asciugare il sottomento del suo (certo più prezioso ancora) violino!

 
Il bis che ci viene concesso è di quelli inusuali, poiché coinvolge anche l'arpa e pochi archi dell'Orchestra. Ma la brava Natasha si vuol prendere una soddisfazione che il suo ruolo di solista (che per definizione la porta solo a calcare le tavole del palco, e non quelle della buca) le nega per definizione: suonare con l'orchestra la Méditation, dalla Thaïs di Massenet.

 
Da ultimo ancora una sinfonia, la Terza, di Rachmaninov (e meno male che non ne ha scritte altre, smile!) Leopold Stokovski ne fu il virtuale dedicatario: ne diresse la prima con la Philadelphia nel 1936, a poche settimane dal completamento. L'insuccesso a quanto pare convinse il bizzarro direttore a dimenticarsene per 40 anni, dopodiché la riesumò per un'incisione londinese. Anche quest'opera contravviene apparentemente i sacri canoni formali: i 4 tempi sono qui ridotti a 3 (a compensare preventivamente quello in eccesso nel concerto di Shostakovich, smile!) e una specie di Scherzo, invece di inglobare un Trio, è lui stesso inglobato nell'Adagio centrale. L'immancabile pisciatina di cane del Dies-Irae – il compositore ne soffriva il complesso, evidentemente - vi fa capolino, in modo esplicito nell'ultimo tempo, ma più cripticamente anche prima.

 
Il primo movimento è in forma-sonata: inizia in tempo lento, e vi viene esposto il motto in LA minore, che richiama vagamente l'introduzione della Piccola Russia (la seconda di Ciajkovski) e che introduce l'Allegro, nel quale spicca un tema cantabile, in MI, dei violoncelli. Al centro dello sviluppo un crescendo porta ad un accordo che i tecnici definiscono iper-dissonante, che introduce la ricapitolazione e poi la coda, col secondo tema che modula in LA maggiore, nel rispetto dei sacri canoni formali.

 
L'Adagio, ma non troppo si apre con un richiamo del corno al motto iniziale, seguito da un assolo del violino, cui il violoncello risponde à-la-Sibelius. Affiorano poi incisi dalla quasi contemporanea Rapsodia su Paganini, insieme a vaghi ricordi del secondo concerto per pianoforte, misti a un po' di Meistersinger! Ecco poi l'Allegro vivace annegato all'interno del movimento, che sembra addirittura ispirarsi all'Apprenti Sorcier! Di sicuro un bel minestrone, non c'è che dire… Poi si rientra nei ranghi, per riscaldare il suddetto minestrone, come da buone tradizioni di famiglia. Eccola: un gran pot-pourri di idee assai poco originali.

 
L'Allegro conclusivo mescola il motto iniziale con il Dies-Irae, dà spazio ad esibizioni solistiche (fagotti) e contempla una specie di fugato mutuato dalla seconda. Momenti di stasi idilliaca, rotti da brusche scosse dei bassi e alternati ad esplosioni in cui si ricapitolano temi già uditi, in un'orgia di percussioni da un-tanto-al-kilo. E infine il lento e progressivo crescendo che porta alla marziale chiusura, carica di enfasi pari alla totale inconsistenza estetica.

 
Chi ha analizzato nei dettagli la struttura della sinfonia ne ha messo in risalto l'estrema complessità, i sotterranei legami fra temi e motivi, l'impiego di scale esatonali e octotoniche, di modalità frigie, di peremennost e nega, e così via discettando. Resta il fatto che, a mio modesto avviso perlomeno, tutto questo armamentario per così dire tecnologico non basta a fare grande un'opera, quando essa è carente alla base di narrativa (musicale, s'intende) esteticamente apprezzabile, salvo forse che per un regista cinematografico in cerca di colonne sonore.

 
Qualcuno si è anche azzardato a fare paragoni fra questa sinfonia e la Patetica di Ciajkovski… a me pare francamente patetica la velleità di Rachmaninov di scrivere sinfonie siffatte in pieno novecento. Ma per sua fortuna, in USA, dove ormai risiedeva dopo aver fuggito il comunismo, non c'era nessuno Zdanov a censurarlo (smile!)

 
E così, mentre lui magari se la ride, dalla sua residenza di Valhalla, ad andarci di mezzo sono i poveri professori che, dopo aver fatto una fatica bestia per suonare la sua pretenziosa sinfonia, ricevono a malapena due striminziti applausi di cortesia. Ecco, opere come queste andrebbero tolte dal repertorio per legge (smile!) Per di più, fuori continua a piovere, governo l…

 
Sempre Iorio con brani da opere italiane la prossima settimana.
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27 novembre, 2009

Stagione dell'OrchestraVerdi - 8

Programma pesante (ma in senso buono) per la nuova apparizione di Damian Iorio sul podio de laVerdi (Orchestra disposta alla tedesca, come evidentemente preferisce il Maestro).

L'apertura è dedicata a Gian Francesco Malipiero, e alle sue prime (1917) sette Pause del silenzio. Sette – numero fatidico per il compositore – brani composti in piena Grande Guerra a descrivere atmosfere o stati d'animo. La composizione intercala regolarmente un tempo lento o andante a uno mosso, chiudendo poi con un altro Allegro vivace e marcato. Ha un segnale che si ripete, variato e proposto da strumenti diversi (fiati) all'inizio di ciascuna pausa. In ciò è labilissimamente legata alla sinfonia mahleriana, che apre con un altro squillo, quel celebre pa-pa-pa/pà in DO#, suonato dalla prima delle quattro trombe. Se posso muovere una critica, non è all'esecuzione ma alla logistica: fare un intervallo di 20' dopo un brano introduttivo di 13' mi è parso fuori luogo; si poteva omettere tranquillamente l'intervallo (spesso la Quinta di Mahler viene anche presentata da sola, senza preamboli, senza offesa per Malipiero, sia chiaro!)

Ecco quindi la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Un'opera da tempo entrata stabilmente nei repertori di tutte le orchestre e di tutti i Direttori di questo mondo. Perché, almeno dall'ultimo dopoguerra, Mahler ha finalmente cessato di essere inattuale, e il suo tempo è finalmente venuto (come lui stesso profetizzava quando era in vita). Ma più di un secolo fa l'establishment musicale – che gli riconosceva indubbi meriti come Direttore – nutriva assai scarsa considerazione per le sue doti di compositore.

Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell'incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: "Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l'originalità né dell'uno né dell'altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest'altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L'idea di un'esecuzione a Torino è da scartarsi."

Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra

Positivo, ma con qualche frecciatina, l'amico-rivale Richard Strauss, che scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: "La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un'immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po' troppo lungo…"

Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: "La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l'Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria."

Come è andata ieri sera? Purtroppo un'esecuzione che poteva essere più che dignitosa è stata macchiata da troppe imprecisioni degli strumentisti, in special modo delle parti semi-solistiche. La prima tromba, ad esempio, dopo aver eseguito in modo impeccabile l'esordio (strumento in SIb) ha invece steccato e storpiato totalmente (con lo strumento in FA) la frase che precede immediatamente la coda nel movimento iniziale. Nello Scherzo, il corno obligato (in FA) ha rovinato una performance che poteva essere ottima con più di un'imprecisione (l'abbiamo visto far ripetutamente ruotare lo strumento, come per …svuotarlo). Ma queste sono solo le più evidenti fra le pecche che si sono riscontrate qua e là nell'esecuzione. Peccato, poiché Iorio ha da parte sua staccato tempi sempre rispettosi della partitura, senza prendersi mai libertà né introdurre effetti personali.

A proposito del Maestro, non possiamo che augurargli di seguire le orme di un altro inglese di sangue italiano, che ha raggiunto i vertici assoluti.

Come sempre ben curato il programma di sala, in particolare la presentazione della sinfonia del professor Enrico Girardi, alla quale mi permetto di fare solo un piccolo appunto riguardo le autocitazioni di Mahler (di propri Lied) che non sono tre (Nun will die Sonn', Ich bin der Welt e Lob des hohen Verstandes) ma quattro: al numero 29 del rondò finale compare, in flauti, oboi e clarinetti, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge (un Lied la cui ispirazione Mahler candidamente confessò di aver avuto nel 1899 durante una seduta sul WC!)

La settimana prossima, come dice il titolo del concerto, si va dalla Russia all'America.

20 novembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 7

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Concerto con impaginazione assai variegata, quello ascoltato ieri sera all’Auditorium di Largo Mahler, dove laVerdi tornava dopo tre settimane di peripatetico vagare attraverso la penisola (Palermo, con due concerti in un sol giorno, Messina, Palmi, Lamezia, Taranto, Bari, Teramo, Pescara, Campobasso e Sulmona).

È doveroso far notare questa caratteristica – quasi unica nel panorama italiano – di un’orchestra che si impegna, e non a livello episodico, ma in modo serio e strutturato, a portare il messaggio musicale in giro per l’Italia. In città dove non c’è un’Orchestra Sinfonica stabile e magari neanche un Auditorium, dove non ci sono stagioni sinfoniche e la gente è costretta a viaggiare, se vuole ascoltare buona musica. Una ragione di più perché le pubbliche Istituzioni non facciano mancare il loro sostegno alla Fondazione.

Chiudo il carosello pubblicitario segnalando un’altra lodevole iniziativa, fra le tante, rivolta agli studenti: Concerto a porte aperte all'Auditorium. Proprio questa sera, al Turno B, essi potranno gratuitamente accedere alla sala: è anche questo un segnale di attenzione e di sensibilità di cui dare atto alla Fondazione.

Ora, la musica. Come è costume per concerti multiformi, si parte con una coinvolgente Ouverture: nella fattispecie i Vespri verdiani. Un vero gioiello, cui il termine sinfonia si attaglia perfettamente (ne avesse avuto il tempo e la voglia, Verdi avrebbe tranquillamente potuto rivaleggiare con i contemporanei Dvorak e Ciajkovski nell’agone sinfonico).

Intanto: la disposizione dell’Orchestra è in stile tedesco (tutti i violini davanti, bassi a sinistra) e poi, in evidente omaggio a Verdi, c’è un bel cimbasso (al posto della moderna tuba). Visto che non c’è molto da inventare su questo pezzo, qualche curiosità sui tempi. A parte il prestissimo finale (introdotto dalla fanfara degli ottoni) Verdi indica minuziosamente il metronomo: 52 semiminime per il Largo introduttivo - 33 misure 4/4 - e poi 88 minime per il resto, in Allegro agitato – 185 misure, 4/4 alla breve. Essendoci un solo, brevissimo cambio di dinamica, su una sola battuta (più un paio di corone puntate) che può pesare al massimo 2” sul tempo totale, si può precisamente calcolare la durata teorica dell’ouverture, escluso il prestissimo: 2’32” + 4’12” = 6’44”. Tanto per fare due esempi, qui Abbado con i Berliner (Palermo, 2002) tiene 3’06” + 4’52” = 7’58”, quindi è molto, molto lento rispetto alla prescrizione verdiana. Tradotto in metronomo: 43 semiminime + 76 minime. Anche Mehta (Roma,1990) è più lento del Verdi teorico, ma solo nell’allegro, chè nel largo è più rapido: 2’20” + 5’03” = 7’23”, corrispondenti a metronomo 57 semiminime + 73 minime. Qui invece un riferimento fra il comico e il deprimente (è evidente che in Guatemala non hanno El Sistema…)

Damian Iorio come l’ha fatta? Beh, io non giro col cronometro, né tanto meno col metronomo in tasca, quindi devo fidarmi dell’impressione del momento. Direi complessivamente sopra i tempi verdiani, ma non di molto. Sul piano del suono, mi è parsa un’esecuzione ben curata, senza eccessi retorici nei momenti di maggior impeto. Certo, anche il fracasso è inevitabile, ma è di quelli d.o.c. e l’Orchestra lo ha reso al meglio. In particolare bravi i violoncellisti, nelle esposizioni del tema di Henry&Monfort.

Poi è di scena Massimo Quarta, violinista che sale a volte anche sul podio di direttore, per interpretare una composizione in prima assoluta, commissionata dall’Orchestra Verdi e scritta per lui da Silvia Colasanti, Il canto di Atropo. Qui una presentazione di Massimo Colombo. Un brano assai profondo e coinvolgente, anche se nella sezione centrale il solista si distingue poco dagli altri archi dell’orchestra. Successo di stima, ovviamente, per l’autrice, presente in sala e salita sul palco a raccogliere meritati applausi.

Poi ancora Quarta in un’opera celebre, la Tzigane di Ravel, in cui mette in risalto tutte le sue qualità virtuosistiche (ma anche l’arpa ha la sua parte di gran rilievo!) Credo che il suo problema – per il futuro – sia la necessità di scegliere fra la specializzazione concertistica (ha già inciso quasi tutto Paganini, per dire) e quella di Direttore d’Orchestra: si sa che entrambe le cose sono assai difficili da conciliare a livello altissimo.

Il piatto forte del concerto è la Quinta di Prokofiev. Che prevede, come peculiarità rispetto all’orchestra classica, la presenza del pianoforte, ovviamente solo con compiti di riempitivo (spesso di rinforzo o complemento all’arpa, che pure ha qui un impiego assai corposo) e non certo solistici. Robuste anche le percussioni, rinforzate da tamburo, tamburino, tamburo di legno e tam-tam.

Nell’Andante introduttivo, Iorio fa emergere molto bene il contrasto fra i due temi (che pure hanno una qualche parentela melodica). In particolare eccellenti gli ottoni (trombe in testa) nel grandioso sviluppo, dove sono attesi da impervie difficoltà.

Lo Scherzo (Allegro marcato) ha un incipit di cui si dev’essere ricordato Nino Rota, al momento di comporre le musiche per il felliniano . Poi nella partitura c’è un dettaglio francamente curioso, quasi maniacale: le due misure prima del segno 29, otto coppie di crome suonate in staccato ff dagli archi, contrabbassi esclusi, sono prescritte al tallone (la base dell’archetto) unica indicazione di questo tipo nell’intera sinfonia. Bravissimi qui gli archi a mantenere quel ritmo che ricorda una sbuffante locomotiva lanciata a gran velocità, o anche un maglio meccanico che – siamo in piena guerra! - modella lingotti d’acciaio per costruirci carri armati. Eccellenti nel trio gli strumentini, come anche arpa e pianoforte, che vi hanno un ruolo importante. Perfetta l’accelerazione che riporta il tema principale ad Allegro, con la conclusiva volata, tutta in staccato negli archi bassi e nel pianoforte, verso il tonfo finale, sull’accordo di RE minore di tutta l’Orchestra.

Nell’Adagio il rischio che corre il Direttore è quello di non riuscire a catturare l’attenzione del pubblico su un brano che è effettivamente ostico, e può facilmente trasformarsi in letale morfina. Siamo in un mondo espressionista, che ricorda vagamente certi passaggi dell’Adagio della decima mahleriana, con gli archi a disegnare contrappunti quasi dissonanti e gli strumentini che sovrappongono la melodia principale. La parte centrale è più mossa, e poi Prokofiev vi inserisce poderosi colpi di tam-tam, evidentemente per risvegliare gli assopiti, prima della chiusa, che il clarinetto conduce in un’atmosfera sempre più rarefatta.

Infine l’Allegro giocoso: è un Rondò, introdotto da richiami del tema principale del primo movimento, poi subito inizia il ritmo da treno in corsa che sostiene sempre il tema principale, che ricorrerà più volte, esposto via via – e variato - da diversi strumenti. I temi secondari sono per lo più a carico degli strumentini, davvero tutti bravi. All’ultima ripresa del tema principale c’è per le trombette (con sordina) un tour-de-force particolare, con velocissime semicrome puntate a sottolineare il generale trambusto, che porta alla conclusione, dove le stesse trombe, ora a voce spiegata, sembrano quasi imprigionare gli archi che - con pianoforte, arpa e percussioni - vorrebbero perpetuare il loro isterico moto. Smagliante la chiusa, repentina, sul tempo debole.

Un’esecuzione rimarchevole, e una bella serata nel suo complesso. Iorio torna sullo stesso podio fra una settimana, con un’altra Quinta, se possibile ancor più impegnativa, per lui e per i professori: quella di Gustav Mahler.

Intanto stasera ci aspetta un altro Requiem.
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