Dopo alcuni
anni di attesa (era in programma, poi sfumata, nel 2011 con na Patalung) ma ancora in tempo per
festeggiarne il 150° anniversario della prima esecuzione nella villa Pillet-Will
a Parigi, è tornata finalmente al ROF (dopo l’87 e il ‘99) la Petite Messe Solennelle nella versione con orchestra, secondo la recente edizione critica
targata Davide Daolmi.
Ieri sera al
Teatro Rossini, con video-diffusione in Piazza del Popolo e pure in streaming, è stato il
venerabile Alberto Zedda a dirigere
l’Orchestra e il Coro di Bologna (maestro del coro Andrea Faidutti) in questo autentico gioiello del tardo-Rossini. Il
quale portò a termine la versione per orchestra praticamente allo scadere della
sua esistenza terrena, dopo aver lavorato sulla sua piccola Messa per quasi 7 anni. In effetti Rossini aveva intrapreso
l’opera nel 1862, componendo un Kyrie
forse in ricordo dell’amico musicista Louis
Niedermeyer, di 10 anni più giovane di lui, ma scomparso l’anno precedente
e proprio il 14 marzo, giorno in cui si terrà, nel 1864, la prima della PMS. Della Messe solennelle in SI minore di
Niedermeyer (1849) Rossini citò – nel suo Christe
(Andantino moderato) – l’Et incarnatus,
guarda caso anch’esso un brano a cappella.
Le ricerche e gli
studi effettuati negli ultimi decenni (Angelo Coan, Klaus Döge, Nancy P. Fleming
e Philip Gossett) culminati nel recente lavoro editoriale di Daolmi, hanno
portato a chiarire in modo abbastanza preciso quello che fu il percorso
compositivo della PMS: contrariamente a quanto si è per lungo tempo ritenuto, di
essa non venne dapprima completata la versione da camera (con accompagnamento di pianoforti ed armonium) per poi
essere meramente, e quasi svogliatamente e in tutta fretta, trascritta per
accompagnamento orchestrale. Viceversa Rossini, dopo l’iniziale stesura della
versione da camera, che fu eseguita due volte a distanza di un anno (1864 e
1865) nella cappella di casa Pillet-Will e di cui è sopravvissuta una copia donata
da Rossini alla Contessa (versione eseguita per la prima volta in tempi moderni al ROF nel 1997, grazie all'intercessione di Gossett presso i discendenti Pillet-Will)
continuò a lavorarci sopra e contemporaneamente a pensare ad una versione
orchestrale. Quindi anche la definitiva veste della versione da camera (il cui manoscritto
è oggi conservato con quello della versione orchestrale presso la Fondazione Rossini)
si è arricchita di tante piccole o grandi modifiche e aggiunte che il compositore
apportò al testo in previsione, se non proprio in funzione, della realizzazione
della versione orchestrale. La quale fu quindi il risultato finale di un lungo
e meticoloso lavoro e non un sottoprodotto da prendere sottogamba, come si è
spesso fatto, soprattutto all’inizio del ‘900. Così Daolmi elenca le sommarie
fasi della composizione:
1862
Composizione di un Kyrie
1863
Aggiunta di Gloria e Credo («Piccola messa»)
1864
Aggiunta di Prélude, Sanctus e Agnus Dei e prima esecuzione in casa
Pillet-Will
1866-68
Aggiunta di O salutaris e orchestrazione
della Messa
Daolmi enumera
poi in ulteriore dettaglio ben 8 stadi di
lavorazione dell’opera, gli ultimi due dei quali (post-1865) includono
importanti interventi sulle sezioni: Gloria, Gratias, Domine, Qui tollis,
Quoniam, Cum Sancto, Sanctus; oltre all’inserimento dell’O salutaris e all’orchestrazione. Come si vede, un processo lungo
e… tormentato.
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Ai contenuti
dell’edizione critica si deve aggiungere in questa esecuzione al ROF una quasi-primizia
– siamo in un Festival, e tutto è
permesso! – dovuta allo zampino di Zedda, il quale anni addietro (qui una performance in Russia nel
2012) si è preso la libertà nientemeno che di strumentare il Prélude religieux!
Questo brano, aggiunto da Rossini a ridosso della prima del 1864, era stato preso pari-pari da un pezzo per
pianoforte dei Péchés de vieillesse (N°2
dell’Album de chaumière) e nella
versione da camera viene quindi eseguito su quello strumento. Nella versione
per orchestra, che esclude il pianoforte (sostituito in partitura da due arpe)
Rossini, avendo deciso comunque di non strumentare il brano, ne assegnò
l’esecuzione all’organo, che aveva lasciato in orchestra al posto dell’armonium,
pur con funzioni di puro riempitivo. Orbene, Zedda, che evidentemente è così
immedesimato in Rossini da conoscere anche ciò che il genio avrebbe fatto se
non fosse… morto (smile!) come
ragiona?
1. L’organo
usato come solo riempitivo in orchestra non ha alcun senso: poiché ne viene ridotta
la funzione a
un pleonastico collante armonico fautore di un discutibile aumento di sonorità…;
2. Otto minuti
di Prélude all’organo più quattro minuti di Sanctus (a cappella) costringono gli orchestrali a starsene con le mani in
mano per un’eternità, lasciando nell’interprete e nell’ascoltatore un vago
senso di incompiutezza…;
3. Quindi: via
l’organo e strumentiamo il Prélude!
Ohibò, come
rispetto per l’Autore da parte di un luminare delle edizioni critiche non c’è davvero male. E per nostra fortuna Zedda per
la sua strumentazione non ha impiegato i sax,
altrimenti si sarebbe materializzata proprio la nera profezia di Rossini
riguardo al futuro della sua povera Messa! Scherzi a parte, non si può non dare
atto all’ottuagenario Maestro di aver messo nell’impresa tutta la cura e la
professionalità di cui è capace, scegliendo accuratamente gli strumenti cui
affidare le diverse sezioni del Prélude (aperto dal recitativo del clarinetto
basso) e dosando con cura le sonorità, dai pianissimi
ai tutti. Prendiamolo come un interessante
esperimento, ma il risultato estetico per me è discutibile, poiché priva l’opera
di quel particolare momento di respiro e di raccoglimento (dopo le colossali fughe
di Gloria e Credo) che ne è uno dei principali pregi.
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Orchestra e coro erano quelli di Bologna, che da
anni e anni al ROF la fanno da padroni (non a caso adesso c’è un… Mariotti in entrambi gli ambienti, e
proprio il patron del ROF, prima dell’inizio, ha voluto festeggiare il
sodalizio consegnando un enorme bouquet di fiori al decano dell’orchestra, la
prima viola Harry Burton Wathen). In tutto
40 coristi e poco meno di 60 strumentisti (in disposizione moderna, con le viole
al proscenio): un organico quasi tardo-romantico, che finisce per trasformare
la Petite in qualcosa che assomiglia
più a Berlioz o a Mendelssohn o a Brahms (non dico a Mahler!)
I solisti
erano Olga Senderskaya (S) Veronica Simeoni (A) Dmitry Korchak (T) e Mirco Palazzi (B) che, come prassi di
tradizione, ma contrariamente alle indicazioni esplicite dell’Autore, cantano
solo le parti loro specificamente assegnate, e non, aggiungendosi al coro,
l’intera messa. Benissimo Palazzi e la Simeoni, bene Korchak e benino Senderskaya,
almeno alle mie orecchie.
Dopo aver assistito
in… religioso silenzio ai quasi 90 minuti dell’esecuzione, il pubblico del Rossini
(non proprio esaurito, devo dire) ha tributato a tutti un autentico trionfo, con
innumerevoli chiamate per solisti e direttori.
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