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19 maggio, 2023

laVerdi 22-23. 30

È Tito Ceccherini a fare ritorno sul podio dell’Auditorium per il terzultimo concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, co-prodotto con Milano Musica 2023.

E proprio in omaggio ai principi fondativi della rassegna creata in origine da Luciana Pestalozza (sorella di Claudio Abbado) il primo brano in programma è la prima esecuzione della nuova edizione critica di una partitura di Bruno Maderna: Ausstrahlung per voce femminile, flauto e oboe obbligati, grande orchestra e nastro magnetico, su testi sacri e poetici persiani e indiani. I protagonisti sono Monica Bacelli, in veste di recitante poliglotta, oltre che di cantante, e poi Luca Stocco agli oboi (anche musette, corno inglese e oboe d’amore) e Nicolò Manachino ai flauti (anche contralto e basso). Completa il cast l’addetto ai nastri magnetici e alla regìa del suono, Massimo Colombo.

Originariamente composto nel 1971 ed eseguito per la prima volta a Persepoli (per il 2500° anniversario della morte di Ciro il Grande) il lavoro (qui l’unica registrazione oggi disponibile in rete) rimase in uno stato di relativa incompiutezza, poiché la morte prematura impedì all’Autore di apportarvi le ultime finiture: da qui l’importanza della nuova edizione critica, curata per Casa Ricordi da due studiosi: Angela Ida De Benedictis (Responsabile scientifico della Fondazione Sacher, dove sono custoditi tutti i manoscritti di Maderna) e Marco Mazzolini (General Manager di Casa Ricordi) intervenuti prima del concerto di ieri – insieme al Direttore Ceccherini - per presentare questa loro edizione.

Al proposito, un interessante articolo della curatrice De Benedictis ci aiuta a comprendere le particolari caratteristiche di quest’opera, che rappresenta una vera e propria summa di tutti i procedimenti compositivi che erano maturati dagli anni di Darmstadt in poi: ci troviamo porzioni in notazione classica e determinata, altre lasciate all’aleatorietà, altre costituite da minuscoli frammenti che gli interpreti (Direttore e solisti) possono organizzare secondo la loro sensibilità… La presenza dei nastri magnetici (4 Tapes) preregistrati, depositati presso l’Editore che li rende disponibili per le esecuzioni, evidentemente condiziona un poco le esecuzioni medesime, quanto meno dal punto di vista dei tempi, dato che quando i nastri sono in azione (un totale di 14’23” esatti su circa 32’ totali di esecuzione) sono gli interpreti a dover sincronizzarsi con i nastri, essendo piuttosto difficile (salvo stop-start del regista del suono) che siano i nastri a seguire l’esecuzione dal vivo…

Il brano si articola in sette componenti, che incarnano altrettante irradiazioni (Ausstrahlungen) di suoni degli strumenti (solisti e orchestra); in soli due casi (2 e 5) è presente anche la voce solista. Non esiste peraltro una loro sequenza predeterminata, essi possono scomporsi, intersecarsi ed essere disposti secondo un libero approccio esecutivo. Lo stesso Autore ha proposto alcuni Piani esecutivi (che propongono la sequenza di interventi di orchestra, solisti, voce e nastro registrato) uno dei quali fu impiegato per la prima di Persepoli.

In Appendice ho posto una succinta guida all’ascolto dell’opera seguendo la citata registrazione (i testi sono riportati dal citato articolo della curatrice) che riprende nella sostanza la struttura della prima esecuzione di Persepoli diretta dall’Autore.

La proposta di Ceccherini non si discosta macroscopicamente dall’impostazione originaria (il piano esecutivo) di Maderna. Difficile dire invece, di primo acchito, quali e quante libertà, fra quelle comunque previste dall’Autore, Il Direttore e gli interpreti si siano prese. Personalmente ho notato un certo squilibrio nelle dinamiche fra i due solisti, l’orchestra e la voce della Bacelli, che arrivava benissimo nelle parti cantate (e ci mancherebbe) mentre in quelle declamate e soprattutto recitate era spesso travolta dai suoni, pur essendo dotata di amplificazione. Ma credo che la cosa sia perdonabile in una circostanza come questa.

In ogni caso il pubblico, diciamo… selezionato, ha tributato lunghi applausi a tutti.  
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Così come accaduto nello scorso concerto, anche in questo, dopo un'opera moderna, è Richard Strauss a chiudere con il Tondichtung più cerebrale (essendoci di mezzo un tale Nietzschedi tutta la sua produzione: Also sprach Zarathustra.

Sulle mille implicazioni filosofiche che si annidano nella partitura mi sono dilungato tempo addietro e quindi rimando i perditempo a questo scritto. Certo è che solo una conoscenza dettagliata dei temi musicali e delle loro intricatissime relazioni e ricorrenze può farci apprezzare fino in fondo quest’opera davvero geniale.

Viceversa, un ascolto puramente passivo rischia di farcela apparire come bizzarra, frammentaria, cacofonica, con alcuni passaggi entusiasmanti e altri persino noiosi… Ma diamo atto a Ceccherini (un approccio che definirei a tratti quasi espressionista) e ai ragazzi di aver dato il massimo, come il pubblico ha riconosciuto alla fine, con lunghi apprezzamenti per il Direttore e per tutte le prime parti e intere sezioni dell’orchestra.

Insomma, una serata da ricordare. E questa sera… il secondo sbarco dei Mille mahleriani alla Scala!
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Appendice. Ausstrahlung.

L’apertura è affidata al flauto che espone la sua melodia, finchè (21”) la voce solista declama un testo tradotto in inglese da Kavyadarsa del poeta indiano Dandin:

All these three worlds
would have been a dense darkness,
if the light,
called world,
had not shone
from the beginning of the world.

Cominciano ad udirsi sommesse voci in persiano, registrate su nastro (Tape-1). Poi l’orchestra e flauto e oboe musette in primo piano chiudono questa introduzione.

A 3’53” ecco un’esplosione dopo la quale è la voce solista che – intercalata e accompagnata dall’orchestra - recita un lungo testo (tradotto in francese) da Bhagavad Gita di Dandin, tutto imperniato sul tema della guerra e dell’immortalità dell’anima:

Sur le champ les hommes se sont assemblés,
brûlant de combattre.
Debout sur leur grand char de guerre,
attelé à des coursiers blancs,
les puissants archers sont des héros,
prêts à donner leur vie,
tous maîtres dans l’art du combat.
(orchestra)
Aussitôt résonnèrent les conques et les tambours,
les cors et les trompettes
et ce fut un tumulte immense,
qui retentit comme [le] rugissement du lion.
(orchestra)
Profondément ému par la pitié
et plein du douleur, Arjuna dit:
«En voyant dans les rangs mes parents
brûlant de combattre,
mes jambes fléchissent,
et ma bouche se dessèche;
je n’ai pas la force de me tenir debout,
et ma raison se trouble.
Je ne voudrais pas le tuer, même si cela
devait me rendre souverain des trois mondes.
(orchestra)
Les précepteurs, les pères, les fils
et les grand-pères, les oncles, les beaux-pères,
les gendres et tous les parents…..
Si, les armes à la main,
ils allaient me tuer dans la bataille,
moi, je ne veux pas résister».
Ayant ainsi parlé sur le champ de la bataille, Arjuna,
le coeur percé de douleur,
retomba sur le siège de son char
et jeta loin de soi l’arc et la flèche.
(orchestra)
Alors le Seigneur dit:
«D’ou te vient, Arjuna, en cette heure de danger
ce honteux découragement
indigne d’un Aryen?
Celui qui croit qu’il peut tuer et
celui qui croit qu’il peut être tué,
tout les deux sont ignorants.
Il ne peut ni tuer, ni être tué.
Il ne naît, ni ne meurt.
(orchestra)
Ayant été, il ne peut plus cesser d’être.
Non-né, permanent, éternel, ancien,
il n’est pas détruit
quand le corps est tué.
Les armes ne peuvent le percer,
ni le feu le brûler,
ni les eaux le mouiller,
ni le vent le sécher!
(orchestra)
Celui qui habite le corps
est toujours invulnérable.
Tu ne dois donc t’affliger pour aucune [des] créatures.
Tu ne dois pas trembler, Arjuna:
en vérité, pour un Aryen il n’y a rien
de plus désirable qu’un juste combat».

A 9’00” ecco un nuovo passaggio declamato e cantato in inglese, traduzione di due strofe dell’indiano Atharva Veda:

Power art thou, give me power!
Might art thou, give me might!
Strenght art thou, give me strenght!
Life art thou, give me life!
Eyes art thou, give me eyes!
Ears art thou, give me hearing!
Shield art thou, shield me well!
 
May I have voice in my mouth,
breath in my nostrils.
Sight in my eyes, Hearing in my ears,
hair always shining young
and much strength in my arms!

A 10’31” viene recitato un passaggio del persiano Umar Khayyām, tradotto in italiano:

O cuore, fingi d’avere tutte le cose del mondo,
fingi che tutto ti sia giardino delizioso di verde.
E tu, anima mia, su quell’erba verde
fingi d’esser rugiada gocciata là nella notte
e al sorgere dell’alba, svanita…

A 11’07” torna la lingua inglese, con la declamazione di un nuovo passaggio dell’Atharva Veda:

May I have power in my thighs,
swiftness in my legs,
may all my limbs be uninjured
and my soul unimpaired!

A 11’42” uno schianto orchestrale introduce una nuova, agitata strofa dal Rig Veda:

Let’s walk together, speak together;
may the purpose be common,
common the assembly, common the mind;
So be our thoughts united.
May our decision be unanimous.

A 12’11” è lo xilofono ad introdurre una sequenza di versi (tradotti in inglese e italiano e recitati, declamati, cantati) di KhayyāmMuslih Sa’di, dell’Atharva Veda e di Nezâmî Aruzî. Voci maschili e femminili arrivano dal nastro (Tape-2):

May we see a hundred years!

 
Sulla mia tomba ad ogni primavera
il vento del nord farà piovere fiori…
 
Son tutti verdi i rami!
 
May we know a hundred years!
 
I peri e gli albicocchi
avevan ricoperto la tomba di fiori…
 
May we assert our existence a hundred years!
 
È fiorito il giardino…
 
Yea, even more than a hundred years!

A 13’50” ancora un declamato (in inglese) da Kavyadarsa, con interventi di voci maschili (prima strofa) e femminili (seconda) registrate (Tape-2):

Glances to the side,
lovely by nature,
announce intense love,
when thrown by loving maidens,
as messengers to
attract lovers.

The mango-tree’s bud
fills my heart with strong
desire for my lover,
as does the cry of the cuckoos
drunken with love.

A 14’29” ancora versi del persiano Abd Rudaghi, cantati in italiano:

Il monte, un altro monte d’argento,
d’oro è il prato
l’acqua ora è lucente
e tenebrosa s’è fatta l’aria.
Tace la colomba,
vuoto è il verziere.
Muto è l’usignolo:
spoglio è il giardino.
Un vento freddo
come sospiro d’amanti all’alba.

A 18’50” si odono voci registrate (in persiano, Tape-3) e poi la voce solista declama (in inglese, da Kavyadarsa):

They say that the spring
must not cause the lovely
moment of your eyes
and the illusion that they
might be two bess…

A 19’29” si ode (sempre Tape-3) la voce registrata (è quella della moglie di Maderna, Cristina) recitare, da sinistra, due versi dall’Avesta:

Wie geschiet uns
so wunderbar

mentre da destra una voce di bambino (il figlio Andrea) risponde (19’52”):

…so wunderbar
…so wunderbar
(orchestra e voci registrate)
…so wunderbar

Mentre l’orchestra prosegue per quello che diverrà un lungo intermezzo, i richiami del bambino si perdono in lontananza, poi tornano in primo piano; lo stesso accade alle altre voci registrate.

L’intermezzo orchestrale si chiude a 26’54”, quando si torna ad udire la voce registrata di Cristina (Tape-4) che da destra recita – con interventi da sinistra di Andrea con il suo …so wunderbar - i seguenti versi dell’Avesta:

Ich frage Dich mein Gott
gib Du mir Antwort und Verstehen:
Wie kommt es, daß aller Wahrheit eigen
diese zeugende Kraft,
daß die Sonne dort steht
und die Sterne der Nacht,
entsprungenes Licht,
doch gehalten und wandelnd
in stiller Bahn?
Und der Mond in der Kammer
der Schlummernden  ruhe?
Eine Hand legt sich [um uns].
Nun weicht sie  zurück
und sein Licht quillt uns zu.
Wie geschieht uns so wunderbar.
Ich frage Dich mein Gott,
wie ruht uns die Erde
so staunend sicher?
Und darüber die Wolken
gehoben, gehalten,
unsichtbar getragen
und schwebend – worin?
Und es perlen und blinken die Wasser
und Blumen erblühen.
Die Rosse des Windes
durchbrausen die Bahn
und der Wagen der Wolken
rollt in den Lüften
und wir dürfen das sehen:
Unser Geist hat die Augen.
Wie geschiet uns
so wunderbar…

Da 30’41” la voce del mezzosoprano vocalizza all’unisono con oboe e flauto fino a perdersi.

17 agosto, 2022

ROF-43 live: Le Comte Ory

Terza recita, ieri sera alla Vitrifrigo Arena, de Le Comte Ory, nella nuova produzione targata DeAna-Matheuz. Qui l'audio della precedente realizzazione del 2009. Qui invece l’audio della prima del 9 scorso.

Vitrifrigo Arena non propriamente esaurita, ma abbastanza densamente popolata da un pubblico ben… caricato.

Che cosa sia, in termini di genere, quest’opera è cosa a prima vista inafferrabile, tanto che musicologi e critici si sono spesso divisi su come battezzarla. Due eccellenti saggi (a firma di Emanuele Senici e Mark Everist) comparsi sul programma di sala del ROF ci aiutano a districarci in questa specie di labirinto.

Intanto: l’Ory, pur essendo stato espressamente commissionato e messo in scena dall’Académie Royale (aka l’Opéra) manca dei principali requisiti imprescindibilmente prescritti dal capitolato tecnico del Teatro in fatto di GrandOpéra: è in soli 2 atti (anziché 4 o 5); non prevede alcun balletto; ed infine ha un soggetto lontano le mille miglia da quello (a sfondo storico-epico) tipico di questo genere e più vicino caso mai (per struttura e contenuti) all’Italiana o al Barbiere o al Turco...

E allora come si spiega l’arcano? Col fatto che a Parigi stava prendendo piede, accanto al GrandOpéra, anche il PetitOpéra! Magari ottenuto per spacchettamento (via i balletti) di opere esistenti o, come nel caso dell’Ory, per riproposizione di musiche composte per altre opere (qui Il Viaggio a Reims) per supportare nuovi soggetti, facendone quindi la parodia. Opere quindi relativamente brevi che venivano poi rappresentate in abbinamento a balletti totalmente indipendenti nel contenuto: tutte le recite dell’Ory del 1828 (la prima e 9 repliche) furono immancabilmente appaiate a (6 diversi!) balletti.

Quanto al concetto di parodia, esso era inteso nel duplice significato di rivisitazione del contenuto musicale e di sdrammatizzazione o dissacrazione del soggetto. E l’Ory altro non è che una grandiosa parodia: travestimenti (Ory per primo, poi tutti i suoi compari); scambi di persona e qui-pro-quo (il terzetto finale) che sono elementi tipici della farsa; banalizzazione e ridicolizzazione di situazioni drammatiche (l’esplorazione dei sotterranei del castello da parte di Raimbaud, che ha contorni spaventevoli ma porta alla scoperta di una catasta di fiaschi e bottiglie di vino); comportamenti totalmente difformi dalle esternazioni dei personaggi (primo fra tutti, la Comtesse, ma anche il Gouverneur e Ragonde…)

Bene, a che scopo tutto ‘sto po’po’ di tormentone? Per definire non meno che geniale l’impostazione registica del mitico Hugo De Ana!

Che ha colto in pieno l’intima essenza e lo spirito dell’opera, restituendocela in tutto il suo irresistibile fascino. Si è ispirato per le scene (e in parte i costumi) al celebre trittico di Hieronymus Bosch del Giardino delle delizie, del quale compare subito in formato gigantesco il pannello di sinistra mentre la scena è occupata più spesso da elementi della parte mediana del pannello di destra (l’Inferno musicale, non a caso) ma anche di quello centrale.

Il trittico è una rappresentazione, dei concetti di ogni religione che si rispetti, oltre che della musica secolare e profana. Non è fuori luogo considerarlo una (involontaria?) parodia delle vicende umane e calza quindi come un guanto sul soggetto dell’Ory.

Il Conte, travestito da eremita, mostra in testa un paio di cornetti da diavolo; al momento del riconoscimento, scoprirà il suo vero abbigliamento da satana tentatore; poi catechizzerà Isolier munito delle due tavole mosaiche della legge, con i 10 comandamenti che si illuminano a comando.

La Comtesse esprime concetti quali fedeltà, rigore morale, austerità, sobrietà… nel mentre si comporta come una donna in cerca di… manico, con atteggiamenti ed abbigliamenti allusivi e provocanti (persino un accenno di pole-dance per Ory). Non parliamo della Ragonde, custode del castello e delle sue virtù, che invece organizza pellegrinaggi dal falso eremita per le mogli e fidanzate dei crociati lontani, in cerca di piaceri secolari.

Il Gouverneur si presenta come severo tutore del Conte, facendo fallire il suo primo approccio verso la Contessa; ma poi lo scopriamo in mezzo alla banda dei gaudenti amici di Ory nell’assalto alle donne del castello.

Il primo atto si svolge in un’atmosfera esilarante, occupato da masse femminili in costumi dai colori sgargianti, che si muovono (vedi la polonaise) in un giardino di delizie fatto di ortaggi e altre cibarie, messe in carrelli del vicino Spazio Conad…  

Il secondo atto si distingue per le scene dei bagordi di Ory&soci, interrotte dall’arrivo di Ragonde, che provoca la sparizione istantanea di bottiglie e fiaschi e la comparsa di luminose aureole sul capo delle finte monache.

Che dire del famoso trio? Lo vediamo in piena luce me le mosse dei tre protagonisti sono proprio quelle che si possono facilmente immaginare data la situazione di totale oscurità prevista dal libretto: con il povero Ory che è preso in mezzo da due donne (sì, perché anche Isolier lo è nella realtà anagrafica…) il che rappresenta il culmine della parodia!   

Insomma, tutta la messinscena merita una lode incondizionata, per il gusto e il garbo che mai scadono a volgarità (ricordo con ribrezzo una produzione di Pelly passata anche in Scala anni orsono) e sono certo che gli applausi del pubblico siano andati virtualmente anche al regista, pur assente alle chiamate finali.
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Anche sul fronte sonoro-canoro, buone se non ottime notizie. A cominciare da Matheuz, che alla radio mi era parso un tantino pesantuccio e che invece ieri ha ottenuto dai professori della OSN-RAI un risultato di tutto rispetto, per varietà di sfumature e adarenza allo spirito scanzonato della partitura. Il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina ha da parte sua movimentato le brillanti scene d’insieme che costellano la partitura con apprezzabile qualità.

JDF è prevedibilmente stato il mattatore della serata: la voce cambia (non necessariamente in peggio) con gli anni e… il repertorio, ma insomma il nuovo Direttore artistico del ROF ha dimostrato di aver ancora molto, moltissimo da dire cantare anche in futuro!

Accanto a lui Julie Fuchs ha confermato in pieno (ed anzi in meglio) ciò che di buono aveva sciorinato alla prima: a teatro si sono potute ammirare ed apprezzare anche le sue innegabili doti di attrice, perfetta nella parodistica interpretazione della donna pia che nasconde un’eccezionale carica sensuale.  

Monica Bacelli poco meno che perfetta in Ragonde, e non solo per la presenza scenica, ma anche per la voce, che evidentemente non conosce età…

La travestita (come Isolier) Maria Kataeva ha ricevuto meritati consensi del pubblico, che l’hanno ripagata di una prestazione davvero all’altezza, un perfetto connubio di vocalità e presenza scenica. Anna-Doris Capitelli ha dato il suo piccolo ma importante contributo al successo dello spettacolo.  

Resta da dire dei due bassi della compagnia. Entrambi da elogiare, il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, convincente in particolare nella sua esternazione del second’atto; e Nahuel Di Pierro, un Gouverneur che ieri mi è parso più a punto rispetto alla prima udita in radio.
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Concludo ribadendo il giudizio complessivamente positivo sulla serata, 10 e lode a De Ana e voti comunque alti a tutti gli altri protagonisti.

14 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°16


Ben due Requiem nel programma del concerto di questa settimana, diretto dal brillante 34enne Maxime Pascal.

Dapprima il K626 del Teofilo, di cui viene eseguita più o meno la prima metà, cioè fino alla Sequenza. È noto come quest’opera, l’ultima fatica di Mozart prima della prematura scomparsa, sia rimasta non solo incompleta, ma anche assai bistrattata da coloro - la moglie Constanze in primis - che per ragioni poco artistiche, ma assai prosaiche, decisero a tutti i costi di completarla in qualche modo per poi contrabbandarla come farina del sacco del de-cuius, onde incassare i proventi della commissione dal Conte Franz Von Walsegg.

Solo nella seconda metà del ‘900 i musicologi sono riusciti, e nemmeno in modo definitivo, a districarsi nel ginepraio di documenti, testimonianze e leggende metropolitane cresciute attorno all’opera. Oggi possiamo almeno contare su qualche solida base di conoscenza, grazie all’impegno profuso da ormai 140 anni dalla Fondazione del Mozarteum. Che negli ultimi tempi ha meritoriamente messo una gran mole di informazioni e documenti a disposizione del pubblico attraverso il sito DME (Digitale Mozart Edition) e in particolare ha reso universalmente fruibili tutte le partiture (in edizione critica) del Teofilo.

Lo schema sottostante - derivato dai documenti della DME - sintetizza al massimo grado lo stato dell’arte delle conoscenze che possediamo sui contenuti musicali del Requiem:


Come si vede, di Mozart si sono ritrovati i fogli manoscritti (purtroppo inquinati da mani diverse, forse Eybler) delle prime quattro parti, mentre nulla è stato ritrovato delle quattro restanti. Inoltre del Lacrimosa esistono solo le prime 8 misure (fino a Homo reus). A ciò vanno aggiunti due schizzi isolati: 4 battute del Rex tremendae e 16 battute di un Amen fugato, presumibilmente a chiudere la Sequenz. Il suo allievo Joseph Eybler si era per primo cimentato nell’impresa di completare il lavoro, ma aveva abbandonato il tentativo dopo aver strumentato la Sequenz, salvo il Lacrimosa, cui si limitò ad aggiungere due battute. Constanze allora appaltò il completamento ad un altro allievo del marito, Franz Xäver Süssmayr, che aveva avuto modo di intrattenersi sul Requiem con lo stesso Mozart. Costui mise a punto una versione completa dell’opera, impiegando, rielaborando e completando quanto già composto o almeno abbozzato da Mozart (incluse le aggiunte di Eybler) e soprattutto componendo di suo pugno il resto, dal Lacrimosa (battute successive alla 8) e poi dal Sanctus in avanti (per la verità il Communio riprende ampi passi mozartiani di Introitus e Kyrie). È la sua versione quella che da sempre ha portato il Requiem alle orecchie del pubblico.

Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le attività di studio e ricerca, che hanno portato alla predisposizione di nuove versioni dell’opera, fra le quali sono da ricordare quella di Clemens Kemme (2009) e la più recente (2013) di Benjamin Gunnar Cohrs.  
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Nel concerto di questi giorni in Auditorium viene invece eseguita, insieme all’Introitus e al Kyrie, la Sequenz di Eybler, che si chiude sul torso di 8 battute del Lacrimosa, cui l’allievo, come detto, aggiunse timidamente solo 2 battute del soprano, per poi rinunciare a proseguire.

È opinione abbastanza diffusa fra i musicologi che questa versione di Eybler sia esteticamente superiore a quella di Süssmayr. Come esempio pratico si confronti l’inizio del Dies Irae: di seguito sono riportate le prime 9 misure come lasciate da Mozart e le corrispondenti completate da Eybler e Süssmayr:


Mozart ci lasciò la parte vocale, il basso e un abbozzo della parte degli archi (violini primi); proprio nulla di fiati e timpani.


Eybler completa la parte degli archi (violini II e viole) e aggiunge i fiati (corno di bassetto, fagotto e clarino) e i timpani. Si noti in particolare la leggerezza della strumentazione dei fiati.


Süssmayr sembra accogliere alcune aggiunte di Eybler, ma appesantendole (i fiati hanno ad esempio note più lunghe) ma soprattutto aggiunge (qui e in quasi tutti gli altri numeri) i tre tromboni, che imprimono al brano un’impronta piuttosto greve. Il grande Bruno Walter stigmatizzava questa scelta, eccessiva a suo parere, e non la rispettava. Sebbene i tromboni siano tipici strumenti da chiesa, Mozart ne indica esplicitamente ed appropriatamente la presenza solo nel Tuba mirum (trombone tenore). Per il resto li indica nell’Introitus (dove peraltro sono notati soltanto - colla parte - accanto alle voci di Alto, Tenore e Basso) e gli stessi editori della DME non sono affatto certi che quell’indicazione sia necessariamente da estendere (come fa Süssmayr) al resto della composizione. 

Di grande interesse (per me, almeno) è questa esecuzione basata strettamente sul manoscritto originale (con l’aggiunta in coda dello schizzo dell’Amen): perchè ci porta all’orecchio l’intima essenza dell’opera, il suo cuore profondo, la sua metafisica bellezza. 
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Lo smilzo Pascal dirige senza bacchetta, con ampi gesti delle sue lunghe braccia, e ondeggiando mollemente sulle sue leve da fenicottero. Gli attacchi sono netti, dati tendendo le mani come fendenti indirizzati verso solisti, coro e strumentisti.

E tutti rispondono al meglio: dalle voci ben impostate dei quattro solisti: soprano Minji Kim; alto Solgerd Isalv; tenore Massimo Lombardi e basso Daniele Caputo; a quelle del coro guidato per l’occasione da José Antonio Sainz Alfaro; all’orchestra, doverosamente leggera in quantità (un solo trombone per doppiare le voci nell’Introitus e per le bellissime frasi del Tuba Mirum) e in trasparenza di suono.

Dopo l’ultimo verso dei soprani (Huic ergo parce deus) e anche l’unico ad essere musicato da Eybler, Pascal ottiene un minuto di raccoglimento, prima di abbassare le braccia per meritarsi l’applauso del pubblico.
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Il secondo Requiem è del 2017! Fu eseguito, domenica 2 luglio, al Festival di Spoleto, che lo aveva commissionato a Silvia Colasanti in ricordo del terribile terremoto che un anno prima aveva sconvolto e distrutto l’Italia centrale.

Si tratta propriamente di un Oratorio, dove al Coro si unisce una voce recitante accompagnata da un bandoneon. La voce (che espone un testo italiano) si alterna alle strofe del Requiem latino, cantate dal coro e dal contralto solista.

Più che un Requiem, è la contestazione del Requiem, così come la tradizione chiesastica ce lo ha tramandato: la voce recitante non per nulla è La dubitante! Che sfida il Coro di chi non dubita. Accompagnandosi al bandoneon, il Respiro della terra. E il contralto, che canta dal Quid sum miser al Cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis è il Cuore ridotto in cenere...

Il carattere di laica accettazione della morte, di aspirazione al perdono e al ritorno alla natura eterna (un po’ l’àpeiron degli antichi filosofi greci) è sintetizzato dal sottotitolo dell’opera: Stringeranno nei pugni una cometa, verso del visionario poeta gallese Dylan Thomas, non a caso divenuto famoso per il suo approccio laico e quasi ottimistico al mistero della morte.

In rete si può ascoltare unincisione fatta a Bolzano, e anche qui abbiamo in scena alcuni dei protagonisti della prima esecuzione: il Direttore Pascal, l’autrice dei testi italiani e voce recitante, Mariangela Gualtieri, e il contralto solista, Monica Bacelli. A loro si aggiungono, oltre all’Orchestra, Davide Vendramin al bandoneon e il Coro sinfonico de laVerdi, ancora guidato da José Antonio Sainz Alfaro.  
  
L’opera inizia con un confuso chiacchiericcio, come di qualcuno che recita il Dies Irae in una giornata di pioggia. Poi inizia il canto del Coro di chi non dubita, in un’atmosfera oscillante fra SOL minore e la relativa SIb.

Ora La dubitante, Mariangela Gualtieri, con la sua voce secca e piglio deciso, si rivolge Alle piccole e grandi ombre, accompagnata da suoni dimessi del violoncello (di Tobia Scarpolini) per chiedere per loro non già la pace eterna, ma una vita perenne, qui, in mezzo a noi e alla natura che ci circonda.

Torna il Coro di chi non dubita con il tremendo Dies Irae: qui non c’è musica, ma caos, rumore; le voci espongono i versi recto tono, poi con rapide discese e con accenti quasi di terrore. Si fa largo in orchestra un MI isolato, sul quale le voci intonano stentoreamente il Tuba mirum, poi in aspra dissonanza con un FA, finchè tutto crolla verso il silenzio.

Ancora La dubitante, interrotta da sordi suoni dell’orchestra, che non sa spiegarsi perchè quel Dio tanto invocato resti zitto di fronte a macerie, dolore e pianto: un Dio duro, troppo duro...

Riprende il Coro di chi non dubita con Mors stupebit: l’atmosfera è caratterizzata da un tappeto sonoro aspro (proprio da... stridor di denti) sul quale le voci innestano ora sequenze ascendenti, ora improvvise discese dall’acuto, per sottolineare la tremenda severità del giudizio finale.

Riecco La dubitante, adesso nel totale silenzio di voci e orchestra, manifestare il suo stupore: per quel Giudice supremo che rimane in silenzio di fronte a misfatti compiuti dall’uomo, ma spesso mostra inspiegabilmente la sua mano feroce.

É arrivato il momento del Cuore ridotto in cenere. Ed entra sul palco Monica Bacelli a cantare il Quid sum miser, su una sorta di Sprechgesang. Il Rex tremendae majestatis è invece declamato. Più liriche le due strofe del Recordare e del Quaerens. Dopo uno scabro Juste Judex ecco uno squarcio di grande respiro melodrammatico, una specie di arioso che accompagna le strofe Ingemisco, Qui Mariam e Preces meae. Un ultimo scatto violento (Confutatis maledictis) e poi la chiusa (Oro supplex) di un grande lirismo, un abbandono - in LA minore - nelle mani di Dio (Gere curam mei finis).  

Ora l’orchestra prepara una specie di soffice tappeto sonoro (su un vago RE minore) per supportare una nuova esternazione della Dubitante: che invoca un Dio di amore, che arrivi a portare all’uomo la comprensione e la compassione, la consapevolezza dell’unità dell’Universo, il capire l’insetto e la grandine, l’acqua e il filo d’erba.  

Il Coro di chi non dubita espone ora il Lacrimosa: è la parte femminile a cantare la voce principale, contrappuntata da quella maschile. È un canto appropriatamente lamentoso (vagamente in RE minore) con motivi degradanti, appunto lacrimevoli, che sfocia alla fine su un LA acuto, per l’invocazione alla pietà divina.

Ultimo intervento della Dubitante, accompagnata da discreti e sporadici interventi del bandoneon di Davide Vendramin. È una lacerante confessione di chi riconosce tutte le sue colpe, piccole e grandi, egoismo, narcisismo, individuaismo... ma una su tutte: la disattenzione. Il MI del bandoneon chiude questa accorata esternazione e si prepara ad accompagnare l’ultima parte del Requiem:

il Lux Aeterna del Coro di chi non dubita. Un lungo viaggio in LA minore verso la luce che risplende sul riposo eterno dell’uomo. Un ultimo saluto del bandoneon, poi l’Amen del Coro, in LA maggiore! Lo stesso LA dell’ultimo rintocco di campana.

Qui Pascal e tutto il coro rimangono a braccia alzate al cielo e impiegano, per abbassarle, non meno di 120 secondi, in un religioso silenzio carico di tensione. Poi sei minuti ininterrotti di applausi, dapprima sobri e contenuti, quindi sempre più forti e accompagnati da ovazioni per tutti, compresa l’Autrice, salita sul palco ad abbracciare gli altri protagonisti di questo indimenticabile appuntamento.