trump-zelensky

quattro chiacchiere al petrus-bar
Visualizzazione post con etichetta osn. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta osn. Mostra tutti i post

04 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#8

Lungo la strada delle Sinfonie mahleriane siamo arrivati alla Quinta. Che è stata affidata (alla quarta replica in 4 giorni!) alle mani premurose di Robert Treviño a capo della OSN-RAI. Nelle cui file milita da qualche tempo la tromba di Alex Caruana, storica prima parte de laVerdi. (Giovedi scorso si era rivisto anche Max Crepaldi, primo flauto passato da pochi anni alla Scala. Dove alberga anche Eriko Tsuchihashi, che per anni fu la vice-Santaniello. Segno che la fucina di Largo Mahler sforna ottimi prodotti!)

Rispettando l’impaginazione del concerto dell’OSN, l’apertura è affidata a Charles Ives e alla sua breve The unanswered Question, che con Mahler ha qualche affinità… cronologica (è del 1908). Qui Ives intende presentarci – e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi:

1. l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori scena) che suonano lentamente (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) con valore di note che normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in poche occasioni scende alla semiminima;

2. la perenne domanda sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la tromba (isolata) ripete per sette volte; e

3. la ricerca della risposta (la caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.

Quale significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili interpretazioni (una di queste è del Direttore Treviño, intervistato prima dell’esecuzione torinese) ma, trattandosi di musica, a qualcuno questo breve brano apparve come una visione profetica di ciò che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi a quel 1908, e quindi contenere un messaggio profetico abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle risposte che la musica del futuro avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza. Nel 1973 il grande Lenny Bernstein apriva così il suo ciclo di lectures ad Harvard, intitolato precisamente al brano di Ives, e lo concludeva esponendo il suo credo nella tonalità e nelle serie armoniche!

Anche qui è stata proposta la stessa scenografia torinese: buio completo (salvo le lucine sui leggii), tromba solista (Roberto Rossi) fuori dalla sala e i flauti in balconata. L’effetto scenografico è sicuramente suggestivo, quello musicale (al netto della qualità degli esecutori) francamente discutibile. 
___

La Quinta mahleriana è normalmente etichettata come la prima di un ciclo di tre (insieme a Sesta e Settima) perchè segnerebbe il punto di dipartita di Mahler dal fanciullesco-folklorico mondo del Wunderhorn al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder (con e/o senza voce) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei suoi primi anni da compositore.

La Quinta segnerebbe quindi l’aprirsi di una nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla forma (ad esempio l’impiego del contrappunto e quello del Rondò). E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi. Anche il prezioso libro Tutto Mahler, curato da Gastón Fournier-Facio in occasione del Festival, indirettamente avalla questa tesi, separando il Capitolo dedicato alla Quarta da quello che tratta della Quinta con un Intermezzo sui Lieder di Rückert.

Peccato che si tratti di una tesi ampiamente contraddetta (non certo da me, ma da personalità quali Ugo Duse, autore della prima e ancor oggi fondamentale monografia italiana su Mahler; e da H.L. de La Grange, che su Mahler ha scritto qualcosa come 3600 pagine!!!) proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi per iscritto già ai tempi della composizione di quei precedenti lavori, addirittura dai tempi della Terza (!) come documenta un abbozzo della struttura della Quarta Sinfonia che Mahler chiamò Humoreske, sei movimenti, di cui solo il primo, il terzo e l’ultimo restarono poi nella Quarta; degli altri: Das irdische Leben fu espunto, Morgenglocken divenne il 5° movimento della Terza; e Die Welt ohne Schwere diverrà lo Scherzo della Quinta!

Dove poi troviamo quelle iniziali terzine di trombetta che già avevano fatto una fugace comparsa nel primo movimento della Quarta, alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è una riedizione della Totenfeier dalla quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Come detto, lo Scherzo in RE maggiore fu pensato in origine come 5° movimento della Quarta sinfonia…

Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che la marcia funebre del primo movimento richiama quelle dei tamburini del Wunderhorn (di Revelge poi è una chiara citazione nel finale, al numero 29 negli strumentini). Inoltre, il quinto ed ultimo movimento riprende esplicitamente Lob des hohen Verstandes (l’acuta intelligenza di un... asino!) sempre dal Wunderhorn. 

E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta, poi (surrettiziamente) con l’Ottava, e infine con la Nona, mantenendo invece per Settima e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale nel secondo movimento, l’interminabile tiritera del corno obbligato nello Scherzo (parente di quella della cornetta da postiglione della Terza) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...    

È ben vero che Mahler stesso parlò più volte, a proposito di quest’opera, di un suo nuovo stile, che peraltro non si manifestò mai compiutamente, se già prima della pubblicazione Mahler mise drasticamente mano all’orchestrazione (percussioni, in particolare) sull’onda delle pesanti critiche di Alma! E se ancora dopo il Lied von der Erde e la Nona Mahler si vide costretto ad altri ritocchi.

Insomma, suddividere la produzione di Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo (evoluzione vs rivoluzione) quasi che i Lieder, le dieci Sinfonie (più il Lied von der Erde) costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento sinfonico. 

Chiudo riproponendo alcune citazioni e aneddoti riguardanti questa Sinfonia.

Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell’incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: “Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l’originalità né dell’uno né dell’altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest’altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L’idea di un’esecuzione a Torino è da scartarsi.” 

Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra

A proposito di Richard Strauss, ecco il suo giudizio, positivo, ma con qualche frecciatina. Scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: “La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un’immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po’ troppo lungo…

Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: “La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l’Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria.

___

O.T. Se ascoltiamo l’intervista di Susanna Franchi a Treviño dobbiamo rilevare un clamoroso lapsus dell’intervistatrice, che nella sua traduzione dall’inglese mette in bocca al Maestro una grande stupidaggine: tutta la Sinfonia sarebbe in tonalità Maggiore (!?) Quando è chiaro che il malcapitato Treviño si sta riferendo solo all’ultimo movimento! (Ed è la RAI ancora non impoverita da Meloni&C…)

Ormai dal Maestro mexico-texano ci possiamo solo aspettare grandi cose, e questo pomeriggio siamo stati del tutto accontentati! Del resto già l’ascolto dell’esecuzione torinese aveva mostrato la qualità del Direttore e della sua lettura dell’opera, oltre a quella, scontata, dell’Orchestra. Oggi addirittura mi pare di aver sentito ulteriori miglioramenti, e non saprei proprio trovare nemmeno il classico pelo nell’uovo.

Alla fine pubblico (oceanico) in autentico delirio, con ovazioni speciali per il corno di Ettore Bongiovanni e la tromba di Roberto Rossi.

24 agosto, 2023

ROF-44 in piazza – Petite Messe Solennelle

Confesso che l’idea di recarmi una quarta volta in pochi giorni alla decentrata quanto cacofonica (applico all’architettura alle vongole una categoria della musica…) Vitrifrigo Arena (arrivandoci e ripartendoci in auto da Rimini) senza invece fare almeno una volta quattro passi per la bella Pesaro (arrivandoci comodamente in treno) è stata la molla principale che mi ha convinto a rinunciare alla presenza dal vivo per la PMS e a godermi, oltretutto a-gratis (limitazioni incluse, ovviamente…) lo spettacolo dalla Piazza del Popolo, dove da anni viene regolarmente diffuso in streaming il concerto che chiude il Festival. Almeno 5-600 le persone che hanno seguito così l’evento.

Un paio di osservazioni, diciamo così, tecniche, sull'esecuzione: la prima riguarda il famoso Prélude Religieux che, dopo due esecuzioni nella versione spuria (quella orchestrata dal compianto Alberto Zedda) è tornato – opportunamente, direi proprio - all’originale nel solo organo, magistralmente suonato da Nicola Lamon. (Qui un mio post del 2014 sull’argomento.) L’altra riguarda l’associazione dei solisti alle parti cantate dal coro: Rossini l’aveva prevista in alcuni numeri, forse perché il coro delle prime esecuzioni era davvero ridotto all’osso; qui al ROF, come sempre, anche ieri i solisti non si sono aggregati.

Ovviamente (va sempre ripetuto) l’ascolto tecnologico non permette di formulare giudizi compiuti sui suoni, ma qualcosa si può comunque osservare, ad esempio le agogiche tenute dal Direttore. E qui devo dire che il profeta-in-patria Michele Mariotti, che tornava al ROF dopo 4 anni (Semiramide 2019) e debuttava nella PMS non mi ha del tutto convinto: avendo tenuto tempi (per me) troppo sostenuti e slentati, come del resto testimoniano i 90’ netti di durata dell’esecuzione (se confrontati ad esempio con i 78’ di questo impeccabile Chailly).    

Sui suoi standard di eccellenza l’OSN-RAI, che invece suonava per la seconda volta (al ROF, s’intende) la Messa, avendola già eseguita nella precedente apparizione del 2018. 

Il Coro del Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina era al primo approccio di quest’opera, dopo aver cantato di recente in due Stabat Mater (2017-21) e non ha tradito le attese. Invero trascinanti, in particolare, i monumentali passaggi fugati del Cum Sancto Spiritus e del Credo (l’Allegro cristiano!) dove finalmente Mariotti ha allentato un po’ le briglie…

Tutti da elogiare i solisti, a partire da Vasilisa Berzhanskaya, di ritorno al ROF dopo due anni: nel 2021 aveva trionfato come Sinaide nel Moise e a seguire aveva cantato lo Stabat Mater nell’edizione in forma scenica diretta da Bignamini. Davvero rimarchevole la sua prestazione, culminata nell’accorata implorazione dell’Agnus Dei.

Bene anche Rosa Feola, debuttante al ROF, che ha illustrato con calore il Crocifixus e l’O Salutaris. Le due si sono anche distinte insieme nel Qui Tollis.

Dmitry Korchak faceva parte del quartetto protagonista della penultima apparizione della PMS, nel 2014, sotto la direzione di Zedda. Efficace, stentoreo e cesellato il suo Domine deus.

Giorgi Manoshvili era al suo primo impegno importante al ROF. Più che buono il suo Quoniam, per profondità e portamento. Voce potente, ma magari qualche decibel in più non guasterebbe, proprio sulle note più… basse.

Grandi applausi per tutti e conclusione in… gloria. 
___
Bene, archiviato anche il 44, ci si prepara al 45, che dovrà essere proprio speciale, essendo naturalmente la colonna portante dell’evento Pesaro: capitale italiana della cultura 2024… E l’annuncio divulgato già la sera dell’11 lo conferma, almeno sotto l’aspetto quantitativo: 4 titoli (e non 3 come uso ormai consolidato) e cioè Ermione (terza produzione, dopo 1987 e 2008); Bianca&Falliero (quarta apparizione, dopo 1986, 1989 e 2005); Barbiere di Siviglia (diventerà recordman di apparizioni, 7, dopo 1992, 1997, 2005, 2011©, 2014 e 2018); e infine L’Equivoco stravagante (quarta presenza dopo 2002, 2008 e 2019).

Uno sforzo davvero notevole, cui si aggiungerà la chiusura del Festival con Il Viaggio a Reims che celebrerà i 40 anni da quella produzione del 1984 entrata nella storia grazie alla stratosferica coppia Abbado-Ronconi.

Ora non resta da fare che un’implorazione… no, che dico, un’intimazione ai politici locali (e non):

riportate il Festival in città, cazzo!

17 agosto, 2023

ROF-44 live – Nedda di Borgogna


Il mio tour per le visioni live (tipica frase nell’idioma italico…) delle tre opere in cartellone di questo ROF è organizzato a ritroso: quindi ho iniziato ieri (in un’Arena occupata per non più dell’80%) da Adelaide di Borgogna, che è una nuova produzione, la seconda nella storia del ROF dopo quella del 2011, allora affidata a Pier’Alli. La registrazione video (mutilata della Sinfonia) è disponibile su youtube e fu effettuata al Teatro Rossini proprio alla rappresentazione del 16 agosto, quando ero anch’io presente e alla quale si riferiscono alcune mie note di commento. 

Il titolo del post si spiega ovviamente in riferimento alla regìa di Arnaud Bernard. Che ha impiegato il trucco, vecchio quanto il… teatro, di mostrarci appunto un soggetto di teatro-nel-teatro, con totale commistione fra l’ambiente (falso e bugiardo per definizione) del teatro e quello, vero, prosaico e a volte miserevole, della vita di ogni santo giorno. Così lo spettacolo è infarcito di mille dettagli che nulla hanno a che vedere con il serioso soggetto originale, ma molto con l’avanspettacolo: screzi fra cantanti e fra interpreti e regista, intoppi di ogni tipo alle prove dell’opera e soprattutto privati amoreggiamenti e tradimenti. Insomma, per tornare al titolo del post, vediamo in scena un soggetto di cui è esempio preclaro il lavoro di Leoncavallo.

 

Peccato che per quest’ultimo il soggetto intendesse programmaticamente presentare la citata commistione fra teatro e vita. Nulla di più lontano quindi dalle intenzioni e dagli obiettivi di Rossini e del suo librettista Giovanni Schmidt. Ergo possiamo dire, senza tema di smentite e rimanendo perfettamente seri, che questa produzione è una (simpatica perchè incruenta?) pagliacciata!

___

Venendo a cose serie, il povero Francesco Lanzillotta è stato vittima di un incidente stradale, in moto, che gli è costato qualche frattura. Perciò ha dovuto dare forfait per le tre restanti recite e sul podio è salito il promettente Enrico Lombardi che, come spesso accade a chi viene inopinatamente catapultato alla ribalta (e così anni fa fu proprio per Lanzillotta chiamato a sostituire Chung), ha sfruttato a meraviglia l’occasione per confermare le sue doti, con una direzione sicura e autorevole.


L’OSN-RAI lo ha assecondato (o forse… guidato?) nell’impresa. Così come il coro di Farina del Ventidio Basso, cui ci verrebbe da rimproverare qualche (ehm…) sfasatura, non fosse che fosse la volta bbuona anch’essa parte dei trucchi del regista!!!

 

Prima di dire delle voci soliste, va premesso che – come sempre - dal vivo le cose appaiono (o si sentono, nella fattispecie) sotto-dimensionate rispetto a quanto contrabbandato dalle riprese tecnologiche (microfoni-in-bocca). Ma i maschi (e insomma, diamogli ciò che è loro diritto naturale, una volta tanto) hanno tenuto gagliardamente botta: primo fra… due Riccardo Fassi, un Berengario che si sentiva anche da… Rimini; ma anche l’Adelberto di Renè Barbera, che ha sfoggiato tutto ciò che gli è concesso da madre natura.

 

Non proprio così le due femminucce (Peretyatko e Abrahamyan) protagoniste della relazione LGBTQ+, che hanno mostrato qualche problemino nella cosiddetta ottava bassa

 

Ma infine per tutti c’è stato un meritato trionfo (insomma, 7-8 minuti totali) che ripaga il cast (un po’ meno il regista…) dell’abnegazione dimostrata nell’affrontare disgrazie, sia quelle programmate che quelle materializzatesi on-the job.

17 agosto, 2022

ROF-43 live: Le Comte Ory

Terza recita, ieri sera alla Vitrifrigo Arena, de Le Comte Ory, nella nuova produzione targata DeAna-Matheuz. Qui l'audio della precedente realizzazione del 2009. Qui invece l’audio della prima del 9 scorso.

Vitrifrigo Arena non propriamente esaurita, ma abbastanza densamente popolata da un pubblico ben… caricato.

Che cosa sia, in termini di genere, quest’opera è cosa a prima vista inafferrabile, tanto che musicologi e critici si sono spesso divisi su come battezzarla. Due eccellenti saggi (a firma di Emanuele Senici e Mark Everist) comparsi sul programma di sala del ROF ci aiutano a districarci in questa specie di labirinto.

Intanto: l’Ory, pur essendo stato espressamente commissionato e messo in scena dall’Académie Royale (aka l’Opéra) manca dei principali requisiti imprescindibilmente prescritti dal capitolato tecnico del Teatro in fatto di GrandOpéra: è in soli 2 atti (anziché 4 o 5); non prevede alcun balletto; ed infine ha un soggetto lontano le mille miglia da quello (a sfondo storico-epico) tipico di questo genere e più vicino caso mai (per struttura e contenuti) all’Italiana o al Barbiere o al Turco...

E allora come si spiega l’arcano? Col fatto che a Parigi stava prendendo piede, accanto al GrandOpéra, anche il PetitOpéra! Magari ottenuto per spacchettamento (via i balletti) di opere esistenti o, come nel caso dell’Ory, per riproposizione di musiche composte per altre opere (qui Il Viaggio a Reims) per supportare nuovi soggetti, facendone quindi la parodia. Opere quindi relativamente brevi che venivano poi rappresentate in abbinamento a balletti totalmente indipendenti nel contenuto: tutte le recite dell’Ory del 1828 (la prima e 9 repliche) furono immancabilmente appaiate a (6 diversi!) balletti.

Quanto al concetto di parodia, esso era inteso nel duplice significato di rivisitazione del contenuto musicale e di sdrammatizzazione o dissacrazione del soggetto. E l’Ory altro non è che una grandiosa parodia: travestimenti (Ory per primo, poi tutti i suoi compari); scambi di persona e qui-pro-quo (il terzetto finale) che sono elementi tipici della farsa; banalizzazione e ridicolizzazione di situazioni drammatiche (l’esplorazione dei sotterranei del castello da parte di Raimbaud, che ha contorni spaventevoli ma porta alla scoperta di una catasta di fiaschi e bottiglie di vino); comportamenti totalmente difformi dalle esternazioni dei personaggi (primo fra tutti, la Comtesse, ma anche il Gouverneur e Ragonde…)

Bene, a che scopo tutto ‘sto po’po’ di tormentone? Per definire non meno che geniale l’impostazione registica del mitico Hugo De Ana!

Che ha colto in pieno l’intima essenza e lo spirito dell’opera, restituendocela in tutto il suo irresistibile fascino. Si è ispirato per le scene (e in parte i costumi) al celebre trittico di Hieronymus Bosch del Giardino delle delizie, del quale compare subito in formato gigantesco il pannello di sinistra mentre la scena è occupata più spesso da elementi della parte mediana del pannello di destra (l’Inferno musicale, non a caso) ma anche di quello centrale.

Il trittico è una rappresentazione, dei concetti di ogni religione che si rispetti, oltre che della musica secolare e profana. Non è fuori luogo considerarlo una (involontaria?) parodia delle vicende umane e calza quindi come un guanto sul soggetto dell’Ory.

Il Conte, travestito da eremita, mostra in testa un paio di cornetti da diavolo; al momento del riconoscimento, scoprirà il suo vero abbigliamento da satana tentatore; poi catechizzerà Isolier munito delle due tavole mosaiche della legge, con i 10 comandamenti che si illuminano a comando.

La Comtesse esprime concetti quali fedeltà, rigore morale, austerità, sobrietà… nel mentre si comporta come una donna in cerca di… manico, con atteggiamenti ed abbigliamenti allusivi e provocanti (persino un accenno di pole-dance per Ory). Non parliamo della Ragonde, custode del castello e delle sue virtù, che invece organizza pellegrinaggi dal falso eremita per le mogli e fidanzate dei crociati lontani, in cerca di piaceri secolari.

Il Gouverneur si presenta come severo tutore del Conte, facendo fallire il suo primo approccio verso la Contessa; ma poi lo scopriamo in mezzo alla banda dei gaudenti amici di Ory nell’assalto alle donne del castello.

Il primo atto si svolge in un’atmosfera esilarante, occupato da masse femminili in costumi dai colori sgargianti, che si muovono (vedi la polonaise) in un giardino di delizie fatto di ortaggi e altre cibarie, messe in carrelli del vicino Spazio Conad…  

Il secondo atto si distingue per le scene dei bagordi di Ory&soci, interrotte dall’arrivo di Ragonde, che provoca la sparizione istantanea di bottiglie e fiaschi e la comparsa di luminose aureole sul capo delle finte monache.

Che dire del famoso trio? Lo vediamo in piena luce me le mosse dei tre protagonisti sono proprio quelle che si possono facilmente immaginare data la situazione di totale oscurità prevista dal libretto: con il povero Ory che è preso in mezzo da due donne (sì, perché anche Isolier lo è nella realtà anagrafica…) il che rappresenta il culmine della parodia!   

Insomma, tutta la messinscena merita una lode incondizionata, per il gusto e il garbo che mai scadono a volgarità (ricordo con ribrezzo una produzione di Pelly passata anche in Scala anni orsono) e sono certo che gli applausi del pubblico siano andati virtualmente anche al regista, pur assente alle chiamate finali.
___
Anche sul fronte sonoro-canoro, buone se non ottime notizie. A cominciare da Matheuz, che alla radio mi era parso un tantino pesantuccio e che invece ieri ha ottenuto dai professori della OSN-RAI un risultato di tutto rispetto, per varietà di sfumature e adarenza allo spirito scanzonato della partitura. Il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina ha da parte sua movimentato le brillanti scene d’insieme che costellano la partitura con apprezzabile qualità.

JDF è prevedibilmente stato il mattatore della serata: la voce cambia (non necessariamente in peggio) con gli anni e… il repertorio, ma insomma il nuovo Direttore artistico del ROF ha dimostrato di aver ancora molto, moltissimo da dire cantare anche in futuro!

Accanto a lui Julie Fuchs ha confermato in pieno (ed anzi in meglio) ciò che di buono aveva sciorinato alla prima: a teatro si sono potute ammirare ed apprezzare anche le sue innegabili doti di attrice, perfetta nella parodistica interpretazione della donna pia che nasconde un’eccezionale carica sensuale.  

Monica Bacelli poco meno che perfetta in Ragonde, e non solo per la presenza scenica, ma anche per la voce, che evidentemente non conosce età…

La travestita (come Isolier) Maria Kataeva ha ricevuto meritati consensi del pubblico, che l’hanno ripagata di una prestazione davvero all’altezza, un perfetto connubio di vocalità e presenza scenica. Anna-Doris Capitelli ha dato il suo piccolo ma importante contributo al successo dello spettacolo.  

Resta da dire dei due bassi della compagnia. Entrambi da elogiare, il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, convincente in particolare nella sua esternazione del second’atto; e Nahuel Di Pierro, un Gouverneur che ieri mi è parso più a punto rispetto alla prima udita in radio.
___
Concludo ribadendo il giudizio complessivamente positivo sulla serata, 10 e lode a De Ana e voti comunque alti a tutti gli altri protagonisti.

10 agosto, 2021

ROF via radio

Moïse et Pharaon ha aperto ieri sera il ROF-42, tornato alla piena normalità di programmazione, anche se ancora dimezzato nei... posti a teatro. La mia impressione dalla ripresa di Radio3 è decisamente positiva. Voci (coro incluso) tutte all’altezza e Orchestra RAI in grande spolvero - a nozze poi nell'interminabile intermezzo sinfonico della Festa di Iside - diretta da un ottimo Sagripanti.

Pare che il pubblico abbia anche gradito la messinscena del ragazzo novantenne Pizzi, che si dice abbia ambientato la vicenda in Egitto e - alla fine - nella terra promessa. Quindi precisamente come si legge sul libretto... E anche un’altra novantenne, la senatrice Segre, pare che abbia apprezzato, non risprmiandosi - al microfono di Bossini - una frecciatina (moderata, perchè non si parla male dei morti!) al dedicatario di questo ROF, quel Graham Vick che in anni recenti deve averla parecchio irritata con le sue interpretazioni, ehm... originali.

Quindi spero proprio che l’impressione venga confermata fra qualche giorno dall’ascolto-visione live, di cui riferirò.

22 aprile, 2021

Brahms da Torino e Milano

In attesa di capire che succederà dal 26 in fatto di musica in presenza, continuiamo ad accontentarci di quella in... assenza.

Poco fa da Torino abbiamo potuto ascoltare e vedere l’OSN RAI che ci ha proposto due esecuzioni a mio giudizio (sempre con i limiti legati all’ascolto tecnologico) di grande livello: la Terza (soprattutto, per me) e la Prima di Brahms dirette da Daniele Gatti, che ritornerà il 29 per completare il ciclo con Seconda e Quarta.

Domani laVerdi prosegue a sua volta il suo ciclo sinfonico di Brahms propio con la Terza diretta da Flor, ciclo che si chiuderà a maggio con la Quarta.


20 agosto, 2019

ROF-XL live: L’equivoco stravagante


Ieri alla Vitrifrigo arena (non proprio esaurita) terza recita de L’equivoco stravagante. Non ho ancora visto il Demetrio (che però ricordo bene dal 2010) ma mi sento di affermare senza tema di smentita che lo spettacolo cui ho assistito ieri è di gran lunga il migliore di questo ROF e forse uno dei migliori in assoluto nella storia del Festival.

Con i soggetti seri o tragici il rischio che si corre oggi è di trovare un regista che si diverte (lui solo, però) ad interpretarli in modo diciamo... personale, spesso creando autentici mostri, come è accaduto proprio qui a Vick con la Semiramide. E come accadde anche a SantAmbrogio 2015 alla coppia Leiser-Caurier, responsabili di una Giovanna d’Arco invero... invereconda.

Viceversa, con le opere leggere (drammi giocosi, farse) il rischio è che vengano trasformate in volgari pezzi da avanspettacolo, e l’Equivoco ci si presta benissimo, con quel testo che Gasbarri infarcì (peraltro con raffinato humor) di doppi sensi, battute salaci e ammiccamenti da barzelletta sporca. Ci vorrebbe poco a trasformare l’opera in una goliardata tipo Ifigonia in Culide, ecco.

E invece - sorpresa sorpresa - il due registi hanno messo in piedi uno spettacolo di alto livello, senza mai cadere nel grossolano e nel becero, ma mantenendolo sempre su un piano di eleganza e buon gusto che davvero ha conquistato il pubblico.

Sobria ma intelligente ed efficace la scenografia di Christian Fenouillat: scena praticamente fissa, incorniciata come un grande quadro, nella casa di Gamberotto; pochissime suppellettili (tre sedie, un letto per parte del second’atto e nulla più); un (apparente) quadro gigante, raffigurante un paesaggio rurale con vacche pascolanti, che però si rivela essere un finestrone affacciato sulla campagna: lì circoleranno Ermanno ed Ernestina dopo la fuga dalla casamatta e soldati e servitori. Una quinta sulla destra della scena si apre temporaneamente per creare l’oscuro e angusto spazio della prigione in cui è chiusa Ernestina, poi liberata da Ermanno. Eleganti e simpatici i costumi di Agostino Cavalca. Elementari, ma ben gestite da Christophe Forey, le luci.

Molto curata la recitazione dei personaggi: Ernestina in particolare è efficacemente presentata come una ragazza un po’ snob, abbigliata (nella sua immaginazione) come una principessa e alla quale la cultura deve aver creato più complessi che maturità. Gamberotto e Buralicchio sono due ricchi, il primo però è un parvenu, grazie a tanto olio di gomito; l’altro probabilmente un nullafacente figlio-di-papà. Ermanno è il (futuro) Nemorino della situazione. Centrate anche le figure dei due domestici-amanti Frontino (che non si capisce dal libretto per quali ragioni sia confidente ed alleato del povero Ermanno) e Rosalia. Appropriati ed intelligenti i movimenti dei 14 coristi maschi, ora impersonanti la servitù di Gamberotto, ora i militari della guarnigione. Tutti i protagonisti sono dotati di lunghi nasi alla Cyrano, dei quali si disferanno platealmente sull’ultimo accordo di SIb maggiore dell’orchestra. 

In definitiva, un allestimento di gran classe (che sembra evocare certi spettacoli di Ponnelle...) che il pubblico ha mostrato di apprezzare assai. E che è auspicabile venga ripreso al ROF negli anni a venire.
___
Ma altrettanto se non maggiore apprezzamento è andato alla prestazione musicale, che ha valorizzato in pieno questa partitura colma di cavatine, ariette, concertati e cori con la quale Rossini inaugurò la consuetudine dell’auto-imprestito, sia in... entrata (passaggi dal Demetrio e l’intera Sinfonia, più altri brani, dalla Cambiale); e poi (complice lo stop imposto all’Equivoco dalla censura) in... uscita, verso il vicino Inganno, ma anche verso una mezza dozzina di opere successive.

Le voci mi son parse tutte all’altezza del compito. Una classifica va comunque fatta (e l’ha fatta anche il pubblico con l’applausometro). Io ci metto in cima la Teresa Iervolino, che ha messo in mostra la sua bella voce contraltile, coniugata ad una efficace resa della bizzarra personalità della protagonista.

Poi Davide Luciano, un Buralicchio assai apprezzabile per sonorità e corposità di timbro. Con lui, benissimo l’ormai veterano Paolo Bordogna, una sicurezza assoluta in questi ruoli di buffo (dal 2005 ne ha interpretati qui quasi una dozzina!)

Pavel Kolgatin ha una voce piccola e con un timbro un pò chioccio, ma se l’è cavata più che discretamente, in una parte che non presenta le proverbiali arditezze cui Rossini costringerà i tenori in futuro.

Assai bene anche i due servitori-lenoni Claudia Musco e Manuel Amati. Perfetti i 14 esponenti del Ventidio Basso diretti da Giovanni Farina.

Carlo Rizzi ha guidato con sicurezza la splendida OSN-RAI (menzione speciale per il corno di Giovanni Urso nella Sinfonia). Dal Direttore avrei gradito solo un filino in più di verve nei passaggi più... tranquilli, ecco.

Per tutti applausi a scena aperta dopo (e anche all’interno di) ogni numero e poi finali ovazioni e ripetute chiamate al proscenio.

18 agosto, 2019

ROF-XL live: Semiramide, ovvero: Vick in galera!


Eccomi quindi a commentare la (terza recita di) Semiramide, in una Vitrifrigo-Arena con diverse poltrone vuote.

Ascoltare uno dei più grandi monumenti musicali di ogni tempo più che discretamente eseguito da Direttore, Orchestra e Voci, ma rappresentato in scena come un esercizio da oratorio parrocchiale non è proprio il massimo... ma si sa, i Festival son fatti per stupire e scandalizzare (o almeno così dice la vulgata). Quindi take-it-easy e ridiamoci sopra!

Testuali parole di Vick: Nel 2019 mi pare imbarazzante fare l'imitazione di un uomo interpretato da una donna, magari con le gambe aperte. È una convenzione tramontata.

Ah davvero? A parte il fatto che il nostro mondo del 2019 (e la tendenza è a crescere...) è pieno di travestiti nobili e proletari, ricchi e poveri, e di gente che cerca la loro compagnia, dall’imbambagiato in Ferrari Lapo Elkann al più sfigato dei derelitti, e quindi non si vede cosa ci sarebbe di imbarazzante in tutto ciò... il problema, caro il mio Graham, è di una semplicità disarmante: It’s the music, stupid!

Tu, caro Grahm, sarai anche un grande uomo di teatro (nessuno te lo nega) ma di MUSICA  capisci poco o nulla, o meglio, temo io, tu la musica - questa, per lo meno - la disprezzi! Come hai fatto, sempre qui a Pesaro nel 2011, impiegando quella del Mosè per rifilarci la storia della nascita dello Stato di Israele (Mosè=Jabotinski!) e nel 2013 travisando completamente l’estetica del Tell, ridotto a strumento di propaganda politico-ideologica di bassa lega.   

E quindi - tanto per limitarci a Rossini - immagino che sarai ben lieto in futuro di farci conoscere (basta che ti appaltino, a fronte di laute parcelle pagate da NOI, la regìa delle rispettive opere) anche l’eroina Tancreda, la regina Cira di Babilonia, la regina sfigata Sigismonda, la Pippa della Gazza ladra... e mi fermo qui per non coprire di ridicolo un’altra mezza dozzina di straordinari protagonisti en-travesti di opere del Gioachino. Che per te era evidentemente un depravato sessuale il quale, rimasto a secco con i poveri castrati, rivolse le sue morbose attenzioni ad altri esemplari targati LGBT...  Ascpide! L’idea che la scelta delle voci cui affidare i caratteri dei personaggi fosse per Rossini di natura squisitamente estetica non ti sfiora nemmeno, vero? Oppure, dato che l’estetica può cambiare - e cambia - nel tempo, ecco che tu ti permetti allegramente di adulterare l’opera originale per adattarla ad una presunta estetica di oggi! Quindi metti un piercing alla Gioconda e il tanga alla Primavera! Apperò! La tua Semiramide si trasforma nella storia in una catena lesbica: Semiramide-Arsace e Arsace-Azema. Geniale!
___
Ma Arsace femmina è solo la punta dell’iceberg del colossale travisamento del soggetto perpetrato dal regista albionico che - forse per ammortizzare i costi delle sue fatiche - deve aver trattato Semiramide come corollario della Tote Stadt da lui recentemente inscenata alla Scala: tutta Freud, complessi edipici, visioni oniriche, isterie, allucinazioni (ma là ci stava bene, trovandosi precisamente nel libretto, prima che nella musica!) Il tutto in una strampalata ambientazione moderna, altro che la sontuosa e sfarzosa Babilonia! E dove il tragico, il magico e il soprannaturale - non si è sempre detto che con Semiramide Rossini abbandonò il suo innivativo modello di opera seria sperimentato a Napoli per tornare al tardo-barocco? - cedono il posto alla più ritrita riproposizione freudiana di turbe psichiche ingenerate in un infante, per il resto alle prese con orsacchiotti e gessetti: questo per spiegarci una... belinata, cioè come Arsace sia stato testimone oculare dell’omicidio del padre (azione oltretutto cruenta, come mostra il coltellaccio che lui pargoletto vede nelle mani insanguinate della madre!) e come quel ricordo continui ad emergere dal suo subconscio. Auto-imprestito, si dovrebbe dire (visto che siamo da Rossini): avendo Vick copiato se stesso, vedi l’Arnold del suo Tell che guarda i filmetti dell’infanzia. Così Arsace diventa ossessionato dal desiderio di vendicare la madre, cosa che finalmente gli riuscirà: e lo farà in piena luce, avendola ben visibilmente a tiro, non certo per sbaglio (mano divina) e nella completa oscurità del mausoleo di Nino.

In poche parole: una storia inventata di sana pianta, che contraddice alla grande il testo di Rossi (dove Arsace fino all’ultimo rifiuta ritorsioni sulla madre per rivolgere la sua sete di vendetta esclusivamente su Assur) e - soprattutto - la MUSICA di Rossini, che a quel testo e a quel soggetto si è mirabilmente ispirata. Se a Rossini fosse stata mostrata la messinscena di Vick, ammesso che non fosse scoppiato a ridere ed avesse acconsentito a musicarla, vi avrebbe composto musica totalmente diversa da quella che scrisse per la tragedia di Rossi, mutuata da Voltaire, se ne può star certi.

Oh, in certi momenti Vick è però rispettosissimo del libretto, come quando, nel drammatico confronto fra Semiramide e Assur del second’atto (da lui peraltro trasformato in una scena-di-petting-sul-divano da filmetto osé) ci mostra lei che, cantando La forza primiera ripiglia il mio core, Regina e guerriera punirti saprò, afferra e strizza ben bene i... coglioni di Assur! Quale poesia, quanta profondità di scavo psicologico...

Insomma, non saprei se definire questo spettacolo come irridente o irrispettoso, dissacrante o provocatorio, o semplicemente... una sciocchezza.   
___
Beh, chiuso il discorso sulla carnevalata, veniamo alle cose serie, e per fortuna ad aspetti che giustificano (alle mie orecchie, per lo meno, visto che gli occhi sono stati... torturati) la spesa del biglietto. Mariotti si conferma ormai solido interprete di queste impervie partiture rossiniane, guidando la OSN-RAI con il suo proverbiale (quanto abbadiano) gesto della mano sinistra a dettare attacchi e sfumature. Cosa che fa anche con le voci, quasi sempre rispettate (cioè non coperte da fracassi orchestrali) e in particolare con i cori, che qui hanno un ruolo da protagonisti. E il Coro di Giovannni Farina si è da parte sua distinto in tutte le diverse apparizioni e configurazioni, meritandosi un lungo applauso alla riapertura del sipario dopo la fine dell’opera.

La voce che mi ha più impressionato è stata quella di Carlo Cigni (Oroe): grande potenza e profondità, ha piacevolmente invaso gli spazi dell’Arena, caratterizzando al meglio il personaggio del santone talebano che pilota tutta la vicenda, fino al suo tragico epilogo.

La diffusione radiofonica tende ad appiattire tutto, ed anche in questo caso è stato così: voci che dall’etere parevano corpose, dal vivo si rivelano assai meno penetranti. Così è stato per Nahuel Di Pierro, oltretutto esibitosi in alcuni schiamazzi molesti. Nel duetto del primo atto con Arsace, forse temendo di calare, ha invece stonato parecchio per eccesso, con acuti francamente sgradevoli. A lui darò una sufficienza risicata.

Salome Jicia è pure rimasta un filino al di sotto rispetto a quanto udito per radio alla prima: una prestazione onorevole la sua, ma inquinata da alcuni acuti sparati alla sperindio e da un paio di virtuosismi piuttosto approssimativi.

Meglio di lei Varduhi Abrahamyan, la cui voce dal vivo mi è apparsa meno penetrante, ma sempre ben impostata e senza sbavature. Si notano comunque progressi evidenti rispetto al suo esordio di qualche anno fa, quando vestì i panni di Malcom: segno che il mezzosoprano armeno non sta dormendo sugli allori...

Il trionfatore della serata è stato curiosamente... l’intruso (parlando di soggetto letterario): l’Idreno di Antonino Siragusa, che rivaleggia, anche per vetustà di presenza al ROF) con il leggendario JDF. Ha sciorinato le sue due arie con grande sicurezza, ricevendo lunghe ovazioni a scena aperta. La sfilza di DO, RE e DO# acuti (scritti dal signor Rossini o dalla signora... tradizione) gli è uscita alla grande, sia pur non senza evidenti sforzi.

Su discreti standard gli altri interpreti, che metterei in quest’ordine di merito (anche rispetto alla consistenza delle parti): Alessandro Luciano, Sergey Artamonov e Martiniana Antonie.

Per tutti accoglienza assai calorosa, con punte trionfali per Siragusa e Mariotti. Vick... non pervenuto.

20 settembre, 2018

MI-TO al capolinea



Il MI-TO 2018 ha chiuso ieri a Milano con un concerto al Dal Verme, che replicava quello torinese della sera precedente, all’Auditorium Toscanini. Sala non proprio ricolma; sul podio il sempre più convincente Stanislav Kochanovsky, alla guida della OSN-RAI.


Con lui il grande Enrico Dindo che - dopo la sempre interessante e colta introduzione di Gaia Varon - si è esibito in quel particolarissimo Concerto per violoncello (, fisarmonica, percussioni) e orchestra che va sotto il nome di Azul, composto nel 2006 da Osvaldo Noé Golijov, ebreo argentino di origini rumeno-ukraine (58 anni il prossimo 5 dicembre) trapiantato a Boston.
___
Opera fascinosa e accattivante, ispirata da esperienze vissute dal compositore (letture di Neruda, lo spettacolo del pianeta visto dalla stazione orbitante, l’Intifada del 2000) ma che si fa apprezzare come musica pura, un festival di suoni che appagano l’orecchio e toccano il cuore.

La struttura è in quattro movimenti - di quasi pari durata, 6-8 minuti ciascuno - che si legano senza soluzione di continuità, e i cui sottotitoli richiamano vagamente le fonti di ispirazione del lavoro. Sorprendente la semplicità dei piani armonici: con poche eccezioni, tutto il concerto si muove nelle zone tonali fra il DO e il SOL! Senza per questo indurre mai sensazioni di monotonia.     

Originariamente dedicato a Yo-Yo Ma, che lo suonò alla prima assoluta del 2006 a Tanglewood e che ne ha interpretato anche la versione riveduta, incidendola nel 2016,  il concerto è stato poi eseguito da diversi interpreti in diverse parti del mondo. Qui una performance a Buenos Aires nel 2017, introdotta da interventi dell’Autore, della Direttora d’orchestra e dei due solisti:

I. Paz Sulfúrica (21’36”) ispirato dal Macchu Picchu di Pablo Neruda, precisamente da un passaggio dell’ultima quartina della prima delle 12 parti del poema:

Puse la frente entre las olas profundas,
descendí como gota entre la
paz sulfúrica,
y, como un ciego, regresé al jazmín
de la gastada primavera humana.

Il violoncello suona ininterrottamente, alternando melodie sognanti a motivi via via più mossi, culminanti in un crescendo quasi affannoso dell’intera orchestra, chiuso dall’intervento delle percussioni.

II. Silencio (29’30”) L’Autore ha definito la sua opera come un viaggio interstellare, in assenza di gravità: ecco, la musica di questo movimento sembra proprio evocare i suoni dello spazio vuoto, prima di trasformarsi in una pesante marcia di tutti gli strumenti, che porta senza soluzione di continuità al...

III. Transit (35’50”) che si configura come una vera e propria, lunghissima cadenza del violoncello (su un ostinato della fisarmonica) assai articolata, dove atmosfere dell’Europa orientale e klezmer tengono banco, ma ammiccando anche a Bach... Anche qui si raggiunge un climax, grazie al concertino di percussioni (con annessi urletti!) dal quale si diparte una cupa, poi sempre più eterea transizione verso...

IV. Yrushalem (43’35”) introdotta da un assolo del corno, che riprende ciclicamente il motivo udito all’inizio dell’opera, imitato dal violoncello. L’atmosfera si fa poi sempre più rovente (ricordi di Palestina?) e infine ecco due cadenze che il compositore indica esplicitamente con i termini di Pulsar e Stelle cadenti, prima del ritorno al sienzio degli spazi siderali (in questa occasione il pubblico bairense ha però rovinato la conclusione con applausi decisamente anticipati).
___
Davvero trascinante l’esecuzione di ieri, che ha catturato l’attenzione del pubblico senza mai lasciare un attimo di respiro, il che ha guadagnato agli interpreti un autentico trionfo, che ha replicato quello torinese della sera precedente.
___
Kochanovsky ha poi guidato la OSN-RAI nella Quarta di Brahms. Approccio assai sostenuto, anche se mai pesante, nel primo tempo, con qualche tocco personale (piccole pause di respiro prima delle grandi arcate in legato). Poi massima trasparenza nell’Andante e quindi briglie sciolte per i due Allegri. Senza sbavature la prestazione dell’Orchestra, come sempre compatta in ogni sezione.

Come a Torino, commiato a dir poco travolgente con la quinta ungherese.