XIV

da prevosto a leone
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07 giugno, 2023

Rusalka incanta la Scala

Ieri sera è quindi approdata finalmente al Piermarini (con vari buchi… ma peggio per gli assenti) la Rusalka di Antonín Dvořák, colmando così una imperdonabile lacuna nel curriculum scaligero. Dico subito che con questa produzione il Teatro si fa, almeno in parte, perdonare il ritardo, ecco!

Il merito va equamente distribuito fra tutte le componenti della squadra, a partire ovviamente da quella più importante, i suoni. La direzione impeccabile del 53enne di Brno, Tomáš Hanus, ha saputo valorizzare quanto di buono c’è in questa affascinante partitura: gli squarci idilliaci e sereni del mondo innocente della Natura; le pulsioni della protagonista, i suoi sogni, le sue speranze, poi le cocenti delusioni e infine la rassegnazione per l’esito della sua avventura, rassegnazione che tuttavia lascia aperto uno spiraglio di Mitleid a mitigare il nichilismo della conclusione; e infine il mondo degli umani, con tutte le sue classiche manifestazioni: superficialità, vanagloria, superbia e presunzione, credulità e superstizioni.

L’Orchestra da parte sua ha mostrato di trovarsi a suo agio con questo Dvořák tardoromantico, che sa coniugare la freschezza dell’ispirazione legata alle tradizioni della sua terra boema con il lascito wagneriano, senza mai cadere nel banale o nel melenso. Il coro di Alberto Malazzi ha dato il suo valido contributo, soprattutto nella parte femminile che impersona ninfe e ondine, così come nel breve passaggio della festa al castello.

Quanto alle voci, Olga Bezsmertna ha convinto nell’interpretazione della sfortunata ninfa, nei suoi mutamenti di… genere e quindi di umore; la voce ha forse qualche debolezza nelle note gravi, mentre al centro e sugli acuti ha dato il meglio di sé. Per lei un franco successo, premiato da una prima uscita singola nella quale si è presentata alzando e poi avvolgendosi nella bandiera giallo-blu della sua martoriata terra. Ma a proposito di politica e di guerra, davvero evocativa (e chissà se beneaugurante) la scena su cui cala il sipario: un russo (non importa se filo-putiniano o meno) che muore fra le braccia di un’ukraina che ha cercato la libertà, pentito per i torti che le ha inflitto in vita!

Il russo è Dmitry Korchak, che ormai si sdoppia fra canto e direzione d’orchestra: la voce è sempre chiara e squillante (viene da… Pesaro, non dimentichiamolo) e il suo Principe ne è stato ampiamente beneficiato.    

La Principessa passa come una meteora solo nel second’atto: Elena Guseva ha fatto del suo meglio, mostrando bella voce e sufficiente grinta nell’impersonare questa donna sfacciata e presuntuosa.   

Da elogiare la Strega di Okka von der Damerau, che non si è fatta trascinare dalla parte in inutili sguaiatezze, ma anzi ha caricato di drammaticità i suoi interventi; perfetta nella messa-nera del primo atto!        

Jongmin Park ha impersonato un Vodnik un po’ monocorde, mentre dovrebbe almeno differenziare il suo canto fra la disperazione per la sorte della figlia e gli anatemi verso Principe, Principessa e… lo sguattero portavoce. Voce potente ma un po’ troppo cavernosa: chissà se per questo ha avuto gli unici due buh piovuti dal secondo loggione.

Onorevoli la parti di contorno: il guardiacaccia Jiří Rajniš ha mostrato una solida voce baritonale, più adatta - secondo me - al ruolo rispetto a quella di tenore, cui pure viene spesso affidato, addirittura fin dalla prima; Svetlina Stoyanova, lo sguattero en-travesti, soprattutto nella prima scena del second’atto; e il cacciatore di Ilya Silchukou, che ha una parte davvero minuscola, ma l’ha svolta con diligenza.  

Assai bene le tre Ninfe del bosco, Hila Fahima, Juliana Grigoryan e Valentina Pluzhnikova, sia nelle parti singole (atto III) che in quelle a trio.

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Vengo ora allo spettacolo di Emma Dante. L’ambientazione esteriore è proprio da fiaba, come testimoniano le scene di Carmine Maringola e anche i bellissimi costumi di Vanessa Sannino. Efficaci le luci di Cristian Zucaro e appropriate e mai invadenti le coreografie di Sandro Maria Campagna.

La regista ha coniugato con grande efficacia l’aspetto favolistico del soggetto con i risvolti di natura sociologica, riservando per questi ultimi il secondo atto dell’opera.

La scenografia del primo atto ci mostra la facciata stilizzata di un palazzo davanti al quale si trova una piscinetta che simbolizza l’acqua del lago. Già durante il Preludio vediamo il Principe aggirarsi presso lo… stagno in cerca forse di qualcosa di… esotico, e Rusalka arrivare e contemplarlo spinta su una gran sedia a rotelle, con tentacoli che le escono da sotto la gonna: chiara e didascalica, ma efficace, evocazione della sua natura non-umana ma attirata dall’umanità.

Il suo passaggio a essere umano avviene nel corso di una vera e propria messa nera (con presenza di diavoletto scodinzolante) che la Strega celebra su una specie di altarino, con tanto di calici e ampolline: una parodia dissacrante che la Dante fa delle liturgie ecclesiastiche e, in generale, della religione (dico per inciso che qui ci sta tutta, quanto invece era gratuita nella sua Carmen…)

Il cambiamento di… genere avviene rimuovendo a Rusalka i tentacoli e poi, per metterla in verticale, facendola aggrappare ad un enorme amo da pesca calato dall’alto: immagine eloquentissima a spiegare il fenomeno (amo-re) che ha spinto l’ondina all’avventura impossibile!

 

Il secondo atto si apre davanti ad una parete (un sipario, in effetti) fatta di foltissimo fogliame, che fa da sfondo al siparietto di guardacaccia e sguattero. Ma il fogliame maschera la presenza di esseri mostruosi che poi si palesano come strani animali, simili ad orsi: il tutto supporta assai bene il racconto del guardiacaccia a proposito delle presenze del bosco. Poi il sipario-foresta si alza (lasciando anche cadere qualche rametto…) per mostrarci la sala del palazzo del Principe, dove ritroviamo la piscinetta nella quale è immerso un tavolo dove mangiano gli invitati.

 

E cosa mangiano? I tentacoli che erano stati rimossi a Rusalka! Ecco, è l’indizio che qui si comincia anche a fare un po’ di sociologia: non per nulla Rusalka ne rimane allibita. La scena è carica di simboli che rimandano alla non accettazione o all’irrisione del diverso, cosa che fa la Principessa nel reclamare dal Principe l’accoglienza che le spetta per diritto di… etnia (!?)

 

Alle danze si aggiunge agli invitati la stessa Rusalka, che però comincia pericolosamente a barcollare… chiaro indizio che la sua posizione nel mondo degli umani è ormai messa in pericolo. E addirittura la danza e la successiva marcia nuziale (à-la-Lohengrin) degli invitati si trasforma invece in un autentico funerale, dove una Rusalka imbalsamata viene deposta sul tavolo immerso nell’acqua (come dire: questa è la fine che farai, tornatene da dove sei venuta!)

 

A questo punto ridiscende provvisoriamente il sipario… boschivo per accogliere al proscenio l’incontro decisivo fra Principe e Principessa. La quale dapprima sembra convinta di aver ormai raggiunto il suo obiettivo, ma poi, di fronte alle perplessità e ai rimorsi del Principe dopo le minacce di Vodnik, lo manda al diavolo e se ne va, mentre il bosco si ritira in alto per mostrare una Rusalka troneggiante su un’imponente massa di tentacoli!

 

L’atto conclusivo rispecchia con fedeltà quasi assoluta il libretto: siamo tornati allo scenario iniziale, ma assai invecchiato e sfiorito. Rusalka è tuttora umana, ma fatica a reggersi in piedi e ancora ha bisogno dell’amo cui aggrapparsi.

 

Dopo l’intermezzo di guardiacaccia, sguattero e strega, e il nuovo incontro delle ninfe con Vodnik, ecco il poeticissimo finale, con il Principe che muore (proprio come Tristan) fra le braccia di Rusalka.

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Insomma, uno spettacolo di altissimo livello che il pubblico (almeno quello rimasto fino alla fine…) ha accolto con una decina di minuti di applausi per tutti. Certo è una delle migliori produzioni di questo 22-23 scaligero.

02 giugno, 2023

A 122 anni suonati Rusalka emerge alla Scala

Della serie: non è mai troppo tardi, ecco in arrivo alla Scala Rusalka di Antonín Dvořák, opera nata all’inizio dello scorso secolo (la prima ebbe luogo a Praga, domenica 31 marzo, 1901).

Rusalka è una delle rappresentanti di creature femminili semi- o ultra- o para-umane: arriva da noi in coda ad una lunga dinastia che – per non retrocedere fino all’antica Grecia - pare iniziare in Europa con la medievale Melusine (quella che musicherà Mendelssohn…) alla quale si ispirarono poi, nella prima metà dell’800, la Undine di De la Motte e Den lille Havfrue (la Sirenetta) di Andersen.

Ma anche le Figlie del Reno di wagneriana memoria discendono da lì (le loro evoluzioni nel Rheingold sono musicalmente parenti di quelle di Mendelssohn). E a proposito di Reno, che dire poi della Loreley messa in musica da Catalani.

Dietro a tutte le storie di questa lunga serie ovviamente si nascondono (più o meno) simbolismi di varie fatte, e Rusalka non ne è certo sfornita. Nel libretto di Jaroslav Kvapil troviamo due mondi che sembrano inconciliabili (e qui l’odierno assetto del nostro Pianeta e i problemi e contrasti che vi nascono possono essere impiegati dal regista per dare attualizzazione al soggetto): quello della Natura incontaminata (boschi, laghi e creature che li abitano) e quello della società umana, i cui rappresentanti portano valori quasi esclusivamente negativi. Più il personaggio di Ježibaba, la strega, un rifiuto della società da cui vive separata e temuta. Al di sopra, lontana ma sempre presente, la luna, che esercita sotto varie forme la sua perenne attrazione.

Dvořák impiega i collaudati strumenti del tardo-romanticismo per evidenziare – alle nostre orecchie – i due mondi che si contrappongono: melodie sognanti ed elegiache per la Natura, musica secolare e melodrammatica quella del mondo degli umani. 

I personaggi principali sono cinque: oltre alla protagonista Rusalka (indecifrabile creatura acquatica) abbiamo Vodník, che come lascia intuire la radice del nome (Voda=Acqua) è il Signore delle acque, nonché genitore (qualunque cosa significhi, nella fattispecie) di Rusalka e custode della purezza di ciò che vive nelle liquide profondità (Traulich und treu ist's nur in der Tiefe, cantano le wagneriane abitatrici del Reno); poi il Principe, classico esempio di figlio-di-papà, viziato, incostante e inconsistente, che trascinerà Rusalka alla perdizione, perdendo se stesso; quindi la Principessa straniera, che impersona la superbia e la presunzione di una che pensa che tutto le sia dovuto; e infine la strega Ježibaba, onnipotente nell’esaudire i desideri più improbabili, quanto nel porre ai beneficiari micidiali e quasi impossibili condizioni da rispettare, pena la totale perdizione.

Attorno a loro si muovono poi ninfe abitatrici del bosco, le sorelle di Rusalka e caratteri umani più o meno prosaici, se non insignificanti (invitati alla festa, cacciatore, guardia forestale e sguattero). 

Prima di passare ad una sommaria esegesi, ecco i riferimenti ad esecuzioni integrali rintracciabili in web:

1961: Chalabala-Šubrtová, Teatro Nazionale Praga (solo audio)

1986: Elder-Hannan, English National Opera

1996: Belohavek-Jenisova, Teatro Nazionale Praga 

2002: Conlon-Fleming, Opéra National de Paris

2008: WelserMöst-Nylund, Cleveland

2011: Anguélov-Strid, Teatro de Bellas Artes, Mexico

2017: Elder-Opolais, MET (solo audio)

2019: Ticciati-Matthews, Glyndebourne
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Il breve Preludio inizia in DO minore, con una veloce figurazione dei celli, sostenuti dai timpani, che introduce un languido motivo di violini e legni (motivo che, portato in modo maggiore, riudiremo più di una volta nel seguito, soprattutto associato a Rusalka):
Anche qui la tonalità vira presto al MIb maggiore che evoca tradizionalmente la Natura, con i corni che classicamente rappresentano le voci del bosco. Verso la conclusione fa la sua comparsa una figura di 4 note cromaticamente ascendenti, nei legni, che capiremo evocare l’acqua e il suo Signore:

Il primo dei tre atti dell’opera (di struttura tripartita, pur senza soluzione di continuità) si apre con una scenetta che ricorda l’inizio del Rheingold, ma totalmente depurata di ogni carattere drammatico: mentre la luna riflette la sua luce sulla superficie del lago, ecco le (tre!) ninfe del bosco esibirsi in canti e balli (Zvědavě se hloubku dívá, LA maggiore):

Incuriosito, ecco Vodník emergere con il busto dall’acqua e cercare, con modi bonari e goffe movenze, di acchiappare ora l’una ora l’altra delle ninfe che gli sfuggono divertite, dopo averlo innocentemente adescato.

Un lungo arpeggio ci annuncia la presenza di Rusalka, che è fuori dall’acqua (e questo è già indice della sua attitudine ribelle) e confessa al padre (in orchestra si ode il languido tema di apertura del Preludio) il suo desiderio di abbandonare il suo habitat naturale per assumere fattezze umane e soprattutto avere un’anima, che gli umani conservano anche dopo la morte, nell’aldilà. Vodník ne è colpito, avverte la figlia che avere un’anima è un peccato (filosofia di Anassimandro…) 

Lei ora fa la sua confessione (Sem často přichází, in FA maggiore):

Racconta di provare amore per un essere umano (il Principe che lei vede – e… avvolge - ogni giorno, quando lui si bagna nel lago) al che il padre si dispera per l’imminente perdita di una figlia, ma allo stesso tempo non si oppone alla sua volontà, anzi è lui stesso a suggerire a Rusalka di rivolgersi alla strega perché la aiuti ad esaudire il suo desiderio.

Měsíčku ne nebi hlubokém, l’aria (o romanza, o ballata, o canzone, come la si voglia definire, in SOLb maggiore, 3/8) più famosa dell’opera è la preghiera che Rusalka rivolge al chiaro di luna, implorando di poter essere vista e amata dal Principe:

Al termine delle due strofe fa capolino la figurazione cromatica udita nel Preludio, a ricordarci che è l’acqua che alla fine si riprenderà la sfortunata ondina.

Che adesso, mentre il padre ancora si dispera, chiama la strega, che appare sulla soglia della sua stamberga. In questa seconda parte dell’atto facciamo la conoscenza di Ježibaba, che rappresenta più o meno l’anello di congiunzione fra il naturale e il soprannaturale: lei è umana ma conosce segreti ignoti agli umani e sfrutta queste conoscenze per accontentare (e ricattare!) chiunque le si rivolga per ottenere da lei ciò che non può procurarsi con le proprie capacità.

Rusalka, preceduta dal motivo di apertura del preludio, le spiega la sua condizione, il suo insopprimibile desiderio e la fiducia che lei nutre nei suoi poteri magici (Staletá moudrost tvá všechno ví, FA# minore e relativa LA maggiore):

Ma anche per Rusalka – che pure umana non è, ma chiede di diventarlo - non fa eccezioni o favoritismi: se proprio ci tiene, potrà diventare umana e soddisfare così quei desideri (anima e/o eros?) che le sono negati dalla sua condizione. Ma, attenzione, in cambio dovrà accettare clausole contrattuali assai pesanti: oltre a cedere alla strega il suo abito di ondina (un sistema che Ježibaba evidentemente impiega per arricchire il suo patrimonio di conoscenze e prerogative) Rusalka dovrà rassegnarsi a perdere la sua voce (curiosa assurdità: un essere acquatico che non dovrebbe proprio averla per natura!) ma soprattutto ad essere punita con il ritorno alle liquide profondità nel caso in cui la sua storia d’amore finisca male; e finirebbe male anche per il suo innamorato, destinato a morte certa! 

Rusalka si dice pronta a tutto, così la strega prepara la sua infernale pozione (Čury mury fuk, SI minore) elencandone i magici ingredienti:

Poi ingiunge all'ondina di bersi d’un sol fiato tutta la brodaglia, mentre dalle profondità del lago salgono i lamenti di Vodnik per la perdita della figlia…

Eccoci quindi alla terza e conclusiva sezione dell’Atto I: è ormai mattino ed arrivano i cacciatori (uno canta anche pochi versi, in due riprese) che precedono il loro Principe. Il quale, già in preda a suggestioni fiabesche, li congeda per rimanere da solo ad aspettare… Rusalka, che guarda caso in quel momento esce – ormai umanizzata, ma pure muta – dalla dimora della strega. L’innamoramento è ovviamente a prima vista, ma ad una sola voce (Vidino divná, přesladká, in RE maggiore) preceduta dal dolce motivo che aveva aperto il Preludio: 

È una classica aria da tenore lirico ma, come per l’aria alla luna di Rusalka, anche qui, fra le due strofe, si fa risentire il motivo acquatico, freddo presentimento per ciò che accadrà nel seguito. Mentre le sorelle si chiedono addolorate dove se ne andrà e il padre risponde che vagherà per monti, prati e valli, la muta Rusalka è accompagnata verso il castello dal Principe, che chiude l’atto con un’ultima aria (Vím že jsi kouzlo, in LAb maggiore) che riprende anche un passaggio del Preludio:

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L’Atto secondo comprende quattro sezioni, separate da un ballo. Siamo nei pressi del castello del Principe e la guardia forestale si intrattiene con un giovane sguattero che lo ragguaglia di ciò che sta per accadere quella sera: il Principe dà una festa per annunciare il suo matrimonio con una creatura misteriosa, di cui si è innamorato. Questo gradevole siparietto – dove fa capolino una citazione, forse non involontaria dato il contesto, del Finale della Renana - dà modo a baritono e soprano-en-travesti di godere di uno dei due momenti di gloria a loro riservati.

La seconda scena ci porta dentro al castello, dove troviamo il Principe che cerca di riscaldare la fredda e muta Rusalka. Mirabile l’introduzione orchestrale alla sua aria in LAb maggiore (Již týden dliš mi poboku):

E questa lunga aria la riprende e la amplia:

Il Principe manifesta con passione e trasporto il suo stato d’animo combattuto fra il desiderio di Rusalka e le perplessità sollevate dal comportamento della giovane, sempre muta e apparentemente fredda. Si lamenta di non poter penetrare i suoi segreti e si domanda se il matrimonio porterà loro la completa felicità…  

Arriva la Principessa straniera, furiosa alla vista del Principe con Rusalka: dapprima sovrappone le sue imprecazioni all’ultima implorazione del Principe all'ondina, poi si intromette sfacciatamente fra i due, accusando il Principe di inosservanza dei suoi doveri. E il Principe mostra tutta l’inconsistenza e l’incostanza dei suoi sentimenti con un’esternazione in LA minore (Leč oči její říci zapomněly):

…con la quale si scusa con la trionfante Principessa per poi, dopo aver ingiunto a Rusalka di ritirarsi, cominciare addirittura a corteggiarla!   

Un delizioso interludio orchestrale, che riprende il motivo di apertura del Preludio, sottolinea la tristezza di Rusalka, ormai rassegnata a perdere il Principe, che vede allontanarsi al braccio della nuova arrivata. La luna torna ad affacciarsi, mentre si odono la prime note della festa danzante che sta per cominciare.

Dato l’ambiente, la festa non può aprirsi che con una polacca in MIb maggiore (in effetti richiama vagamente quella ciajkovskiana dell’Onegin):

La musica della danza ha una struttura a Rondo: Polacca – Prima danza – Polacca – Seconda danza – Polacca – Coda, con le due danze che tendenzialmente modulano alla sottodominante LAb maggiore.

Ma improvvisamente (preceduto dal motivo cromatico dell’acqua) appare Vodnik, arrivando dal lago, che ancora non si dà pace per la sorte della figlia, di cui intuisce il dramma. E lo fa con un’accorata aria bipartita (Celý svět nedá ti, nedá) che principia in MI minore per poi sfociare in una stupefacente coda in REb maggiore:

Vodnik chiude la sua aria con un nuovo, disperato rimpianto per l’errore commesso dalla figlia, mentre il coro degli invitati canta (Květiny bílé po cestě) i suoi voti augurali per gli sposi (Lohengrin…) È una graziosa melodia in SI maggiore, al termine della quale ancora Vodnik sovrappone la sua voce - ma con lunghezze di note più ampie - a quelle del coro che riprende la melodia nuziale: è il suo accorato vaticinio (Na vodách bílý leknín sní) per la sorte che attende la figlia:

 

Un drammatico sfogo dell’orchestra introduce l’incontro del padre con la figlia che – riacquistata miracolosamente la voce - gli confessa tutta la sua delusione e l’amarezza per l’avventura umana che - purtroppo per lei, e a causa della sua natura non-umana - sta prendendo una brutta piega. Il motivo introduttivo del Preludio anticipa l'aria Ó marno, marno, marno il suo amaro sfogo, espresso con un agitato passaggio in SOL minore:

Poi, mentre si odono le salite cromatiche che ricordano l’acqua, con una straziante invocazione, implora il padre di aiutarla ad uscire da quella insopportabile situazione.

Tornano il Principe e la Principessa per la scena madre che chiude l’atto: in un melodrammatico duetto fatto di botte-e-risposte lei constata il cambiamento di atteggiamento del Principe nei suoi confronti, lui le esterna tutto il suo amore, nemmeno sa come spiegare, se non definendolo un capriccio, il suo improvviso cambio di atteggiamento nei confronti di Rusalka. A questo punto lei lo mette perfidamente alla prova con un passaggio in LA minore (Až požár můj vás popálí) che poi sfocia in un romantico e ammaliante LA maggiore (Až obejmou vás lokty slíčné):

Lui ormai ha ceduto e le dichiara di voler dimenticare Rusalka per lei, così cantano a due voci (per la prima volta) la loro passione, stringendosi in un abbraccio appassionato. Ma Rusalka irrompe sulla scena, frapponendosi tra i due; ed anche Vodnik interviene, manifestando il suo disprezzo per il Principe fedifrago, che supplica la Principessa di aiutarlo ad uscire da questo lacerante dilemma.

Per tutta risposta, la Principessa lo pianta in asso, mandandolo proprio all’inferno, giù negli abissi, insieme alla creatura dalla quale si era fatto ammaliare (V hlubinu pekla bezejmennou):

12 battute orchestrali chiudono precipitosamente l’atto, con un finale FA# all’unisono.
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L’Introduzione all’Atto terzo ci riporta alla scena con la quale l’opera si era aperta: le rive del lago, la notte incombente, l'immancabile presenza della luna. Ma accanto alle dolci sonorità della Natura compaiono passaggi assai concitati: è Rusalka, palesemente sfiorita, che non si dà pace per essersi cacciata in quest’avventura che l’ha gettata in un vicolo cieco: non può più vivere tra gli umani né tornare alla sua vita pre-umana. Lo canta con una lunga e appassionata aria In FA maggiore ma con diverse modulazioni (Mladosti své pozbavenache accosta a sua volta passaggi languidi ad altri che sottolineano il suo strazio e il desiderio di morte:

È la strega Ježibaba che, dopo averla irrisa per il fallimento della sua velleitaria iniziativa, ne raccoglie il pentimento e le promette di risolvere i suoi problemi a patto che lei uccida – le porge un coltello – quell’uomo che l’ha tradita (Lidskou krví musíš smýti, in SI minore):

È la stessa natura umana che reclama sangue! proclama la strega.

Rusalka rifiuta inorridita quell’oscena proposta, così, mentre la strega rincara la dose su di lei, liquidandola come una totale nullità e se ne torna a casa sua, lei, accompagnandosi con la languida melodia che aveva aperto il Preludio, canta la sua rassegnazione (Vyrvána životu) invocando infine su di sé anche la maledizione:

Maledizione che puntualmente le arriva dalle sorelle che intonano, dapprima a cappella, un coro (Odešla jsi do světa) apparentemente sereno:

Ma le parole delle ondine suonano come inappellabile condanna: Rusalka non potrà più trovar posto fra loro, dopo il peccato commesso con il desiderio di umanizzarsi.

Un secondo siparietto – dopo quello dell’inizio del second’atto – vede ora tornare in scena la guardia forestale e lo sguattero, piuttosto recalcitrante a sbrigare l’incarico avuto dalla badante del principe: chiedere alla strega consigli su come guarire la malattia psicologica del protetto, vittima delle arti magiche di Rusalka.

Ma mentre il ragazzo porta tutto tremante la sua ambasciata alla strega, Vodnik emerge dalle acque per difendere la figlia, vittima del tradimento del Principe, e mette in fuga lui e la guardia, mentre la strega se ne va sghignazzando selvaggiamente.

Tornano ora le tre ninfe del bosco, ciascuna vantando immodestamente le proprie prerogative di bellezza e, come all’inizio dell’opera, cominciando ad adulare Vodnik. Ma lui le ragguaglia sulla tragica vicenda di Rusalka, al che le tre fuggono spaventate e addolorate.

Siamo finalmente all’epilogo: il Principe arriva sul posto, alla ricerca spasmodica di Rusalka (Ode dne ke dni touhou štván, in FA minore, agitato):

Poi ancora, mentre l’orchestra ricrea un’atmosfera idilliaca, appassionatamente la invoca, facendo appello alle voci della foresta, fino a stramazzare esausto. E proprio allora, preceduta da dolci arpeggi e poi accompagnata dall’incantevole motivo che aveva aperto il Preludio, Rusalka gli appare dinanzi.  

Il principe la guarda stupito e interdetto, le chiede se sia viva o morta; lei gli risponde che è divenuta uno spirito maledetto, che ormai potrà solo recargli la morte (Živa ni mrtva, žena ni víla):

Lui continua a chiederle perdono per il suo comportamento e ad implorarla di tornare con lui. Con la tonalità che modula ad un dolcissimo quanto rassegnato MI maggiore, lei rimpiange i brevi momenti del loro primo incontro, ma gli conferma che ciò comporterebbe per lui la perdita della vita (Proč volal jsi mne v náruč svou):

Il canto di Rusalka si chiude sul DO# minore, enarmonicamente trasportato in REb maggiore, nella quale tonalità il Principe decide comunque di abbandonarsi al suo bacio (Líbej mne, líbej, mír mi přej):

Ancora un ultimo scambio di battute fra i due, sempre in REb maggiore: lei che rinnova l’annuncio della tragica fine per lui, che invece la invoca, pur di morire avvolto dal suo abbraccio e dai suoi baci (Všechno chci ti, všechno chci ti dát):

Una nuova enarmonia ci porta a DO# minore: è Vodnik che, dal profondo, su un motivo di marcia funebre dell’orchestra, manifesta il suo rammarico e la sua disperazione per l’irreparabilità di ciò che è accaduto.

Rusalka, prima di immergersi per l’eternità, e mentre si torna a REb, chiede misericordia a Dio per il Principe (Za tvou lásku, za tu krásu tvou):

Seguono dieci battute di Grandioso, appassionato, e infine tre sull’accordo perfetto di REb maggiore (un simbolo anche questo!) chiudono l‘opera in Adagio, pianissimo. 
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Bene, martedi 6 giugno staremo a vedere e sentire. Qualche settimana fa è comparsa sul NYT un’interessante anticipazione di questa produzione, con commenti e interviste alla Dante e al Maestro Hanus. In particolare la regista ha anticipato il suo Konzept (come dicono i crucchi) incentrato sulle tematiche di grande attualità: flussi migratori, problemi di integrazione (o di sostituzione etnica???) e fenomeni di intolleranza.

Vanessa Sannino ha da parte sua anticipato bozzetti dei costumi dei principali personaggi:

Sul fronte musicale, Hanus e Bezsmertna hanno già sufficiente esperienza di quest’opera, ergo ci dovremmo aspettare uno spettacolo di buon livello.

29 marzo, 2015

Riecco la famigerata Carmen… dantesca

 

Ieri sera terza ed ultima (per ora, in attesa di giugno) recita della Carmen (di Emma Dante, perché di Meilhac-Halévy non c’è proprio nulla!)

E appunto sugli aspetti non legati ai suoni di questa produzione avevo già scritto peste e corna all’indomani dell’uscita originale il SantAmbrogio 2009 (dove per me si erano salvati il divo Kaufmann e il discreto Barenboim) e questa ripresa non poteva certo farmi cambiare idea. Anzi mi fa detestare chi ha avuto quella di riproporre un simile spettacolo in abbonamento, quindi di imporlo anche a chi già ne conosceva i limiti. (Almeno la ripresa del 2010 era stata programmata fuori abbonamento, e così me l’ero fortunatamente risparmiata!) Perciò sulla parte visiva dello spettacolo mi fermo qui.
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In mancanza di un divo (Kaufmann) ed essendo un suo probabile buon sostituto (Meli) relegato alle recite in zona-Expo, il livello della prestazione musicale è stato appena sopra la sufficienza soltanto nel caso di Elīna Garanča. Che ha il fisique du role di… Fricka (stra-smile!) ma almeno canta dignitosamente, ecco. Se poi si facesse prestare qualche decibel (in zona centro-bassa) dalla Rachvelishvili sarebbe ancor meglio.

Invece José Cura canta come Kaufmann… fra una decina d’anni, sempre col fiato in gola e parecchia approssimazione: un amico gli è rimasto, quello che dal loggione gli ha gridato un gran bravo! dopo l’aria del fiore. Pagato con gli interessi (una sonora buata) all’uscita singola. Un isolato buh anche alla fine del second’atto, immagino però indirizzato alla regìa. Per il resto pochi e miseri applausi a scena aperta, compreso quello a sproposito sulla corona puntata che precede l’Andante moderato del Preludio.

Il torero Vito Priante mi ha fatto rimpiangere il pur non irresistibile Schrott dell’allestimento originale. Elena Mosuc è una Micaela… invecchiata precocemente anche nella voce, oltre che nell’orrenda acconciatura affibbiatale dalla regista.

Tutti gli altri sono comprimari che hanno fatto del loro meglio per… non farsi notare. Bene almeno il coro di Casoni.

Massimo Zanetti ha diretto tutto sommato con merito, riuscendo se non altro a tenere sempre basso il volume dell’orchestra, il che è un bene per la resa di un’opera come questa, ed anche per i cantanti in scena, che hanno evitato di far la figura dei pesci in acquario. 

Pubblico abbastanza numeroso e alla fine fin troppo… generoso.

19 dicembre, 2009

Hanno ammazzato comare Cammelina! Cu fu?



Non sono state smentite: abbiamo sentito la Carmen di Bizet. Una discreta (selon moi) Carmen di Bizet.
Abbiamo visto? Dipende: per taluni, una trojata underground anni '70; per pochi (mi spiace vi sia incluso anche il mio idolo Daniel, parte in causa, oltretutto) la Carmen del millennio. Per i più: una moscia e bambinesca mistura di deja-vu, senza capo né coda. Io mi colloco di sicuro in quest'ultimo mucchio, poi fornirò qualche dettaglio.
La Dante ieri sera non si è presentata al proscenio. Paura di una nuova salva di buuh? Nel caso, paura ingiustificata: visti gli osanna che il pubblico, loggione in testa, ha riservato anche agli interpreti degni di censura senza appello, forse anche lei avrebbe portato a casa un successo.
Ma qui bisogna prenderla più alla larga…
***
Monsieur Lissner, gran ciambellano del Teatro, ha una sua idea del presente e del futuro del baraccone: la Scala è un oggetto particolare, diverso da ogni altro al mondo. Chiaro per tutti? Anche a Roma, Napoli, Firenze, e Torino? (mi scuso se non nomino gli altri.)
Bene, quindi, per il futuro: assetto ultra-privilegiato, anzi proprio esclusivo, che significa nessun vincolo agli aiuti di Stato, quindi quattrini a volontà (togliendoli a tutti gli altri, quando scarseggiano, come ora). Per fare cosa? E questo riguarda anche il presente.
Per fare qualcosa che vada al di là del puro allestimento di opere. No – pontifica Lissner - la Scala non può e non deve limitarsi a mettere onestamente e professionalmente in scena i capolavori della lirica e dei drammi musicali. No, deve fare molto di più, deve stupire, compreso il dare scandalo, se serve. (Perché solo così si giustifica lo status esclusivo che si pretende di vedersi riconosciuto. Sbaglio, o questo trucco è vecchio quanto il mondo?)
Ora, qual è lo strumento principe per raggiungere un obiettivo quale l'unicità, o l'eccezionalità? Chiunque abbia cognizione di causa della natura del teatro musicale, mescolata ad un minimo di comprendonio, risponderebbe: attirare alla Scala er-meio-der-mejo-der-meyo di strumentisti, cantanti e direttori. Invece a cosa assistiamo noi? Ad una politica che non fa nulla più di un onesto sforzo (sì, nulla più: è ciò che fanno tutti gli altri sovrintendenti, a parità di fondi disponibili) per assicurare al Teatro le risorse fondamentali di cui sopra. Ma allora,come si può pretendere l'eccezionalità? Ecco, cercando di stupire – ah, la diversità! - con allestimenti di rottura; e chi se ne frega se, invece di valorizzarli, involgariscono i capolavori che vengono messi in cartellone? (Tanto il pubblico è bue, e va sorpreso, mica servito o educato!)
Ecco, la Carmen-09 è l'esempio paradigmatico di questa brillante politica. Un'orchestra e un coro più che dignitosi? Certo, ma se fossi un fiorentino, o un napoletano, o un seguace di SantaCecilia mi offenderei a morte, al sentirli definire come di livello superiore. Il Direttore? Uno dei migliori, fuor di dubbio, ma quelli che dirigono al Maggio, al Regio, all'Opera, al Massimo (e resto in Italia!) cosa sono, baluba? I cantanti? Pochi discreti (uno ottimo, per carità) altri promettenti, ma dov'è, caro Lissner, l'eccezionalità?
Intendiamoci, sul piano musicale non sono certo io a fare lo schizzinoso (rilevo solo che chi se ne intende davvero non è propriamente entusiasta): questa Carmen mi è abbastanza piaciuta alla radio il 7 e mi è sufficientemente piaciuta ieri sera al Piermarini. Ma il pretendere che debba fare storia (eh no, caro Daniel!) è un'assurdità, un puro slogan propagandistico, messo in giro da chi ha interesse ad ottenere privilegi che non mostra di meritarsi.
Tanto per chiudere il discorso sul fronte musicale, dirò che Kaufmann è stato superlativo, ma è stato anche l'unico a superare il livello di discreto. Ahinoi l'ascolto dal vivo ha dato responsi peggiori di quello radiofonico per quasi tutti gli altri, a partire da Schrott per finire alla Damato. L'Anitona per radio mi aveva impressionato; non così dal vivo; ha una voce potente, che passa sopra qualunque fracasso orchestrale, ma ciò non basta a farne (ancora) una grande cantante. Avevo sperato che fosse stato l'appiattimento dei suoi della ripresa radio, invece ho dovuto constatare che la ragazza ha un'emissione monotòna, uniforme, ergo senza espressività (non parliamo poi della recitazione, ma qui la regìa non può andare immune da colpe).
Ecco appunto, la regìa. È quell'ingrediente con cui si può surrettiziamente stupire (quando non si riesce a farlo sul piano musicale) come vorrebbe fare Lissner per accaparrarsi tutto il malloppo dei pubblici sussidi. E ci sono due modi per farlo: uno lo chiamerò à la Herheim (vedi il Parsifal in cartellone a Bayreuth) o anche à la Carsen (ad esempio la sua Alcina) dove il regista stravolge totalmente l'originale, ma almeno costruisce attorno alla sua brillante idea una nuova opera d'arte. L'altro è quello à la Bieito (prendere una regìa delle sue a scelta, tanto son tutte uguali) dove si dà gratuitamente scandalo con qualche spruzzata di sesso e volgarità o con invenzioni demenziali. Ecco, la Dante ha mostrato di non saper seguire né l'una, né l'altra strada (né, è pacifico, quella maestra, che consisterebbe nello studiare libretto e partitura e agire di conseguenza).
Nelle Note di Regìa sul programma di sala, la Dante espone il suo Konzept. Una sola frase (Il mondo fanatico e conservatore in cui vivono i protagonisti dell'opera è in totale contrapposizione con quello di Carmen) la dice lunga sull'approccio tenuto dalla regista nei confronti del capolavoro di Bizet. (A proposito del programma di sala, vi compare il classico refuso: bara invece di vara. La nostra non ha neanche rivisto la bozza, evidentemente. Un'altra topica – in un pezzo pregevole - ce la offre anche Rostagno, quando afferma che, in Mérimée, Carmen non appare mai direttamente, ma solo nella descrizione di José: che il nostro abbia letto solo il Capitolo III del racconto?)
E come mette in essere la sua idea, la nostra regista? Portando in scena e in primo piano la religione (come espressione di quel mondo fanatico e conservatore di cui sopra): qualcosa che Bizet e i suoi librettisti avevano accuratamente e deliberatamente ignorato. Questa Carmen è letteralmente infestata da simboli religiosi, materiali (carri funebri, croci, cotte, candelabri e turiboloni) e antropologici (suore, preti, chierici e prefiche nere, bianche, anziane e giovinette). Ora, bisogna sapere che nella Carmen di Bizet la religione non ha alcun posto. Pochi, remotissimi riferimenti: nel dialogo – che del resto viene quasi sempre tagliato, ed è stato tagliato anche in questa edizione – fra José e Zuniga, laddove Josè dichiara di essere cristiano e che la famiglia avrebbe voluto farne un ecclesiastico; nel racconto di Micaëla, che ricorda l'uscita dalla cappella con la madre di José. E nel monologo della stessa ragazza, al momento di affrontare – da sola – il poco rassicurante ambiente dei contrabbandieri.
Non solo. Nel racconto di Mérimée, che la regista deve avere letto e introitato assai più della partitura bizetiana, troviamo soltanto pochi passi che chiamano in causa la religione e la chiesa: le visite dell'autore al Convento dei Domenicani di Cordoba e le due di Josè in anonime chiesette, l'ultima delle quali poco prima del tragico epilogo. Nel racconto, prima di portarla nel bosco dove la ucciderà, Josè si reca in una piccola pieve di campagna e fa dire una messa votiva – a futura memoria – per Carmen. È una scena di grande umanità, non c'è presenza della Chiesa, delle sue liturgìe, dei suoi candelabri e dei suoi turiboli… solo quella della religiosa compassione del solitario prete che accoglie la richiesta di José, senza fargli domande se non proporgli di aprire la sua anima e ascoltare i consigli di un cristiano. E il racconto di José si conclude proprio con un ringraziamento ed un apprezzamento per la pietà e la misericordia di quell'anonimo curato di campagna. Il volto umano, caritatevole, della religione.
In questa Carmen invece la religione, anzi il suo potere temporale, rappresentato dalla burocrazia (più che dalla gerarchia) ecclesiastica, e dalle sue espressioni più vuote (carri e prefiche) la fa da padrone. Due esempi? L'accostamento di potere religioso e potere economico, il cui torbido legame è impersonato dalla divisa conventuale delle sigaraie; e quello fra religione e civiltà, rappresentato dalla presenza dei simboli più frusti della prima in una delle espressioni peculiari – per quanto discutibili - della seconda: il mondo della corrida.

Quanto al resto, troviamo in questa regìa – e nelle scene - delle invenzioni di gusto assai discutibile. Qualche esempio: una donna gravida che partorisce per strada – sotto gli occhi di Moralès e compagni che sghignazzano indifferenti e fanno commenti sui passanti; i battitori ambulanti di tappeti; i vecchi sudati che – a bocca aperta - si fanno aria con i ventagli; i pastrani made-in-DDR di cui sono vestiti i soldati del reggimento di Alcalà; la messa recitata in occasione del duetto José-Micaëla; le due enormi e lunghissime funi che, appese in alto, trattengono Carmen (e Josè) al momento del suo arresto; gli ascensori che conducono alla taverna di Pastia (lasciamoli ai simpatici della Fura, please); i contrabbandieri del terzo atto, avvolti di stracci e cartapesta in modo da sembrare alberi; l'enorme letto in cui viene sepolta Micaëla; i macabri ex-voto che vediamo fuori dalla plaza-de-toros. E mi fermo qui, per non annoiare anche chi non ha avuto la possibilità di farlo, non essendo presente in teatro.
I riferimenti a Mérimée sono parecchi e sempre e regolarmente finiscono col degradare il livello estetico (non parliamo di quello artistico…) della messa in scena. Ad esempio, il bagno delle suorine-sigaraie proprio sotto gli occhi dei maschi concupiscenti, nel primo atto, non è mica una geniale idea della regista, ma viene dal racconto. Perchè è lì, proprio nella prima pagina del capitolo II, che la Dante ha trovato – non a Siviglia, ma a Cordoba – la sua brillante ispirazione. Peccato che il raffinato Mérimée paragoni le fanciulle che si spogliano e si bagnano nel Guadalquivir – nella serotina penombra dopo l'Angelus e osservate da lontano, in modo solo immaginifico, da una moltitudine di uomini – a Diana con le Ninfe! La scena della fuga di Carmen, finale Atto I, non è quella di Bizet, ma di Mérimée, laddove José, rialzandosi dopo la spinta della gitana, blocca di fatto i commilitoni accorsi per catturarla: cosicchè ciò che vediamo ha semplicemente del comico, o dell'incomprensibile.
Ci sono poi forzature indebite, rispetto all'originale, che nascondono forse, o senza forse, messaggi di ribellione politica. Ad esempio il cambio della guardia. Una scena in cui Bizet (e i suoi librettisti) hanno mirabilmente inventato la presenza dei bimbi che marciano e cantano imitando i militari, per colorire in maniera brillante, originale, leggera, simpatica e musicalmente deliziosa un momento dell'Opera che altrimenti sarebbe da Operetta. Cosa vediamo invece? Arrivare dei bimbi vestiti da militari e, con loro, altri vopos mediterranei, che si portano in spalla altri bimbi, che sarebbero poi loro stessi prima di asservirsi per due piastre al lurido potere! Manco a dirlo, la straordinaria freschezza dell'originale bizetiano va a farsi benedire, insieme con il piacere che dovrebbe creare nello spettatore: un grazie di cuore alla regista.
Poi la scena della lite nella manifattura. Attenzione: nell'originale, la zuffa semi-cruenta coinvolge esclusivamente Carmen e Manuela; le altre sigaraie, divise in due fazioni (pro-Carmencita e pro-Manuelita) si limitano ad urlarsi addosso, e ad imprecare contro i militari. Nessun cenno, neanche minimo, a zuffe e accapigliamenti fra loro (neanche in Mérimée, attenzione!) Il libretto effettivamente recita, a proposito delle sigaraie: Elles sont malmenées par les soldats, quindi un poco di violenza qui ci deve essere, sono i soldati che cercano di allontanare le sigaraie che premono su di loro. La Dante, inventandosi un realismo degno di miglior causa, ci propina invece una indisponente gazzarra fra le ragazze, con tiramenti di capelli, scazzottature, calcioni e colpi di karatè e poi ci mostra una carica di polizia assai violenta e disumana da esser degna di quelle del famigerato – suo conterraneo - Mario Scelba, anni '50 (mancano solo le camionette usate come testuggini). Un accanimento davvero morboso, del tutto sopra le righe (anzi, i righi di Bizet) gratuito e quanto mai fuori luogo.
Nel finale dell'Atto II tutti cantano la liberté. Ma sappiamo, da ciò che abbiamo sentito prima, che trattasi della libertà esistenziale e comportamentale di Carmen, oltretutto usata qui strumentalmente e subdolamente dalla gitana per convincere Josè ad arruolarsi fra i briganti del Dancaïre. Invece in scena vediamo una specie di parata, di dimostrazione di un gruppo anarchico che inneggia alla libertà contro un fantomatico potere, coltellacci librati in aria.
I personaggi si muovono o poco o male. Intanto c'è troppo spesso troppa gente in scena, che vaga qua e là solo per movimentare l'atmosfera, con effetto distraente. Carmen è spesso e volentieri piantata come una cariatide (con le mani sui fianchi, vedi Habanera) oppure assume atteggiamenti volgari, fuori luogo e soprattutto infedeli rispetto all'originale: ad esempio nel terzo atto, quando fa le moine a Josè, prima di mandarlo a quel paese, oppure - caso eclatante - nell'ultima scena, dove lei dovrebbe sempre sdegnosamente tenere a distanza Josè, mentre invece sembra addirittura adularlo, per poi stenderlo al suolo con mosse di karatè. Lo stesso mezzo stupro a cui assistiamo è di quelli – il gentil sesso non me ne abbia – che in tribunale vedrebbero lo stupratore assolto perché la stuprata era consenziente!
Micaëla, oltre a tirarsi dietro il codazzo liturgico, fa sempre la parte della donnicciola insignificante, che ha un solo obiettivo: accasarsi. Nulla di più lontano dall'originale bizetiano. Non vorrei fare sotterranee insinuazioni, ma a me pare che sia, nell'Atto I, la Dante a 17 anni e, nell'Atto III, la Dante di oggi, con tanto di mèches bianche…
Le scene? Lo scenografo Peduzzi non è da meno, presentandoci sempre e puntualmente e immancabilmente e pervicacemente l'esatto contrario di ciò che il libretto prescrive (vecchio vizio questo, che si porta dietro dal lontano 1976, Ring del centenario a Bayreuth, e di cui non è andato immune col recente Tristan scaligero). Per la scena che apre l'Opera è stato – dal nostro – riciclato un pezzo dell'orrendo e tetro muraglione dell'altrettanto orrendo Tristan, tuttora custodito all'Ansaldo (così il sovrintendente ha potuto risparmiare qualcosa). Già questo dovrebbe far nascere dei sospetti. Dopodichè, se chiediamo a 100 persone come si immaginano la scena, avendo letto il libretto ed ascoltato la musica (un leggero allegretto in SIb, sul quale i militari se la spassano a guardare l'andirivieni dei passanti) 99 diranno che Peduzzi deve aver capito male, convinto di dover inscenare Il Castello di Barbablu. Oppure ancora che la scena debba essere stata estratta a sorte, pigliando un bigliettino dal cappello, fra altre 150-200 possibili, ma nessuna che avesse minimamente a che fare con l'oggetto del lucroso contratto con Lissner. Poteva uscirne indifferentemente una palestra di body-building, una stradina di Nieuwmarkt (ai tempi…) o il mercatino di Touggourt, una favela di SaoPaulo, o anche una delle banlieue tanto care a Sarkozy. I muri che troviamo nella Carmen di Bizet sono quelli della Siviglia del 1820 che – per l'epoca – dovevano essere di sicuro della massima modernità. Quelli di Peduzzi sono invece ciò che resta e si vede (o si vedrebbe oggi) di quei muri, dopo 200 anni! E ciò dicasi per tutte le scene dell'Opera. Una pura e semplice idiozìa. L'idea dei contrabbandieri-albero sarà di Dante o di Peduzzi? Di Duzzi o di Pedante? Fatto sta che è una ridicola parodia della foresta di Birnam (che qualcuno pensasse di dover inscenare Macbeth? chissà…)
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Conclusioni e morali?
Il recente scandalo di Zeffirelli, che contemporaneamente insulta la Dante ma fa ancor peggio di lei, decretando l'ostracismo contro cantanti pur graditi al Kapellmeister e ad una folla di ammiratori, è solo l'ultima dimostrazione dell'effetto deleterio indotto dal potere che da anni i sovrintendenti (e Lissner è solo un follower, in ciò) hanno assegnato a chi – invece di serviresi serve dei capolavori del teatro musicale per arricchirsi e/o ottenere notorietà, realizzando a buon mercato le proprie opere d'arte, o le proprie stronzate: i registi.
È ciò che abbiamo vissuto con questa Carmen: ci è stata propinata un'accozzaglia di banalità infantili, luoghi comuni, stupide allusioni, imbecillità travestite da intellettualismo. Un ciarpame che purtroppo il nostro infernale sistema farà immeritatamente sopravvivere in DVD, che apporteranno ulteriore miseria alla nostra già declinante cultura.
C'è solo da augurarsi che i giovani, i nostri figli - magari solo per ignoranza, beata, santa e benedetta, in questo caso! - scarichino in una cloaca tutta questa fuffa. E che i boiardi che siedono sulle sovrintendenze delle Fondazioni abbiano un sussulto di dignità.