trump-zelensky

quattro chiacchiere al petrus-bar
Visualizzazione post con etichetta axelrod. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta axelrod. Mostra tutti i post

01 febbraio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.14 - Axelrod

Il classicismo viennese occupa la locandina di questo 14° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano che vede il gradito ritorno sul podio dell’Auditorium di John Axelrod. In programma Mozart e Beethoven!

Del sommo Teofilo riascoltiamo, dopo più di sei anni (novembre ’18, dir. Fournillier) il Concerto per flauto e arpa (K299). E come allora i due solisti sono le rispettive prime parti dell’Orchestra, Nicolò Manachino ed Elena Piva.

Concerto composto a Parigi (durante il lungo viaggio del 1778, funestato alla fine dalla morte della madre) su commissione del Duca di Guines, che era discreto flautista ed aveva una figlia che si dilettava con l’arpa (Mozart fu suo maestro ma, a dirla tutta, dopo un’iniziale apprezzamento, finì per considerarla musicalmente una nullità…)

Ma non per questo si tratta di un brano povero di contenuti, caso mai si può pensare che Mozart abbia privilegiato nella composizione uno stile galante e lezioso, evitando arditezze eccessive per i due commisionanti-dedicatari dell’opera. Lo testimoniano anche le tonalità (DO di impianto, SOL e FA ancillari) con il minimo di accidenti. Che abbondano nelle famose cadenze di Carl Reinecke, assai ricche di cromatismi… ma non impiegate qui, in favore di altre più vicine allo spirito mozartiano.

Grande prestazione del duo dei campioni di casa, calorosamente applauditi da un pubblico foltissimo e, soprattutto, con ampia e confortante rappresentanza di giovani e giovanissimi, ricambiati da una pregevole Elegia

___
Ecco, infine, la più celebre delle Pastorali, che riascoltiamo in Auditorium a distanza di quasi otto anni: luglio ’17, ciclo delle 9 sinfonie dirette da Flor (qui una mia notazione, più che altro statistica, scritta a quel tempo e purtroppo – ah, il progresso! - infarcita di web-link andati nel frattempo a meretrici…)

Come sappiamo, fu proprio lo stesso Beethoven, seguendo illustri esempi provenienti dal passato, ad introdurre nel corpo della Sinfonia qualcosa di extramusicale, addirittura dotando l’opera e i suoi cinque movimenti di dettagliati titoli descrittivi: Ricordi di vita campestre (più espressione di sentimenti che pittura); (1) Gradevoli, serene sensazioni che si risvegliano nell’uomo all’arrivo in campagna; (2) Presso un ruscello; (3) Allegra riunione di paesani; (4) Tuoni. Uragano; (5) Canto di pastori. Benefici sentimenti accompagnati da ringraziamenti alla divinità, dopo l’uragano.  

Si premurò di precisare che non trattavasi di pittura (leggasi: descrizione di luoghi o fenomeni) ma di espressione di sensazioni provate al cospetto di tali luoghi o fenomeni. Poi però, temendo di non essere abbastanza chiaro, sentì il bisogno di scrivere esplicitamente fra i righi musicali i nomi di tre volatili colà rappresentati da suoni di strumenti dell’orchestra: usignolo, quaglia e cuculo!

Insomma, con la sua Sesta, Beethoven cominciò a sdoganare l’idea che una composizione sinfonica potesse avere, oltre a quello tutto interno e privato dell’Autore, anche un programma esplicitamente extra-musicale. Aprendo quindi la strada a Berlioz, Liszt e a tutti i loro epigoni cresciuti lungo l’800 e pure dopo. Uno dei quali (tale Mahler) dopo aver spiegato pubblicamente i programmi extramusicali delle sue prime cinque Sinfonie (così sperando di convincere il pubblico a comprenderle e digerirle meglio!) ritirò tutti quei programmi per invitare il pubblico stesso ad abbandonarsi al rapsodo, senza far caso ad alcun esplicito riferimento! [Fra poco vedremo come Axelrod applichi un concetto analogo alla Pastorale.]

Ripropongo qui il link ad un fulminante, gustosissimo articolo di John Simon, che ridicolizza il concetto stesso di musica descrittiva… Al quale ne aggiungo uno mio personale: È la musica in grado di descrivere alcunchè?  

Ma, tornando a bomba, assai più interessante è stata invece la chiacchierata che Axelrod in persona ci ha propinato prima del concerto, nella consueta conferenza delle 18:30 organizzata da Pasquale Guadagnolo, nella quale il direttore texano ha esposto la sua vision dell’opera.

Che è mutuata dai contenuti di un testo scientifico della psichiatra svizzera, naturalizzata statunitense, Elisabeth Kübler-Ross che, avendo per ragioni professionali seguito diversi casi clinici, ha schematizzato l’ideale percorso psicologico di persone che scoprono di essere affette da malattie incurabili, suddividendolo in 5 fasi distinte (proprio come i 5 movimenti della Sinfonia, osserva Axelrod): si va dalla fase (1) di Negazione (della malattia) ed isolamento; alla (2) di Rabbia (indotta dalla consapevolezza); alla (3) di Contrattazione (promettere qualcosa in cambio di sollievo dalla malattia); alla (4) di Depressione (per la perdita irreparabile di parti di se stesso); e infine alla (5) di Accettazione (e isolamento in attesa della fine).

Ecco, alla luce di questa teorizzazione dei comportamenti umani di fronte alla prospettiva esistenziale legata alle conseguenze di malattie incurabili, Axelrod - invertendo peraltro le posizioni delle fasi (2) e (4) - prova ad interpretare, anche con precisi riferimenti alla partitura, i cinque movimenti della Pastorale come il percorso psicologico di Beethoven, condizionato dalla sua irreparabile sordità: la messa su pentagramma di quei suoni di natura (ecco il riferimento a Mahler e ai suoi programmi ripudiati) che ormai poteva ascoltare soltanto nella sua mente…

Interpretazione accattivante, anche se forse un po’ troppo… freudiana, oltre che strettamente legata alla condizione esistenziale di Beethoven (la sordità): quasi che la sinfonia non fosse il frutto di ciò che Beethoven voleva dirci (e ci ha chiaramente descritto in partitura) ma di ciò che il suo inconscio gli abbia dettato, sotto la pressione della malattia. Ma allora non si spiegherebbe come Beethoven abbia poi composto la Settima (francamente in-interpretabile secondo il metodo psicanalitico della Kübler-Ross, così come l’Ottava e la Nona).

Va dato atto all’onestà intellettuale del Direttore di non pretendere di avere la verità in tasca: ciascuno è libero di condividere o meno questa sua interpretazione psicanalitica. Dopodichè l’esecuzione è stata trascinante ed ha portato tutto il pubblico (comunque l’abbia vissuta) ad apprezzarla al massimo grado, almeno a giudicare dalle ovazioni e applausi ritmati rivolti a Direttore e strumentisti.

12 gennaio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.8

La stagione principale de laVerdi riprende nell’anno nuovo con un’appendice del vecchio: si torna un po’ all’atmosfera natalizia, con un programma che presenta come primo brano la Suite da Lo Schiaccianoci di Ciajkovski. 

Sul podio un gradito ritorno: quello di John Axelrod, che ha diretto gli 8 numeri della Suite (circa 25 minuti, rispetto a 1 ora e 45 minuti dell’intero balletto) con grazia e leggerezza settecentesca. Sugli scudi Carlotta Lusa alla celesta, il flauto di Nicolò Manachino, e l’arpa di Elena Piva, destinatari di speciali riconoscimenti da parte di un pubblico non più oceanico come nei concerti delle trascorse feste, ma sempre caloroso e prodigo di applausi per tutti.
___
Ha poi chiuso la serata un altro famoso brano di musica russa da balletto: l’Uccello di Fuoco di Igor Stravinski. Di cui l’Orchestra ha eseguito, per la terza volta nella sua intera storia, la versione integrale (1909-10). A differenza di quelli classici di Ciajkovski, i balletti moderni di Stravinski normalmente non superano di molto la mezz’ora, e questo è forse il più lungo (45’) e può così trovar posto anche in un programma concertistico (le Suite predisposte dall’Autore non sono poi tanto più corte). E in effetti si può sempre discutere se sia musica proprio godibile al massimo grado anche in assenza della coreografia per la quale fu composta…    

Rispetto a Ciajkovski qui l’orchestra è a pieni ranghi, anche se solo a tratti (oltre che nell’abbagliante finale) viene impiegata in modo massiccio, anzi. In ogni caso la prestazione dei ragazzi è stata davvero eccellente, e il Direttore ha messo nel dovuto risalto i tratti infernali della partitura (che anticipa quelli davvero barbari del Sacre).

Esecuzione accolta da lunghi e reiterati applausi per tutti (e anche ritmati per Axelrod). Si replica solo questa sera.

22 ottobre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 4

É un’altra vecchia conoscenza de laVerdi a far ritorno sui Navigli per il 4° appuntamento stagionale: trattasi di John Axelrod, che vi dirige un concertone di quelli proprio tosti, Schumann e Beethoven!  

Ecco quindi la Quarta del grande Robert, composta quasi contemporaneamente alla prima (1841) e poi rivista 10 anni più tardi, dopo la nascita della seconda e della renana, e quindi pubblicata come la sua ultima...

All’inizio pare Haydn (introduzione lenta al tempo Vivace) ma poi presenta una gran quantità di innovazioni: dal ricorrere di temi in movimenti diversi, all’assenza di cadenze e pause fra i 4 movimenti, alla presenza di autentici colpi di teatro, tutte cose che piaceranno assai ad un certo Mahler che - oltre a permettersi di riorchestrarle - ne trarrà ampiamente ispirazione per le sue sesquipedali sinfonie.     

Poi la Settima beethoveniana, tanto cara a Wagner quanto diversa da Schumann, con le sue mirabili simmetrie e con il suo rigore costruttivo. Due opere quindi assai distanti, e non solo per i 30 anni (o 40) che le dividono, ma per la diversissima concezione che le anima.

Axelrod? Beh, se devo giudicarlo dalle agogiche, cioè dai tempi staccati, potrei dirne solo bene. Peccato che - a mio modestissimo parere - abbia male interpretato le dinamiche, eccedendo nei fracassi soprattutto degli ottoni, che sia in Schumann che in Beethoven hanno nuociuto assai alla resa complessiva, penalizzando gli archi, sempre sovrastati dalle strappate di corni, trombe e (in Schumann) tromboni.

Insomma, eccessiva foga e bandismo, che magari avranno eccitato il pubblico - prodigo di applausi al termine di entrambi i brani - ma che mi sembra abbiano un po’ banalizzato i due capolavori.

08 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°15


Per un italiano (Bignamini) che, lanciato da laVerdi, va a far fortuna in America, ecco un americano che ha fatto fortuna in Europa e con l’orchestra milanese in particolare: John Axelrod, che torna sul podio dell’Auditorium per proporci un programma davvero insolito. Sia come impaginazione che come contenuti: fra due lavori ottocenteschi (di un suocero e del suo genero!) si inserisce un brano che non ha ancora compiuto due anni. In realtà è ciò che la locandina prevedeva in origine... poi, per evidenti ragioni di praticabilità logistica è il brano moderno ad essere eseguito per primo.

E così prima di Liszt e Wagner ascoltiamo un’opera che si esegue per la seconda volta in Italia (dopo la prima dello scorso 15 novembre a Parma, eseguita dalla Toscanini). Si tratta di Eternal Rhythm, dell’israelo-americano Avner Dorman. Opera del 2018 che viene presentata come un singolare Concerto per percussioni e orchestra. Il solista, che ad essa si è legato a doppio filo, essendone il dedicatario, è il funambolico Simone Rubino, 27enne di Chivasso, che deve destreggiarsi con una serie di percussioni, disposte a ferro di cavallo attorno al podio, quali marimba, crotali, gamelan, glockenspiel, vibrafono, campane e campanacci, tom-tom, timpani e... pentolame vario.

Il brano è in 5 movimenti, senza soluzione di continuità, ciascuno dei quali ha una sua differente fisionomia: il quarto ad esempio è ispirato da un antico testo ebraico intonato dal solista (Rubino ha sfoggiato una bella voce da contralto...) che ci rammenta come noi esseri viventi non siamo che parte integrante dell’universo.

Ammesso che siamo di fronte a musica che si faticherebbe a definire... classica, resta la sua gradevolezza e la sua godibilità. E poi è un piacere di per sè ascoltare (e guardare!) il fenomeno Rubino! Che il pubblico ha subissato di ovazioni, ricambiato da una geniale esecuzione (a voce senza parole) della celebre AveMaria di Gounod
___
Liszt e Wagner ancora non erano parenti quando composero i due lavori che aprono e chiudono il programma: il quarto dei poemi sinfonici dell’ungherese è del 1854, mentre la Handlung fu sbozzata a partire da quel medesimo anno e poi completata nel 1859. La relazione di parentela ufficiale intervenne solo nel 1870, con il matrimonio di Richard e Cosima (lasciata libera da vonBülow) i quali peraltro avevano già reso Ferenc (di soli due anni maggiore di Richard) tre volte nonno!

Ma il legame di parentela fra i due non si ferma ovviamente all’aspetto anagrafico, essendo ben più forte quello artistico ed estetico. Che si era stabilito ben prima che sopraggiungesse quello famigliare: Liszt era stato fra i primi ad intuire le qualità delle opere di Wagner e in particolare aveva tenuto amorevolmente a battesimo, nel 1850 a Weimar, il Lohengrin, ai tempi in cui Wagner era esule dopo i moti di Dresda (e Wagner nel 1852 lo ringraziò pubblicamente, nella prefazione all’edizione manoscritta della partitura, dedicandogli il lavoro ed esaltandolo come colui che l’aveva salvato dall’oblio). La stima di Liszt per il futuro genero non cessò mai, a dispetto delle divisioni che separavano i due riguardo l’antisemitismo di Wagner, che il cattolico (abate!) Liszt condannava come un’incomprensibile ossessione. Durante il ricevimento alla chiusura delle prime rappresentazioni del Ring a Bayreuth (1876) Wagner indicò pubblicamente Liszt come colui che aveva reso possibile il suo successo.

Fra i due brani in programma - per quanto diversissimi come genere e struttura - si può scorgere qualche vicinanza: Orfeo e Tristan celebrano la sublimazione dell’amore; entrambi perdono l’amata nella luce solare, la conquistano o riconquistano nelle tenebre, per poi riperderla al ritorno del giorno... Addirittura la prefazione che Liszt scrive alla partitura dell’Orpheus (la lode dell’Arte e della Musica in particolare come strumenti di edificazione dello spirito umano e di lotta contro la barbarie della società) sembra richiamare le sfrenate ambizioni di Wagner (non a caso aperto ammiratore di questo poema sinfonico) che si autostimava come un messia che redime la società attraverso l’Arte, considerata alla stregua di una nuova Religione.  
___
Come altri poemi sinfonici di Liszt, anche Orpheus ebbe un’origine curiosa: prima di ribattezzarlo come Symphonische Dichtung, Liszt lo compose e lo eseguì come anteprima per una rappresentazione a Weimar della versione francese dell’Orfeo di Gluck, quella curata da Hector Berlioz, di cui Liszt fu fin da giovane fervente ammiratore e seguace. Ecco quindi ripristinato quel filo rosso (Berlioz > Liszt > Wagner) che tanta parte ha avuto nell’evoluzione della musica nell’800 (e ben oltre!)

Significativo l’impiego che Liszt fa - fin dalle prime battute - di ben due arpe: certo giustificato dal richiamo alla lira di Orfeo, ma che è debitore al Berlioz della Fantastica (Un bal...) e che il megalomane Wagner spingerà all’eccesso con le sette arpe (!) prescritte per il suo Rheingold, coevo dell’Orpheus!    

Altra relazione con Wagner si trova nell’intervento del corno inglese, che poco prima della chiusura nell’etereo DO maggiore espone una breve melopea che non può non ricordarci l’incipit di quella interminabile che lo strumento suona all’inizio del terz’atto del Tristan. 

Il brano si struttura macroscopicamente come ternario (A-B-A) con una breve introduzione e una coda conclusiva; le tonalità di fondo sono DO (sezione A) e MI (sezione B). In sostanza la melodia è quasi monotematica, un tema che viene sottilmente variato lungo l’arco del brano.
___
L’agogica prevalente è piuttosto sostenuta, come possiamo constatare in questa ispirata interpretazione di Kurt Masur a Lipsia: si parte con un Andante moderato; l’Introduzione (7”) è affidata a corni e arpe (le quali accompagneranno la melodia sin quasi alla fine) con dolce tappeto dei legni. A 37” inizia la sezione A con il tema principale, in DO maggiore, tema che si sviluppa con leggere variazioni e con una breve piccola accelerazione, per poi rallentare fino a sfociare (2’08”) modulando a MI maggiore, nel Lento della sezione B. Qui il tema è ancora sottilmente variato, con lunghezze dimezzate che compensano la maggior lentezza del tempo. Il quale (3’35”) comincia ad accelerare impercettibilmente, poi (5’10”) più marcatamente, in corrispondenza del ritorno a DO maggiore (la ripresa di A) per sfociare (5’47”) in un Andante con moto; dove il tema principale viene ribadito con più enfasi e a piena orchestra. Il tempo ora torna a degradare fino al Lento (6’49”) dove il tema è ripreso in forma variata e quindi (7’36”) ancora a piena orchestra nella sua forma originale. Ecco quindi (8’16”, Poco ritenuto) il già citato intervento del corno inglese, che conduce alla Coda (8’48”, Ritardando). Essa è costituita da una sequenza di nove accordi che sintetizzano mirabilmente il viaggio di Orfeo agli Inferi e ritorno: dal DO maggiore si muovono a LA maggiore, SOL minore, MIb maggiore e FA# maggiore (eccoci negli abissi, il più lontano possibile - nel circolo delle quinte - dal DO della luce) per tornare al DO maggiore conclusivo. Sono archi e legni a suonarli, cui si aggiungono gli ottoni e i timpani nelle ultime 6 battute, mentre significativamente le arpe tacciono, quasi ad osservare stupefatte Orfeo che... sale alle sfere celesti.
___ 
Pregevole davvero l’esecuzione, che il non oceanico pubblico gratifica di convinti applausi. 
___
E per finire, un... bigino di Tristan-und-Isolde, uno di quelli predisposti dal grande Leopold Stokowski. Che ha il solo difetto di concentrare troppo il piatto da gustare. Come se di un panettone si tenessero buoni soltanto i canditi, la copertura al cioccolato e la guarnizione di crema... roba da indigestione! 

Il brano, che dura circa 35 dei 230 minuti dell’intera opera, è un assemblaggio di tre sue parti sostanziose (Preludio, duetto atto II e Liebestod) e di alcuni frammenti che fanno da riempitivo. Precisamente così (minutaggi dalla registrazione sopra segnalata): 

minutaggio
contenuto
riferimenti
     10” - 10’10”
Preludio (completo)

10’11” - 11’40”
Atto I: finale Scena IV
da I: Für tiefstes Weh a K: Herr Tristan
11’41” - 13’06”
           inizio Scena V
Entrata di Tristan da Isolde
13’07” - 13’31”
battute aggiunte

13’32” - 14’16”
Atto II: inizio Scena I
Corni da caccia in lontananza
14’17” - 24’25”
            Scena II (T-I)
da 16 battute prima di T: O sink’ hernieder
a T: Laß den Tag dem Tode weichen
24’26” - 25’51”
Atto III: scena I
da T: Sie lächelt mir Trost
a T: Wie schön bist du
25’52” - 26’05”
battute aggiunte
modulazione MI - LAb
26’06” - 29’38”
Atto II: Scena II (T-I)
da T: Starben wir, um ungetrennt
a T: Muß ich wachen
29’39” - 32’26”
            Scena II (T-I)
da I-T: O ew’ge nacht a I: Ohne scheiden
32’27”
Atto III: Liebestod
da I: Höre ich nur diese Weise

La scelta degli ingredienti si può discutere, e lo stesso Stokowski (oltre ad occuparsi anche di Ring e Parsifal) predispose più di un’ulteriore variante di queste Symphonic Syntheses, operazione che del resto era proprio stato Wagner ad inaugurare con la sua accoppiata da concerto Vorspiel-Liebestod.

Axelrod, che non nasconde la sua infatuazione per quest’opera, ci mette tutto se stesso per rendercela apprezzabile, e devo dire che i suoi sforzi sortiscono un discreto effetto. Certo, per chi ha una minima conoscenza del Tristan, la sensazione di ascoltare qualcosa di innaturale e irrisolto è fatalmente presente, ma si spera almeno che qualche neofita si aggiunga alla lunga lista degli innamorati! 

Per il momento registriamo con piacere come l’Orchestra abbia saputo rendere in modo davvero apprezzabile queste atmosfere cariche di Sehnsucht (termine intraducibile, che incorpora concetti quali: anelito, struggimento... magone) che Wagner ha saputo mirabilmente evocare con la sua musica. Alla fine interminabili applausi per tutti, inclusi quelli dei ragazzi al Direttore.  

19 settembre, 2019

MITO-2019 - Chiusura milanese di Axelrod al Dal Verme


Ultima tappa del mio MITO-parcour milanese (con omaggio di T-shirt gentilmente offerto da uno sponsor) con John Axelrod che in un DalVerme gremito ha diretto la OSN-RAI in un programma classico-moderno, dove un lavoro di un maturo cinese contemporaneo (in prima italiana) si è inserito fra due opere del primo novecento.

Si è quindi aperto con Debussy e la sua Isle joyeuse, composta originariamente nel 1904 per pianoforte e successivamente (1917) orchestrata (col beneplacito dell’Autore) da Bernardino Molinari. Rispetto alla versione per la sola tastiera, quella orchestrata da Molinari presenta per ovvie ragioni sonorità più ricche e complesse (e un finale tardo-romantico); in compenso appare meno asciutta e impressionista. Tuttavia ad un ascolto superficiale si potrebbe tranquillamente credere trattarsi della scrittura orchestrale dello stesso Debussy.

Sono poco più di sei minuti che scorrono piacevolmente, come del resto suggeriscono il titolo dell’opera e l’ispirazione che Debussy ebbe dal quadro di Watteau, oltre a risvolti vagamente autobiografici (l’estate passata al mare con l’amante che diventerà la sua seconda moglie). Servono bene a scaldare i motori dell’Orchestra e... le mani del pubblico.
___
Il 68enne cinese Qigang Chen (di lui si ascoltò in Auditorium anni fa un pezzo per violoncello e orchestra) è l’autore di Joye eternelle, un concerto per tromba e orchestra, ispirato ad un’antica melodia cinese, esposta all’avvio dal clarinetto:

Concerto composto per la famosa trombettista Alison Balsom e dedicato al maestro YU Long: dopo la prima in Cina, nel 2014, il lavoro venne eseguito a Londra (PROMS) nel luglio dello stesso anno, con gli stessi interpreti (Balsom e YU).

Qui ad interpretarlo per l’esordio italiano è stata un’altra rappresentante del gentil sesso, la 32enne norvegese Tine Thing Helseth, che - presentatasi a piedi nudi! - ha messo in mostra le sue eccezionali doti tecniche superando brillantemente le difficoltà di cui è popolato questo brano, rilevabili dall’esempio qui sotto:



Il finale è davvero pirotecnico e la simpatica Tine si merita ovazioni ripetute, che ricambia con un bis assai più... tranquillo.
___
Chiusura con Mahler e la sua Quarta sinfonia. L’Orchestra la conosce evidentemente come le sue tasche e Axelrod, che con i nazionali-RAI ha un’antica consuetudine, va proprio sul velluto. Lui ci mette ovviamente del suo e devo dire con grande profitto, quanto a tempi e dinamiche sciorinati nei diversi scenari che la sinfonia propone.

Francamente mi sarei aspettato di più dalla Rachel Harnisch, che ha esposto con discreto portamento il Lied conclusivo, ma la voce è scarsina di decibel, specialmente nelle note gravi, davvero poco udibili. Ma il pubblico ha mostrato di apprezzare, richiamando ripetutamente al proscenio lei e il Direttore.

Per quanto posso giudicare dalla mia (scarsa) frequentazione di questo MITO, mi pare che abbia dato parecchie soddisfazioni al suo Direttore artistico, il valente Nicola Campogrande. Arrivederci (e risentirci) quindi al 2020!

06 aprile, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°24


In sostituzione del programmato Oleg Caetani, il concerto di questa settimana è diretto dal redivivo John Axelrod. In locandina opere (relativamente) minori e di non frequentissima esecuzione, di Brahms e Shostakovich.

Due opere abbastanza (ma solo apparentemente) leggere, e non certo disimpegnate: per il 24enne Brahms si trattò - insieme con il coevo Concerto per pianoforte - del primo approccio con la grande orchestra e quindi con un mondo assai vicino a quello della sinfonia, cui approderà da ultra-quarantenne; per Shostakovich, di un delicato passaggio della sua vicenda artistica ed esistenziale, sempre in bilico fra altari e polvere.

Si apre quindi con la Serenata op.11 del 1857, arrivata alla piena orchestra dopo essere nata come musica da camera. È un Brahms ancora romantico, per quanto il suo romanticismo sia quasi esposto con pudore, senza slanci velleitari o languide sdolcinature: e già fa intravedere il futuro, fatto di rigore e razionalità, di musica che si alimenta soltanto di se stessa (non per nulla Brahms diventerà quasi un modello assoluto per l’esteta Eduard Hanslick...)

Sono tre quarti d’ora di musica gradevole, orecchiabile, che infonde sentimenti di pace e tranquillità, senza allo stesso tempo annoiare o... addormentare. L’Orchestra la affronta per la terza volta nella sua ormai lunga storia, e di certo questo Brahms giovanile dev’essere un ottimo trampolino di lancio per la prossima, più impegnativa avventura delle quattro sinfonie, che Robert Trevino dirigerà qui prossimamente in due serate che si prospettano del massimo interesse.

Auditorium piacevolmente affollato e pubblico assai caloroso nell’accoglienza a questo brano che meriterebbe più presenza nei palinsesti concertistici.
___
Ed eccoci alla Sesta di Shostakovich, del 1939. Sinfonia dalle caratteristiche così eterodosse da lasciare tuttora perplessi i musicologi sulla sua intima natura e sul suo (criptico?) programma interno. Sinfonia acefala, si dice, comportando un ipertrofico Largo seguito da due brevi movimenti veloci, ergo mancante di un classico Allegro di apertura. O viceversa, secondo il modello dell’ultimo Mahler (del quale il Largo evoca l’Adagio-Andante della Decima) mancando di un nuovo Adagio finale, a chiudere il discorso.

Sinfonia che viene dopo la trionfale e trionfante Quinta (1937) un autentico autodafè del musicista, costrettovi per difendersi dalle accuse (1936) di tradimento degli ideali sovietici (con la sua Lady del 1934) e per evitare di finire all’altro mondo sotto i colpi di Zdanov&C.

Ma la Quinta, per quanto insincera (stando alle ammissioni fatte in privato dallo stesso compositore) è una grande sinfonia proprio sul piano della forma e dei contenuti, tutt’al più accusabile di anacronismo. Invece questa Sesta lascia interdetti sia per la forma che per i contenuti. Chi ne ha dato una spiegazione accattivante (più o meno condivisibile) è il grande Lenny Bernstein, che senza mezzi termini ne individuò come caratteristica fondamentale l’ipocrisia. Ipocrisia impiegata dall’Artista per sbugiardarne un’altra ben più grave e colpevole: quella di un regime dispotico e sanguinario che in nome del comunismo aveva appena stretto un patto scellerato con Hitler!

Sul fronte musicale, sempre secondo Bernstein, esiste un legame - nemmeno troppo criptico - fra il Largo della Sesta di Shostakovich e l’Adagio lamentoso che chiude un’altra e più famosa Sesta, la Patetica ciajkovskiana, entrambi incardinati nel cupo SI minore: si tratterebbe nei due casi di una dolorosa presa d’atto di condizioni di vita difficili, per non dire intollerabili. Ma a differenza di Ciajkovski, dove si distinguono e si alternano due temi, il primo lugubre e il secondo più elegiaco, che poi sfuma lentamente nelle tenebre, in Shostakovich abbiamo un continuo susseguirsi di spettrali melopee degli archi, interrotte sporadicamente, ora dall’ottavino nel registro acutissimo, ora dai clarinetti o dalle trombe con brevi segnali, ora dai due flauti soli e da un recitativo del clarinetto basso; tutto in un’atmosfera che evoca rassegnazione e totale assenza di prospettive.

Poi ecco che, come nulla fosse, si passa schizofrenicamente dal buio pesto dello sconforto ad una irresponsabile orgia sonora, uno Scherzo continuo (cioè senza Trio) che sembra evocare fallaci entusiasmi. E il Rondò finale rincara la dose, immergendoci in una specie di happening da discoteca, una vera ubriacatura di danze e ritmi, qualcosa che pare voler stordire l’ascoltatore, iniettandogli una droga che gli faccia dimenticare... ?             

E allora ascoltiamo la lettura che ne diede proprio Bernstein con i Wiener nel 1987. Per confronto ecco come l’interpretò nel 1965 Yevgeny Mravinski (grande amico del compositore, colui che aveva diretto la prima del ’39). E infine come l’ha interpretata di recente (2016) Paavo Järvi. La tabellina che segue riporta sinteticamente i tempi delle tre esecuzioni citate, insieme ad una teorica durata delle tre parti della sinfonia, dedotta dalle indicazioni metronomiche dell’Autore presenti in partitura: 

Shostakovich
movimento
Bernstein
Mravinsky
Järvi
17’ 10”
Largo
21’ 45”
15’ 00”
18’ 30”
7’ 40”
Allegro
8’ 00”
5’ 30”
6’ 05”
6’ 00”
Presto
7’ 30”
6’ 20”
6’ 30”
30’ 50”
sinfonia
37’ 15”
26’ 50”
31’ 05”
-
scostamento
+20,8%
-13,0%
+1,0%

Rispetto alle teoriche volontà dell’Autore: macroscopica la differenza di tempi (soprattutto nel Largo) di Bernstein; velocissimo (a parte il finale) Mravinsky e complessivamente in tempo Järvi. Qui in Auditorium a dirigere la Sinfonia è, guarda caso, un allievo del grande Lenny: Axelrod però ha (curiosamente) imitato il maestro nei due movimenti veloci (8’ e 7’) mentre è stato più rapido in quello lento (18’) totalizzando comunque 33’, quindi un approccio fra i più... tranquilli. (Chissà se invece Caetani avrebbe seguito le orme di Mravinsky... i ragazzi dell’Orchestra potrebbero saperne qualcosa, visto che con lui hanno inciso l’intero corpus sinfonico di Shostakovich.)

Va da sè che questi freddi numeri costituiscono poco più che curiosità, e non possono certo essere utilizzati per emettere condanne o innalzare monumenti. Rappresentando oltretutto solo uno (e magari non il più importante) elemento di valutazione di un’interpretazione, che va giudicata anche secondo le mille sfumature agogico/dinamiche che la caratterizzano: come sempre, sarà il gusto di ciascuno a decidere quale lettura privilegiare.  

E il folto pubblico di ieri sera pare proprio aver gradito, riservando a tutti un’accoglienza quasi trionfale, con ripetute chiamate e applausi, anche ritmati, per il Direttore.