Concerto (quasi) tutto russo per il ritorno di Damian Iorio sul podio de laVerdi.
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Si comincia però con un brano di rarissima esecuzione: il poema sinfonico L'infinito di Aldo Finzi, compositore italico vissuto – non proprio tranquillamente, essendo lui ebreo in epoca di leggi razziali - nella prima metà del novecento. Iorio ricorda brevemente la figura del musicista, prima di dare l'attacco. A proposito, è da segnalare la lodevole iniziativa dell'Associazione Aldo Finzi Diacronia che mette a disposizione gratuitamente le partiture del musicista, oltre ad organizzare eventi a scopo benefico.
Opera del 1933, ma chiaramente legata al tardo-romanticismo - a partire dall'ipertrofica orchestra, che comprende due arpe, celesta e pianoforte, oltre a percussioni di ogni risma - il poema sinfonico è strutturato in tre sezioni, le due estreme piuttosto lente e con sonorità assai tenui, che chiudono all'interno quella più mossa e rumorosa. La prima, Calmo in SI maggiore, tempo prevalente 3/4, rappresenta inizialmente una quiete, rotta soltanto da interventi dei corni; poi è un lento e progressivo crescendo, con reminiscenze mahleriane (nona sinfonia e Abschied) che culmina in un climax caratterizzato da una perorazione in fortissimo di corni e tromboni (che riprendono un analogo motivo esposto assai prima dalle trombe, ripresa poi dagli archi che tornano alla calma iniziale per preparare la seconda sezione dell'opera: Mosso, in DO minore, tempo 2/4 ma con diverse escursioni a 6/8 e 9/8; la sezione presenta ancora reminiscenze mahleriane e wagneriane, ed è caratterizzata prevalentemente da un ritmo in metro dattilo (croma-semicroma-croma) che stringe fin poi a diminuire verso la terza sezione, assai breve, ancora SI maggiore, Calmo in 3/4. Prima della chiusura torna – nelle trombe - il motto udito nella sezione iniziale, poi tutta l'orchestra (trombe tacendo!) esala in pianissimo l'ultimo accordo nella tonalità principale.
Un lavoro interessante, anche se non mi sentirei di scandalizzarmi per la sua scarsa notorietà. Di sicuro, se anche alla Scala (dopo laVerdi) si programma Il lago incantato di Liadov, allora anche all'Infinito di Finzi va accordato il permesso di soggiorno (smile!)
Impeccabile comunque l'esecuzione (al contrario di questa, della prima americana!)
Poi arriva Natasha Korsakova con il suo violino per interpretare il Concerto op.99 di Shostakovich. Natasha è indubitabilmente quella che in tutti i bar (maschilisti, ma ce ne sono di femministi?) si definirebbe una gran gnocca (non per nulla è testimonial di una nota casa di moda). E poi nel testo albionico della sua biografia si trovano queste perle: è di decenza (sic!) greco-russa (in effetti discende nientedopodomanichè dal grande Nicolai) e un tale che scrive su un giornale tedesco afferma di provare, ascoltandola, un'esperienza musicale peccaminosamente bella. Ohibò, vuoi vedere che suona nuda? mi son detto – confortato anche dalle foto sul suo sito - e ho subito riesumato il mio binocolo da marina da portarmi al concerto!
Poi, continuando a leggere la sua biografia, ho notato che il primo auditorium della lista di quelli frequentati dalla bella Natasha è proprio il nostro, quello di Largo Mahler, che viene prima di catapecchie di provincia come la Gewandhaus e il Concertgebow. E allora mi è venuto il sospetto che ci sia sotto qualche traffico più o meno losco, data la nazionalità della ragazza e i trascorsi filo-sovietici del management de laVerdi (smile!) In effetti lei è di casa in Italia ed ha pure suonato per il nostro Presidente, quello buono, intendiamoci (qui non si tratta di bunga-bunga, ma di musica classica, chiaro?) forse per via dei suoi (del Presidente intendo) trascorsi comunisti (ri-smile!) Battute a parte, la bella Natasha è pure brava, anche se ho personalmente trovato l'esperienza vissuta ascoltandola… tutto fuorchè peccaminosa (mi viene il dubbio che fosse quel cronista tedesco ad avere qualche problemino – o qualche birra - di troppo).
Il Concerto di Shostakovich (qui il dedicatario David Oistrakh) – in 4 movimenti, un'eccezione alla regola classica – fu tenuto parecchio nel cassetto dall'Autore, che aspettò prudentemente che baffone Stalin e soprattutto il suo procacciatore artistico Zdanov togliessero l'incomodo, prima di decidersi a pubblicarlo (della serie: certe vacanze-premio in Siberia meglio evitarle, se possibile).
È un concerto di quelli tosti, dove c'è di tutto: grande ispirazione e religiosità nel Moderato notturno iniziale, un primo risveglio nel successivo Scherzo, dove il dialogo del violino con i fiati, chiamati via via ad interventi solistici, si fa serrato, particolarmente nella sezione centrale, sfociando nell'ostinato e poderoso finale. Il terzo movimento (Passacaglia) si apre con una cupa introduzione di timpani e corni (qualcuno ci vede un richiamo al motto della Quinta beethoveniana) seguita da un corale di matrice squisitamente russa, poi il violino sembra riprendere il languido discorso interrotto nel primo movimento, quindi assume un incedere più deciso e sonorità più marcate, per tornare a spegnersi, accompagnato dal mesto ritmare della tuba; per poi concludere con una lunghissima cadenza,dapprima di sapore quasi bachiano, e poi sfociante in una serie di passaggi di alto virtuosismo. E infine uno dei classici, inconfondibili, tarantolati Presto di questo autore, dove il solista e l'orchestra sembrano inseguirsi in una forsennata discesa senza freni, una reminiscenza del mahleriano Burleske (che dà il nome al movimento) fino al repentino schianto conclusivo.
La Korsakova ottiene un gran successo: la tecnica è sopraffina, il suono caldo e chiaro, ma soprattutto grande è stata la sensibilità interpretativa, in specie nei movimenti lenti ed in particolare nella cadenza. Forse qualcosa da ridire avrà la sua sponsor Laura Biagiotti, del cui pregevole lungo nero Natasha ha usato un paio di pieghe per asciugare il sottomento del suo (certo più prezioso ancora) violino!
Il bis che ci viene concesso è di quelli inusuali, poiché coinvolge anche l'arpa e pochi archi dell'Orchestra. Ma la brava Natasha si vuol prendere una soddisfazione che il suo ruolo di solista (che per definizione la porta solo a calcare le tavole del palco, e non quelle della buca) le nega per definizione: suonare con l'orchestra la Méditation, dalla Thaïs di Massenet.
Da ultimo ancora una sinfonia, la Terza, di Rachmaninov (e meno male che non ne ha scritte altre, smile!) Leopold Stokovski ne fu il virtuale dedicatario: ne diresse la prima con la Philadelphia nel 1936, a poche settimane dal completamento. L'insuccesso a quanto pare convinse il bizzarro direttore a dimenticarsene per 40 anni, dopodiché la riesumò per un'incisione londinese. Anche quest'opera contravviene apparentemente i sacri canoni formali: i 4 tempi sono qui ridotti a 3 (a compensare preventivamente quello in eccesso nel concerto di Shostakovich, smile!) e una specie di Scherzo, invece di inglobare un Trio, è lui stesso inglobato nell'Adagio centrale. L'immancabile pisciatina di cane del Dies-Irae – il compositore ne soffriva il complesso, evidentemente - vi fa capolino, in modo esplicito nell'ultimo tempo, ma più cripticamente anche prima.
Il primo movimento è in forma-sonata: inizia in tempo lento, e vi viene esposto il motto in LA minore, che richiama vagamente l'introduzione della Piccola Russia (la seconda di Ciajkovski) e che introduce l'Allegro, nel quale spicca un tema cantabile, in MI, dei violoncelli. Al centro dello sviluppo un crescendo porta ad un accordo che i tecnici definiscono iper-dissonante, che introduce la ricapitolazione e poi la coda, col secondo tema che modula in LA maggiore, nel rispetto dei sacri canoni formali.
L'Adagio, ma non troppo si apre con un richiamo del corno al motto iniziale, seguito da un assolo del violino, cui il violoncello risponde à-la-Sibelius. Affiorano poi incisi dalla quasi contemporanea Rapsodia su Paganini, insieme a vaghi ricordi del secondo concerto per pianoforte, misti a un po' di Meistersinger! Ecco poi l'Allegro vivace annegato all'interno del movimento, che sembra addirittura ispirarsi all'Apprenti Sorcier! Di sicuro un bel minestrone, non c'è che dire… Poi si rientra nei ranghi, per riscaldare il suddetto minestrone, come da buone tradizioni di famiglia. Eccola: un gran pot-pourri di idee assai poco originali.
L'Allegro conclusivo mescola il motto iniziale con il Dies-Irae, dà spazio ad esibizioni solistiche (fagotti) e contempla una specie di fugato mutuato dalla seconda. Momenti di stasi idilliaca, rotti da brusche scosse dei bassi e alternati ad esplosioni in cui si ricapitolano temi già uditi, in un'orgia di percussioni da un-tanto-al-kilo. E infine il lento e progressivo crescendo che porta alla marziale chiusura, carica di enfasi pari alla totale inconsistenza estetica.
Chi ha analizzato nei dettagli la struttura della sinfonia ne ha messo in risalto l'estrema complessità, i sotterranei legami fra temi e motivi, l'impiego di scale esatonali e octotoniche, di modalità frigie, di peremennost e nega, e così via discettando. Resta il fatto che, a mio modesto avviso perlomeno, tutto questo armamentario per così dire tecnologico non basta a fare grande un'opera, quando essa è carente alla base di narrativa (musicale, s'intende) esteticamente apprezzabile, salvo forse che per un regista cinematografico in cerca di colonne sonore.
Qualcuno si è anche azzardato a fare paragoni fra questa sinfonia e la Patetica di Ciajkovski… a me pare francamente patetica la velleità di Rachmaninov di scrivere sinfonie siffatte in pieno novecento. Ma per sua fortuna, in USA, dove ormai risiedeva dopo aver fuggito il comunismo, non c'era nessuno Zdanov a censurarlo (smile!)
E così, mentre lui magari se la ride, dalla sua residenza di Valhalla, ad andarci di mezzo sono i poveri professori che, dopo aver fatto una fatica bestia per suonare la sua pretenziosa sinfonia, ricevono a malapena due striminziti applausi di cortesia. Ecco, opere come queste andrebbero tolte dal repertorio per legge (smile!) Per di più, fuori continua a piovere, governo l…
Sempre Iorio con brani da opere italiane la prossima settimana.
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