XIV

da prevosto a leone
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26 luglio, 2019

Tannhäuser a Bayreuth: buona la prima


Ieri si è aperto il 108° Festival di Bayreuth, con una nuova produzione di Tannhäuser, di cui sono responsabili due neo-assunti sulla collina, il diversamente giovane Valery Gergiev e l’autenticamente giovane Tobias Kratzer. Il quale ultimo ha tenuto a precisare che il suo Konzept non si focalizza tanto sul dualismo amore sessuale o platonico, ma piuttosto sulla questione del ruolo dell’artista nella società (“Nella mia produzione vedrete il minimo assoluto di pelle nuda nella storia dell’opera”). Beh, le intenzioni sembravano condivisibili e devo dire che, avendo potuto vedere il risultato, non sul posto, ma tramite lo streaming bavarese (in teoria limitato al territorio crucco ma misteriosamente pervenuto fin qui nel lombardo-veneto) mi sento di giudicare questa regìa (solo apparentemente strampalata) con una certa benevolenza.  

Ma intanto ci si chiedeva: ma quale delle tre (minimo) versioni dell’opera si rappresenta? Quella originale di Dresda 1845; quella (a parte la lingua) di Parigi 1861; o quella di Vienna 1875 (che è poi quella di Dresda con l’Ouverture mozzata e con incorporazione del baccanale da quella di Parigi)? Beh, abbiamo ascoltato Dresda, quindi con un Venusberg un filino... svaccato (inclusa la presenza di Gateau Chocolat e del nano Oskar):


Durante l’Ouverture un filmato (dei tanti che vengono proiettati nella parte superiore della scena, per integrare ciò che si vede sul palco, che altrimenti risulterebbe incomprensibile) ci aveva già mostrato l’uccisione di un poliziotto e poi Tannhäuser e Venus, con Gateau e Oskar in viaggio con una carretta Citroen (da Parigi a Dresda?):



Il protagonista abbigliato da clown potrebbe rappresentare il Wagner (nello zaino ha proprio un suo spartito) che, sfuggito al grande-circo-barnum che non lo ha capito (e anzi non lo capirà proprio con il tristanizzato Tannhäuser, anche nel 1861) spera di trovar pace nell’anarchismo del Venusberg, ma poi sente il potente richiamo delle radici della cultura tedesca, rappresentate dalla gloriosa Wartburg, e colà decide di trasferirsi. Ma ecco che, allontanatisi dal Venusberg, sempre a bordo del furgone Citroen, dove si arriva?


Ad un altro tempio, meta di moderni pellegrinaggi, tempio che - ironia della sorte - proprio Wagner innalzerà alla fine della sua carriera: il Festspielhaus! 


  
L’idea di inserire aspetti della biografia wagneriana nell’allestimento di una sua opera non è nuova, basti ricordare (ma è uno dei tanti esempi) il Parsifal di Herheim del 2008. Ma è un’idea coerente con il Konzept del regista, tutto imperniato come detto sulle problematiche della posizione dell’Artista nel suo tempo. Dunque, il Wagner ancora giovane ritrova un ambiente solo apparentemente accogliente (il nome di Elisabeth lo riempie di emozione) ma che si rivelerà (è forse una sottile critica alla Bayreuth-dei bidelli?) altrettanto gretto e imbalsamato di quello dal quale era fuggito (atto secondo):


Mentre scorrono i preparativi per la tenzone canora, dopo l’incontro di Tannhäuser con Elisabeth (che mostra i postumi di una lunga ferita al braccio destro... mah) vediamo fuori scena i suoi tre compari di avventura che si preparano ad un’azione di commando per liberare l’amico:


E la stessa Venus, dopo aver sequestrato e immobilizzato una delle quattro veline della cerimonia ed indossatone il costume, entra in incognito nella teure Halle:


Nel backstage si preparano gli altri due compari a fare irruzione in sala quando Tannhäuser scandalizzerà l’universo con le sue blasfeme teorie sul Venusberg:


Ed ecco il quartetto degli svitati appropriatisi del centro dell’attenzione:


A questo punto un addetto di scena solleva la cornetta del suo telefono e pigia un tasto: risponde la tenutaria Kathi Wagner in persona, che a sua volta compone un numero ben preciso, il 110 (sarebbe il 113 crucco) e nel filmato si vede un intero parco-auto della Polizei circondare il castello teatro, dove i sovversivi hanno esposto il loro striscione (Frei im Wollen - Frei im Thun - Frei im Geniessen) copyright Richard Wagner:


Ci sarà qui un riferimento al Wagner eroicamente presente sulle barricate di Dresda del ’48, inseguito poi da un mandato di cattura internazionale...?

Condannato - nonostante Elisabeth - all’esilio romano il reprobo Tannhäuser, portato via in manette, Gateau Chocolat esibisce ostentatamente il moderno simbolo della contestazione:


L’atto conclusivo è ambientato ancora in un posto desolato, col Citroen disfatto e Oskar che si ciba di pappa per gatti (che offre anche alla povera Elisabeth! colà in cerca del suo Tannhäuser). Vi arriva anche Wolfram, per consolare la povera ragazza:


E qui, prima della celeberrima Abendstern, ecco il fattaccio: Wolfram chiede ad Elisabeth di accompagnarla a casa; ma lo fa dopo aver subdolamente indossato pastrano colorato e parrucca arancione di Tannhäuser, ritrovati nel lurido furgone. E così lei - sorpresa, caro Wagner, dì la verità che non te l’aspettavi - invece di declinare gentilmente l’invito, ci sta! E si sdraia nel cassone trascinando sopra di sè il poeta, per farci una sveltina! Mah, qui francamente il regista mi pare abbia... deragliato, ecco (chissà se è questo che ha fatto scattare un unico ma forte buh al calar del sipario... o era per Gergiev?)

Tannhäuser finalmente ritorna, un filino malconcio, come da copione, ma sempre con lo spartito (cresciuto molto di spessore!) nello zaino; va in cerca del Venusberg e infatti ecco ricomparire anche Venus, ormai trasformata in terrorista della Baader-Meinhof. Wolfram cerca di convincere Tannhäuser a rinunciare a lei, che si prepara a scalare un traliccio evidentemente per fare un attentato:


Come nel primo atto, è il nome di Elisabeth che risveglia Tannhäuser di soprassalto, e il corpo della ragazza (rimasto nel furgone) viene trascinato fuori per farle il... funerale!


Tannhäuser viene redento e il filmato ce lo mostra mentre se ne va, sul Citroen rimesso a nuovo, con la sua Elisabeth! Sembrano proprio due squattrinati giramondo, tipo figli-dei-fiori di sessantottina memoria, appena un po‘ imborghesiti.


Che dire? Come minimo che questa concezione dell’opera ha una sua qual plausibilità, insomma un passo avanti rispetto alla ridicolaggine del precedente allestimento di Baumgarten (quello dell’impianto che trasformava il burro in merda...) Anche il pubblico (solitamente schizzinoso con le regìe genialoidi) pare aver tutto sommato gradito: a parte lo stentoreo ma isolato buh finale (da condividere con Gergiev?) il team di regìa ha solo (si fa per dire) collezionato qualche fischio in mezzo a molti applausi.
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Come giudicare il burbero orso russo? Per me, una prestazione, quella di Valery Gergiev, di grande spessore, almeno per gli aspetti che si possono valutare all’ascolto tecnologico: uno su tutti, quello dell’agogica, che in Wagner è fondamentale. Poi l’Orchestra e il superlativo Coro hanno fatto il resto. Per lui comunque un esordio non trionfale, forse condizionato dalla fama di amico-di-Putin del direttore.

La voce che più mi ha impressionato è stata quella di Elisabeth, dell’esordiente a Bayreuth Lise Davidsen, corposa, intonata, senza sbavature, ricca di accenti appropriati al personaggio. Un filino sotto la Venus di Elena Zhidkova, non sempre precisa nell’intonazione, ma che ha l’attenuante dell’arrivo all’ultimo momento dopo l’incidente capitato alla Gubanova (che dovrebbe rientrare già dalla prossima recita).

Bene, non benissimo, Stephen Gould, che comunque ha retto stoicamente fino in fondo, senza morire nell’ultimo, massacrante Inbrunst im Herzen, confermandosi Heldentenor di prima grandezza. Altrettanto dicasi del Wolfram di Markus Eiche, che per la verità mi è parso più sicuro nei passaggi del primo e secondo atto, che non nella Abendstern (forse era... provato dalla, ehm, scopatina con Elisabeth inventata di sana pianta dal regista!)

Rimarchevole anche la prestazione di Stephen Milling, autorevole Langravio, oltretutto dalla possente presenza scenica. Onorevoli gli altri quattro cantori e il pastorello en-travesti della Konradi. A tutti il pubblico ha riservato applausi e ovazioni.


25 luglio, 2014

Bayreuth apre con una falsa partenza

 

La magica fabbrica di Sebastian Baumgarten (quella che trasforma la merda in burro) è andata in tilt, mettendosi a trasformare il burro in merda (stra-smile!) Così il Tannhäuser inaugurale è stato sospeso poco dopo l’Ouverture.

La causa ufficiale dello stop è stata attribuita alla rottura di due cavi che reggono il gabbiotto dentro il quale i due protagonisti calano dall’alto sulla scena. Una cosa al limite del ridicolo, nel paese dei Krupp! Sul momento si è annunciata un’interruzione di 20-25 minuti, poi diventati quasi 60, prima che si ricominciasse, dall’inizio dell’atto. Pubblico evacuato, non perché ci fossero timori di un crollo del vetusto Festspielhaus, ma perché i 35 gradi di temperatura interna sono davvero duri da sopportare!

A parte la sua lunghezza totale (proprio da… Parsifal) e l’ormai conosciuta demenzialità della messinscena (ampiamente buata alla fine) questa prima del 2014 si è passata nel rispetto degli attuali standard qualitativi di Bayreuth: diciamo assai migliorabili (politically-correct parlando…)

La squadra è stata un poco ritoccata rispetto allo scorso anno, in particolare con il ritorno (dopo il 2012) del sempre impeccabile Kwangchul Youn nel ruolo del Langravio. Cambiato anche il Wolfram, ora impersonato da Markus Eiche, che ha sfoggiato una bella voce, ma a parer mio non si è calato bene nel personaggio, reso con scarso pathos e quasi sempre con un canto stentoreo e scandito, francamente fuori luogo. Nuovo anche Reiner Zaum, un passabile Reinmar.

Della formazione 2013 sono stati confermati il protagonista Torsten Kerl, che non ha demeritato (anche se ha rischiato la stecca sull’Elisabeth del terz’atto) e le due primedonne Camilla Nylund (Elisabeth) e Michelle Breedt (Venus) che meritano, secondo me, giusto la sufficienza. Come pure i tre cantori: Lothar Odinius (Walter), Thomas Jesatko (Biterolf) e Stefan Heibach (Heinrich), tutti senza infamia e senza lode. Katja Stuber è stata per questa intera produzione (2011-2014) nei panni del pastorello: ma non mi sembra che l’esperienza le abbia giovato…

Quanto ad Axel Kober se l’è cavata con dignità, grazie alle qualità di strumentisti e coristi che aveva ai suoi ordini.

01 agosto, 2013

Bay…roma 2013: Berluschäuser rimandato senza perdono


Questo Tannhäuser in Italia passerà alla storia per l’unica ragione di essere andato in onda in contemporanea alla camera di consiglio della Cassazione.

Lì non c’era un Papa, ma 5 vecchi decrepiti che tuttavia hanno riservato al povero penitente appena arrivato a piedi dal nord (beh, insomma… da Arcore) lo stesso sdegnato trattamento di cui il pontefice gratifica il pellegrino di Turingia.

Così adesso possiamo tirare un sospiro di sollievo: sappiamo per certo che per almeno 10 degli ultimi 20 anni siamo stati governati da un criminale comune con l’hobby del venusbergunga.
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Tutto è relativo, quindi al confronto con lo scempio del Ring questo Tannhäuser pare venuto da Marte.

Axel Kober dev’essere uno che dirige l’orchestra di Bayreuth come un macchinista dirige un… treno: sicuro che, a meno di non buttarsi a 190 all’ora dove c’è il limite di 80, è matematico che a destinazione ci arrivi, garantito!

Non che il cast – comprendente un paio di… superstiti del Rheingold - sia da incorniciare, tutt’altro! Insomma, un’onesta prestazione da teatro di provincia, di quelle cui normalmente si assiste, per dire, alla Scala (smile!)

La regìa ha avuto la sua razione di buh (ma era scontato, essendo ormai un dejà-vu) proporzionali alla quantità di, ehm, merda riciclata nell’impianto del genietto Baumgarten.

Domani ultima tappa radiofonica del primo giro, con il Lohengrin dei simpatici topolini Dasch e Vogt.

25 luglio, 2011

Bayreuth al via


In realtà, una falsa partenza.

Direzione approssimativa e fredda, Tannhäuser in evidente affanno (nonostante un paio di abbuoni ricevuti nei primi due atti) e Venere semplicemente ridicola, proprio da Corrida. Appena sufficiente Elisabeth, passabile il Langravio e discreto Wolfram. Ed era la versione di Dresda… Un po' pochino, effettivamente.

E la regìa? Buh.

Le cugine (stando a Radio3) sono servite.
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18 luglio, 2011

Bayreuth (festival) compie 100 anni


Il prossimo lunedi 25 luglio si apre la centesima edizione del Festival di Bayreuth. Come pure la prossima, sarà priva di Ring, in attesa del grande evento (?!) del bicentenario nel 2013.

Ad inaugurarla sarà l'opera meno eseguita lassù: Tannhäuser, che prima delle 6 di quest'anno ha contato soltanto 196 rappresentazioni. Si avvicinerà quindi all'Holländer, che ne ha 203 e che dovrebbe tornare nel 2012 (con Thielemann, si dice). Probabilmente a chiamare il pubblico a prender posto in sala saranno queste note dei corni:

 
Nonostante sia stato costruito per la Tetralogia, il Festspielhaus l'ha poi ospitata per 212 volte (più qualche giornata isolata) mentre il record di rappresentazioni è largamente detenuto da Parsifal (507, escluso il 2011) che precede Meistersinger (301).


Le date di esordio a Bayreuth dei drammi wagneriani, dopo l'apertura del Ring nel 1876, sono state: 1882 Parsifal, 1886 Tristan, 1888 Meistersinger, 1891 Tannhäuser, 1894 Lohengrin e infine 1901 Holländer. È ora aperto il dibattito sull'opportunità di rappresentare anche le tre opere giovanili di Wagner, in primo luogo Rienzi: la biondissima Kathi, co-reggitrice del Festival con la sorellastra Eva, ha più volte lasciato balenare questa idea e si è anche personalmente preparata, firmando (fuori da Bayreuth) la regìa del grand-opéra del bisnonno.

Quanto alla Direzione del Festival, rimase nelle mani del fondatore fino al 1882; morto Richard, passò alla terribile Cosima, che per i primi due anni (1883-1884) si limitò a ripresentare Parsifal secondo le direttive del (secondo) marito; poi, dal 1886 prese in mano le redini organizzative e diede vita a quella lunga stagione (chiusasi di fatto in piena seconda guerra mondiale) che portò Bayreuth - attraverso le direzioni del figlio Siegfried (1908-1930) e della di lui moglie Winifred (1931-1944) - al massimo splendore e contemporaneamente alla massima onta (la collusione con Hitler e il nazismo). Festival riaperto nel 1951 con alla testa i fratelli Wieland e Wolfgang (figli di Siegfried, e per nulla immuni dal nazi-virus) che lo condussero insieme fino al 1966, anno in cui Wieland tirò le cuoia, lasciando tutto il potere a Wolfgang, che lo ha detenuto (in realtà coadiuvato e ultimamente di fatto sostituito dalla seconda moglie Gudrun) fino al 2008. Poi il testimone è passato alle figlie di Wolfgang: Eva, avuta dalla prima moglie, e Kathi, dalla seconda, che sono quindi alla terza stagione di direzione. Il tutto in barba al (teorico) principio secondo cui – essendo oggi la Fondazione del Festival di diritto pubblico e non privato – chiunque, e non solo discendenti più o meno indegni del maestro, sarebbero intitolati a comandare il baraccone.

Fuori dai giochi sono rimasti, fra gli altri, Gottfried, figlio di Wolfgang, che dopo aver operato a fianco del padre per qualche anno (fu anche membro del team che rappresentò il controverso Ring del centenario, con Boulez-Chéreau, nel 1976) ha rotto tutti i ponti con Bayreuth diventando un feroce accusatore dei trascorsi nazi della famiglia, e Nike, figlia di Wieland, che contese nel 2008 alle cugine il posto di direttrice del Festival e che da allora non perde occasione per criticarle aspramente. Quest'anno le motivazioni dei suoi attacchi alla coppia Eva-Kathi riguardano la contrarietà di queste ultime ad ospitare al Festspielhaus il 22 ottobre una commemorazione per i 200 anni dalla nascita di Franz Liszt (gran benefattore di Wagner e pure suo suocero…) e per aver snobbato del tutto un'altra ricorrenza, i 60 anni dalla riapertura del Festival dopo la guerra, pur di non dar risalto ai grandi meriti di suo padre Wieland.

Veniamo ai Kapellmeister. A dispetto di tutta la retorica sull'antisemitismo di Wagner e dei suoi discendenti e bidelli, è un ebreo a detenere il record di podi giù nell'Orchestergraben del Festspielhaus: Daniel Barenboim lo ha infatti calcato per ben 161 volte, dal 1981 al 1999). Lo seguono il compianto Horst Stein (138 podi, da 1969 al 1986) e Peter Schneider, che dal 1981 ha totalizzato 130 podi e che dirigerà anche quest'anno (6 Tristan) portandosi quindi vicinissimo a Stein. Poi vengono James Levine (117) e l'attuale direttore musicale de-facto del Festival, Christian Thielmann (111). Cinque gli italiani che hanno avuto l'onore di dirigere lassù: Toscanini (18), de Sabata (6), Erede (7), Sinopoli (94) e Gatti (presente anche quest'anno con Parsifal, e che salirà a quota 23). Fabio Luisi, scritturato per un Tannhäuser del 2007, dovette invece rinunciare per problemi di salute. Fra i grandi nomi di oggi che non hanno mai messo piede sulla collina verde: Zubin Mehta, Georges Prêtre, Claudio Abbado, Seiji Ozawa, Simon Rattle, Riccardo Muti, Will Humburg, Semyon Bychkov, Valery Gergiev, Kent Nagano, Esa-Pekka Salonen, Mariss Jansons… e mi perdonino altri pur meritevoli. Dopo Andris Nelsons nel 2010, anche quest'anno ci sarà un esordiente: Thomas Hengelbrock, proprio nel Tannhäuser inaugurale.

In mancanza di specifiche comunicazioni in proposito, sarebbe da assumere che la versione di Tannhäuser che verrà messa in scena (con la regìa dell’altro esordiente Sebastian Baumgarten) sia quella mista (Dresda-Parigi) a suo tempo proposta dal grande Wieland. Anche il protagonista è un esordiente (a 53 anni!): il carneade svedese Lars Cleveman (ma, come diceva un gran maestro: non è mai troppo tardi!)

Da lunedì 25 a venerdì 29 luglio, sempre alle ore 16, verrà rappresentato il primo ciclo delle 5 opere in programma. L’ascolto radiofonico sarà garantito da Radio3 (escluso però il Tristan del 29) e da molte altre stazioni e web-radio europee. Il 14 agosto ARTE trasmetterà in video la quarta rappresentazione del Lohengratt. 

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09 febbraio, 2011

Tannhäuser in pellegrinaggio a Reggio Emilia



Dopo essere stato al centro dell'inaugurazione di stagione a Bologna, questo Tannhäuser (quasi) tutto tedesco è approdato al Valli di Reggio Emilia. Ieri sera seconda e ultima recita, dopo quelle di Bologna, accolte abbastanza tiepidamente (ad essere magnanimi…) E chissà se questa fama non proprio eccelsa non sia responsabile del desolante numero di vuoti che si notavano in platea e soprattutto nei palchi (unica consolazione: parecchi i volti giovani).

Apro con qualche considerazione superficiale e – come ama dire Amfortassemiseria. È ciò che magari si può pensare a prima vista di questa produzione. Intanto, Guy Montavon firma la regìa dell'opera: per intenderci, è come se Lissner in persona mettesse in scena, che so, la prossima Tosca alla Scala (smile!) O come se Moratti si mettesse a fare anche l'allenatore dell'Inter (ri-smile!) Montavon è svizzero trapiantato in Turingia e Tannhäuser è ambientato proprio lì, guarda caso. Peccato che il buon Guy abbia perso l'orientamento, confondendo est con ovest. E così, stando ad Erfurt, invece di guardare a 40Km di distanza a occidente, verso Eisenach, la Wartburg e l'Hörselberg, si è mosso, sempre di 40 Km, verso est, traslocando poeta, trovatori e femmine assortite in quel di Weimar, vicino e dentro la biblioteca mezzo distrutta dall'incendio di 7 anni fa. E chi se ne frega? si dirà… sempre in Turingia siamo e poi: Padrissa non ha per caso teletrasportato tutto e tutti a Bollywood?

Nel fare contemporaneamente il sovrintendente e il regista c'è però qualche vantaggio, apprezzabile nei momenti di crisi: se il manager si accorge che i quattrini scarseggiano, l'artista provvede seduta stante a tagliare i costi della produzione, a cominciare da quelli della scenografia (e magari a quelli del suo doppio-stipendio?) Ecco quindi che sul palco non c'è quasi nulla, e quel poco che c'è è roba che pare recuperata in discarica. Qualche filmato o diapositiva da proiettare su lenzuola e zanzariere, e il gioco è fatto. Se poi la genialità della regìa comporta la presenza di qualche comparsa straordinaria, basta usare il personale (già pagato comunque) dei servizi logistici del teatro, come pompieri e affini.

Certo, messa così, farebbe cadere le braccia, diciamocelo pure. Invece, dietro questa facciata poco promettente, c'è pure qualcosa (per non dire molto) di buono!

La presenza di biblioteca (nel secondo atto) e libretti vari (da subito) indirizza l'attenzione verso una delle problematiche fondamentali (anche se non unica) dell'opera Tannhäuser e della produzione wagneriana in generale: il ruolo di arte e artista nella società. E la scelta della versione da eseguire – quella di Dresda, quindi senza baccanale – mette del tutto in secondo piano le problematiche di natura strettamente religiosa o etico-morale, come il rapporto sesso-religione e carne-spirito.

Il libretto rosso che Tannhäuser si porta dietro è una specie di diario, di brogliaccio di appunti (Beethoven pare ne avesse sempre uno con sé, e Wagner… pure) dove l'artista segna gli spunti e le idee per le sue opere. Venus ne strappa le pagine su cui l'artista ha appuntato il suo anelito alla libertà (dalla claustrofobia del Venusberg, ma in fondo da se stesso e dal proprio auto-isolamento). Pure Elisabeth si porta dietro un libretto (giallo) che è a sua volta un diario, ma non dell'artista, bensì di una sua fan, di una che è stata colpita dalle prime opere dell'artista e le ha documentate, insieme alle sue reazioni. Se ne libera, consegnandolo proprio all'artista, perché lei è adesso irresistibilmente attirata dai contenuti del libretto rosso (che peraltro mai aprirà, custodendolo quasi come una reliquia, dopo la cacciata di Tannhäuser, allo scopo di riconsegnarglielo al suo ritorno da Roma) E altri libretti vengono consegnati ai cantori perché vi appuntino le idee per le rispettive composizioni per la tenzone. La quale tenzone avviene nella biblioteca di Weimar, distrutta dal rogo di libri, che è l'immagine della Wartburg rimasta orfana delle opere dei cantori e di Heinrich in particolare. E nella quale un secondo rogo vorrebbe distruggere il libretto rosso, simbolo dell'arte depravata di Tannhäuser; libretto che invece Elisabeth, appunto, si incarica di conservare. E che, non vedendo tornare Tannhäuser, consegnerà addirittura a Wolfram, quasi a investire il nobile e innamorato cantore della missione di perpetuare la nuova arte che tanto l'ha colpita e portata in uno stato di contraddizione spirituale che si risolverà solo con il sacrificio. Wolfram non saprà che farsene, e sarà ancora Heinrich a riprenderselo nel suo vaneggiamento finale. Ma proprio mentre il sipario cala (sulla doccia scozzese che purifica l'artista) scopriremo che quel libretto rosso è oggi conservato in un moderno scaffale, e viene preso da un ragazzino che mostra di interessarsene più che ad una bella palla colorata!

Ecco un Konzept che – a mio modestissimo avviso – centra nel modo più convincente l'intima essenza di questo dramma wagneriano. Che per il resto è sufficientemente contorto… e sofferto, come dimostrano ampiamente i mille rimaneggiamenti cui Wagner lo sottopose, mai trovandosene soddisfatto. A cominciare dalla ricerca del nesso causa-effetti riguardo al protagonista. Alla fine del secondo atto, dopo lo scoppio dello scandalo, Montavon ci presenta un fondale con la gigantografia – scattata dopo il rogo - dell'interno della Herzogin Anna Amalia Bibliothek; a fianco, una scritta, invero capitale: Il Poeta non appartiene né al mondo degli dei, nè al mondo degli uomini.

Chissà se è una frase (ad effetto) scritta dal megalomane Wagner in qualche suo libello (potrebbe benissimo trovarsi in Comunicazione ai miei amici) o confidata – che so – a un Liszt o a Mathilde, in un momento di particolare esaltazione… Sta di fatto che ben rappresenta il destino del povero Tannhäuser (e del Wagner anni-40?) che non riesce ad integrarsi da nessuna parte (né a Parigi, né a Dresda). Ma è colpa solo della società? Perché, nel prevalente MI del Venusberg, lui canta in REb, poi in RE e poi in MIb; e in compenso, nel prevalente MIb degli inni di Wolfram&C, se ne esce con un blasfemo MI naturale! Insomma, una specie di bastian-contrario, un artista maledetto che potrà trovare pace solo al cimitero, insieme alla sua ammiratrice e redentrice, la santa Elisabeth. (Quanto all'artista Wagner, dovrebbe spiegarci lui perché l'Ouverture presenta da subito il coro dei pellegrini in MI naturale, che pare una bestemmia se rapportato al MIb impiegato allo scopo nell'Opera: che sia così solo per meglio raccordarsi con il Venusberg su cui si apre il sipario, è spiegazione troppo banale.) Insomma, di strada per arrivare a Parsifal, Wagner ne dovrà fare ancora tanta…

A proposito di rimaneggiamenti, è interessante la soluzione che Montavon ha dato al finale, presentandoci una specie di misto fra quello che oggi è di fatto lo standard-di-Dresda (comparsa fisica di Venere e funerale di Elisabeth) e l'assetto dell'Ur-Tannhäuser, dove il Venusberg è solo un'allucinazione di Heinrich e di Elisabeth si ha solo un lontano riferimento alle stanze della Wartburg, illuminate per la sua camera ardente. Qui in teatro Venus soprattutto si sente (qualcuno può anche intravederla, dato che lei canta – spartito sul leggìo! - nel palco di barcaccia di sinistra) mentre delle esequie di Elisabeth resta solo il canto del coro, che ne tesse il necrologio.

Detto dell'allestimento minimalista, vengo agli interpreti, dove le note (smile!) non sono magari altrettanto liete, pur se non mi sento assolutamente di parlare di fallimento.

Intanto Reck: il 50enne direttore ha dato una lettura asciutta e… minimalista (smile!) della partitura, evitando enfasi e fracassi (salvo, ma doverosamente, nella scena corale del secondo atto). I suoi tempi, a partire dall'Ouverture, mi son parsi abbastanza vicini a quanto Wagner prescrive (in Tannhäuser ci sono minuziose indicazioni metronomiche). Mai ha coperto le voci, e già questa non è qualità da poco. L'Orchestra ha risposto assai bene, sia nella buca, che dietro le quinte.

Il Coro, diretto qui da Lorenzo Fantini, ha confermato la sua preparazione: eccellente sia nei piano dei pellegrini, che nei fortissimo dei nobili di Turingia.

Tannhäuser era Richard Decker: la voce non è proprio male (ricorda vagamente, anche nell'espressione, Domingo) ma francamente è parso in difficoltà (proprio di intonazione, credo) nella scena iniziale, chiusa con un Maria non propriamente da ricordare, il che ha fatto temere il peggio. Si è invece poi progressivamente ripreso ed ha concluso senza danni anche l'ultimo, tremendo sforzo del racconto di Roma. Assieme ad applausi, ha ricevuto un paio di buh (da un'unica fonte in platea, peraltro) che mi son parsi un pochino eccessivi.
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La Venus di Patrizia Orciani è stata molto applaudita, anche se non è andata esente da qualche pecca (da urletto) negli acuti.

Chi non si meritava i due fischi (sempre dallo stesso punto della platea) in mezzo ad un mare di applausi, era Orla Boylan, interprete di Elizabeth. Per me, una prestazione più che degna, se non proprio eccellente.

Mattatore della serata Martin Gantner, davvero un grande Wolfram, voce calda ma chiara e luminosa, proprio come si addice al leggendario Minnesanger.

Dignitosa la prova di Enzo Capuano, nei panni del Langravio, e notevole – pur nella limitata estensione – quella del pastorello, la davvero brava Guanqun Yu.
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Insomma, direi che – per quanto visto e sentito ieri – certe critiche seguite alle precedenti recite mi paiono immeritate. L'unica che mi sento di fare io è all'orario di inizio. Va bene che la Marcegaglia ha ormai bisogno di sfruttare anche i nostri minuti (smile!) ma cominciare alle 18, invece che alle 20, non credo avrebbe fatto precipitare il nostro PIL.

31 marzo, 2010

Un simpatico Tannhäuser indiano alla Scala

Ieri era la quinta e penultima rappresentazione, alla Scala, per il Tannhäuser di Mehta-Fura, dopo accoglienze, diciamo così… mixed. Teatro pieno, ma non pienissimo, e successo quasi pieno per tutti.

Tanto per entrare direttamente in-medias-res, sappiamo come Wagner avesse i suoi (buoni) motivi per ambientare l'opera in Germania, precisamente in Turingia, con tanto di meticolosi riferimenti logistici a due località nei pressi di Eisenach (città natale di un certo Bach - si noti bene - non di Buddha!): il castello della Wartburg, che si trova a meno di 2Km a sud-ovest della cittadina, e il fantomatico postribolo di Venere (il Venusberg) che nella versione parigina è da Wagner dislocato con temeraria precisione presso l'Hörselberg, 5Km - o giù di lì - ad est della stessa Eisenach.

Ecco cosa scrive Wagner sulla partitura d'orchestra, Atto I, Scena III, al momento per Tannhäuser di tornare all'aria aperta, dopo la sbornia del Venusberg: Tannhäuser, che non ha abbandonato la propria positura, si trova improvvisamente trasportato in una bella valle. Cielo azzurro, limpida luce del sole. A destra, sullo sfondo, la Wartburg; a sinistra, in lontananza, il Hörselberg. (…) Nel frattempo, da dietro la scena e da molto lontano, come se venisse da Eisenach, si ode il rintocco delle campane di una chiesa. Insomma, Wagner quasi-quasi ci dà le coordinate GPS del metro-quadro su cui Tannhäuser si trova: lui è più o meno a metà strada fra Hörselberg e la Wartburg (più vicino a quest'ultima) ed ha alle spalle Eisenach. Da qui in avanti tutta l'Opera è ambientata inequivocabilmente in quei precisi paraggi. Così come l'Aida è ambientata in Egitto e i Meistersinger a Norimberga, e la Tosca a Roma, la Bohème a Parigi (che dire di una Bohème ambientata a Mumbay, con Rodolfo che, affacciato alla finestra, canta: "Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi"?)

Ma qui Wagner non viene preso alla lettera (e neanche sul serio, per la verità) e perciò abbiamo un Tannhäuser indiano, in omaggio al Maestro, ovviamente. Avesse diretto Salonen, si andava in Finlandia, col Venusberg collocato in una gigantesca sauna pubblica. Dirige Chung? In Korea, no problem. Dudamel? La Wartburg di Maracaibo, perbacco, chi non la conosce?

Insomma, Padrissa e i suoi sono in grado di ambientare qualunque opera in uno qualunque dei 190 (o quanti sono) Paesi del pianeta. L'unico problema che hanno è trovare un direttore all'altezza nel Burkina-Faso o all'Isola di Pasqua!

Viceversa, sarei pronto a scommettere che – avesse Wagner ambientato la sua storia in India - Padrissa ce l'avrebbe trasferita in Turingia (smile!)

E sempre facendo cose divertenti, mica pizza&fichi! (Del resto, chi non si è mai divertito leggendo la famosa tragedia Ifigonia in Culide?)

Insomma, Tannhäuser assurto al rango di divertissement, ohibò! E dobbiamo consolarci, perché in giro c'è di molto, ma molto peggio.

Leggendo il corposo programma di sala abbiamo la conferma (non che avessimo dubbi) che Padrissa&C sono gente che studia bene i soggetti da mettere in scena. Quindi sanno benissimo che, sul piano esteriore (e superficiale?) del contenuto, Tannhäuser non racconta miti, ma casomai storie medievali (e per buona parte vere) con personaggi e luoghi squisitamente autentici e germanici; sul piano filosofico-religioso, mostra il contrasto insanabile (o sanabile solo una volta passati all'altro mondo) fra carne e spirito, fra l'impulso animalesco – e in quanto tale nemmeno poi peccaminoso – verso eros e sesso, e l'anelito umano verso il trascendente e il divino; infine, sul piano artistico, descrive (autobiograficamente) lo straniamento dell'artista-innovatore dalle consuetudini e dalle (più o meno ipocrite o interessate) convenzioni cui l'establishment è ancorato, e con le quali è però costretto fatalmente a fare i conti o addirittura a venire a patti, o a scontrarsi mortalmente. Addirittura Padrissa&C intendono dedicare questo allestimento a tutti i Tannhäuser di questo mondo, teste matte da Giordano Bruno a Michael Jackson, passando per Richard Wagner e John Lennon! Lodevole intenzione davvero.

Siccome però il pubblico è quello che è (e secondo alcuni non è cambiato troppo dai tempi di Parigi 1861, Jockey Club di buona memoria) è meglio non andare troppo sul difficile, e quindi si parte mostrando immagini, filmati e ologrammi di un bordello in piena regola (peraltro questo combina perfettamente con ciò che scrive Wagner nel libretto, cose del tipo: si formano coppie in cui ciascuno trova l'oggetto dei propri desideri, e poi si confondono e rimescolanoe subito dopo: le Baccanti eccitano gli amanti a una lussuria sempre più sfrenata. Costoro, inebriati, si abbandonano ad ardenti amplessi.) Se si può fare qui una critica, è di tipo economico: quanto sarà costato al regista (cioè dire: a NOI) girare tutte quelle scene con innumerevoli ragazze e ragazzi, tassativamente nudi ed aggrovigliati? Quando invece Padrissa e i suoi qui potevano tranquillamente propinarci immagini di filmetti groupsex o gangbangorgy scaricate gratis da internet, così dispensando Lissner dal prosciugare il FUS, e senza per questo creare scandalo, né essere irriverenti o dissacranti nei confronti dell'Autore.

Nel Venusberg, mentre la Gertseva-Venus è sufficientemente nuda, e mostra così le sue – di gran lunga migliori – qualità, il protagonista Robert Dean Smith è coperto da regolamentare pastrano, il che ci consente di tenere aperti gli occhi mentre canta (passabilmente, benino o così-così, le sue lodi-maledizioni). Ma, dopo essere faticosamente sfuggito al bordello dall'aria divenuta ormai irrespirabile, dove si va a cacciare il povero Tannhäuser? Nella severa Wartburg, direte voi, tempio della virtù e dell'arte. Ecco cosa vediamo all'inizio del secondo atto: mentre Elisabeth saluta la teure Halle, ci sono simpatici ragazzi e ragazze che fanno un balletto tipo Smeraldo anni'70. Ma non basta, quando arrivano gli ospiti, sul solenne canto Con gioia salutiamo la nobile sala dove sempre e soltanto arte e pace possan dimorare, i ballerini si scatenano ancor più, in una cosa bollywoodiana (io veramente me lo ricordavo come il twist): roba da far pensare al povero Tannhäuser di esser caduto dalla padella nella brace (adesso si capisce bene perché, durante la tenzone, gli prenderà la voglia matta di tornare là da dove era venuto!) Sì, anche Wagner si può ballare, incredibile! Perché, come ad esempio Ciajkovski nello Schiaccianoci, ha scritto musica in 4/4 o 3/4 o 2/4 o 6/8 e così via. Chi ci aveva mai pensato? Brava la Fura a scoprirlo!

Ma a proposito di balletto, bisogna sapere che nel 1860, quando a Wagner finalmente furono aperte le porte dell'Opéra di Parigi (grazie all'intercessione della crucca Pauline von Metternich, che era entrata nelle grazie nientemeno che dell'Imperatore Napoleone III) il compositore fu avvertito che, nel secondo atto dell'opera, doveva essere tassativamente programmato un balletto. Chè a quell'ora i simpatici membri del Jockey Club, dopo essersi ben saziati e abbeverati di champagne, arrivavano a teatro per ammirare le nude gambe (allora non si andava oltre) di compiacenti ragazze che, qualche mezz'ora dopo, sarebbero finite direttamente nei loro letti. Orbene, sembra un'enormità, ma Wagner si rifiutò cocciutamente di sottostare a simile imposizione. E sfidando l'Imperatore in persona (che pagava in toto l'allestimento, si noti bene!) Wagner si rifiutò di infilare un balletto a quel punto dell'opera (considerando già fin troppa concessione la nuova, pornografica scena del Venusberg del primo atto).

Ma a noi che 'cce frega? dice Padrissa, siamo in democrazia, mica in un impero, Wagner è morto, e il balletto lo mettiamo dove ci pare! E infatti il pubblico apprezza molto.

Per la tenzone canora – una scena che si richiama nientemeno che al Symposium di Platone, e sappiamo quanto Wagner ammirasse la Grecia! - ci spostiamo invece al lunapark. Infatti, nell'austera Wartburg (o Bangalore, fate voi, visto che son tutti in turbante) ci sono - ad ospitare i canori contendenti - dei caddy da golf, o macchinine da autoscontro, ciascuna dotata di arpista, una specie di tata (anzi Tata, siamo in India!) o badante del Minnesanger di turno. Invece del motore elettrico, due robusti negroni che spingono e tirano qua e là. Ma tanto ha poco di che vantare austerità, la Wartburg, sappiamo quale indegna gazzarra vi si svolgerà, di cui vien data colpa al povero Tannhäuser, costretto a partire per Roma al seguito di pellegrini inturbantati e circondati da coloratissime, ma un po' fastidiose donnicciole che chiedono la carità (in Turingia proprio così funzionava, sapevate?)

Nel terzo atto tornano i pellegrini da Roma (sempre con donnicciole a latere). Elisabeth attraversa il corteo in cerca del suo Tannhäuser, sperandolo graziato dal Papa. Non ritrovandolo, che fa? Sentiamo Wagner: in atteggiamento doloroso, ma tranquillo (…) con grande solennità canta il suo sacrificio e resta in devota estasi. Insomma, non versa una sola lacrima, ma nobilmente offre la sua vita alla Vergine, per ottenerne l'intercessione in favore del reprobo. Ma una scena così sarebbe poco appariscente, e così il regista fa issare Elisabeth su un trespolo fino a 10 metri di altezza e da qui la pia donna allaga letteralmente di lacrime una piscina che occupa metà del palco. (Insieme alla piscinetta di cristallo del Venusberg, è forse una trovata per pubblicizzare qualche aquafan, visto che si va verso la bella stagione).

Ai bordi della quale piscina arrivano quattro lavandaie a lavare degli enormi panni, che scopriamo servire (una volta stesi, più sporchi di prima!) a proiettarci sopra immagini che supportano la parte cruciale del racconto di Tannhäuser del suo calvario a Roma: l'incontro disgraziato con un Papa talebano che, invece di perdonarlo cristianamente, lo invia direttamente all'inferno. E sulle lenzuola vediamo le immagini di un Papa (in visita in India, 1986?) che Padrissa ha accuratamente scelto fra quelli più retrivi, assolutisti, e diciamo pure repellenti che la storia della cattolica Chiesa ricordi: Woitilaccio! Mancava solo un titolo di giornale: "Giovanni Paolo II copriva i preti pedofili" …ma la regìa è stata pensata quando lo scandalo ancora non aveva occupato le prime pagine di giornali e tv, che peccato!

La scena del funerale di Elisabeth è un pout-pourri di idee genialoidi e di improbabili riferimenti alla biografia di Wagner. Sul laghetto di acqua-pianto, arriva un incrocio di piroga indiana e gondola veneziana, carica di lumini, su cui viene portato il feretro; il che è un incrocio fra Gange e Venezia: il funerale di Wagner a Bollywood? Ma allora qui si scimmiotta per caso lo Herheim del Parsifal attualmente in cartellone al tempio? Sulla trasformazione di Elisabeth in Venere (stella, non tenutaria) bisognerebbe scrivere enciclopedie e libelli, lasciamo perdere, siamo qui per divertirci, mica per pensare.

A proposito, sul programma di sala c'è una dottissima presentazione del professor Quirino Principe, che conclude con una considerazione (a proposito della lingua - originale o italiana - in cui rappresentare l'Opera): Quanti italiani amanti del teatro d'opera, ascoltando Tannhäuser in lingua originale, capiranno la meravigliosa complessità culturale di quest'opera? Vien da ridere, ma ovviamente il professore pensava a Tannhäuser, non al Bruschino o all'Elisir.

In sostanza, oggi ci si accontenta di tener buona ancora – ma per quanto ancora? perché la modernità prima o poi chiederà anche qui il suo pizzo – la musica di Wagner; le parole si lascino pure lì, perché tanto sono solo un ostrogoto grammelot, che serve giusto a far uscire i suoni dalla bocca dei cantanti. Tutto il resto: nel cesso, sostituito da trovate più o meno genialoidi. Che termini usare per operazioni di tal genere? Anticulturale, diseducativa, truffaldina?

Invece: divertimento assicurato, il pubblico ha gradito e – a differenza della prima – non ha contestato nessuno, men che meno il regista (che però non si è fatto vedere al proscenio).

Questo è lo stato-dell'arte, oggi, anno di grazia 2010. E dobbiamo accontentarci, essendoci in giro anche di peggio.

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La musica.

Mehta non mi è per nulla dispiaciuto. Come già nel Ring ascoltato uno-due anni fa al Maggio, tiene un approccio assai pragmatico, facendo ben emergere il lato italiano (meno male, non indiano!) presente – e come! – in Wagner, particolarmente in opere come questa. Nessuna enfasi gratuita, tempi forse più celeri rispetto ai metronomi di cui Wagner ha disseminato la partitura (ma che lui per primo invitava Kapellmeister e cantanti a prendere abbastanza con le molle, privilegiando la loro personale sensibilità). In un paio di occasioni ha forse lasciato troppa briglia al fracasso dell'orchestra, coprendo le voci, ma in complesso – per me – la sua è stata una direzione lodevole.

Dei cantanti, rispetto al recente Tannhäuser torinese, salverei giusto la Harteros-Elisabeth, gli altri da discreto (Dean Smith, voce debolissima, però, e Zeppenfeld-Langravio) a mediocre (Trekel-Wolfram) a insufficiente (Gertseva). Gli altri ancora, senza infamia, né lode. Bene al solito il coro di Casoni e i piccoli di Caiani.

Oggi si passa però a cose serie, da settimana santa: una passione bachiana all'Auditorium.

17 marzo, 2010

Tannhäuser a Torino

In attesa dell'arrivo di Zubin Mehta e dei saltimbanchi della Fura alla Scala, ieri sera un Tannhäuser di pura e semplice musica al Teatro Regio di Torino. Della serie: così non occorre chiudere gli occhi per godersi l'opera (smile!) L'anfiteatro del Regio non è proprio colmo-colmo (brutto segno) ma il peggio accadrà al secondo intervallo.

Tannhäuser è rimasta un'opera incompiuta: Wagner riconobbe, proprio a Venezia, poco prima di morire, di esserne ancora debitore al mondo (sì, al mondo, non a qualche appassionato d'opera… lui era un pochino, ma proprio poco, megalomane, si sa). Quindi la curiosità principale che nasce di fronte ad un'esecuzione è: quale versione o rivisitazione ci verrà propinata? La prima, del 1845? O la seconda, o la terza, del 1847, con Venere in bella vista nel finale? O quella del 1861 (del colossale tonfo parigino)? Ma proprio quella di Parigi-Francia, con l'intera Ouverture, o quella parigina-tedesca del 1872-1875, con l'ouverture castrata a due terzi per correre in fretta e furia al tristanizzato – ed anche un filino meisterizzato - bordello di Venere? O qualcosa di diverso ancora?

Bychkov è andato sul sicuro, offrendoci l'ultima versione messa a punto da Wagner, che è – con qualche buona ragione – quella statisticamente impiegata di più, anche se proprio a Bayreuth si ostinano – non sempre – a dare la versione ante-Parigi, forse per postuma ripicca contro quei simpaticoni del Jockey Club, ingrati, che fecero a pezzi l'opera rivisitata proprio per loro e preparata con più di 200 prove, a spese dell'Imperatore!

Quanto alla storia delle interpretazioni, qui c'è una vera enciclopedia!

Bychkov attacca l'Ouverture, e le primissime battute non sembrano molto felici (forse per colpa di un clarinetto?) poi però tutto fila per il giusto verso (tempi compresi). Il baccanale è davvero travolgente, quindi udiamo i dolcissimi richiami delle sirene da lontano (il coro femminile è fuori dalle quinte, sul palco solo i maschi, pronti per la terza scena). In proscenio Venere e Tannhäuser. Michaela Schuster (che in realtà ha un fisico da Giunone, e pure abbondante) mostra subito pregi e difetti, ottima espressività, con qualche urlo sforzato. Johan Botha (che ha la stazza dell'ultimo Lucianone, con la metà dei suoi anni) è esordiente nel ruolo, ma già interprete di altri importanti personaggi wagneriani: all'inizio sembra un pochino contratto, quasi timoroso sulla prima grande frase in RE bemolle (Dir töne Lob!) poi via via migliora, già dalla seconda (che sale al RE naturale) e sulla terza (che sale ancora, al MI bemolle) mostrando la sua voce chiara e squillante, ben adatta per una parte tutta spostata verso l'alto del pentagramma; espressioni efficaci, insomma, grande autorevolezza e padronanza del personaggio. Che non potrà che migliorare con la consuetudine al ruolo.

Brava Erika Grimaldi nelle vesti del pastorello: pur sistemandosi dietro l'orchestra (davanti al coro) la sua vocina passa benissimo, insieme alla struggente melodia del corno inglese (che non arriverà alle altezze del Tristan, ma poco ci manca) suonato da Alessandro Cammilli. Entrano poi, sistemandosi sul proscenio, il Landgravio, un sicurissimo Kwangchul Youn, che ha imparato il ruolo in quel di Bayreuth, e i cantori. Fra i quali spicca subito il Wolfram di Boaz Daniel, voce morbida, assai appropriata per il ruolo (ne avremo conferma i due atti successivi). Jörg Schneider era Walther, Jochen Schmeckenbecher Biterolf, Dominic Armstrong Heinrich e Lucas Harbour Reinmar. Tutti all'altezza dei rispettivi – non impossibili – ruoli. Wagner – megalomane, al solito – prescrive, fuori dall'orchestra, sulla scena, addirittura 12 corni! Bychkov ha la fortuna di disporre di esecutori eccellenti, e gli basta un quarto della dotazione (la stessa cosa accade nel secondo atto, dove Wagner prescrive 12 trombe sulla scena!)

Nel secondo atto vediamo subito la Elisabeth di Ricarda Merbeth. Ottima presenza e portamento, anche lei con luci ed ombre: benissimo finchè canta sul piano, poi, quando deve andare sul forte, e oltre il SOL acuto, mostra una certa tendenza all'urlo. La cosa migliore la farà nel terzo atto. Breve apparizione di Wolfram, che introduce il protagonista e qui abbiamo il duetto Gepriesen sei die Stunde, dove Botha spicca in modo particolare. Torna Hermann, ancora autorevole nel suo incontro con Elisabeth; poi i cori (maschi in alto, signore sotto) per una grande e per nulla enfatica scena della presentazione dei cantori e della tenzone. Dove Boaz Daniel ancora si mette in bella mostra con il suo inno all'amore, poi interrotto dall'esplosione di Botha, che canta per la quarta volta (salendo ancora, al MI naturale) la sua irresistibile attrazione verso Venere.

Poderosa la scena successiva, con cantori e coro ad aggredire il blasfemo, interrotti a tratti dalle irruzioni di Elisabeth (Haltet ein! Zurück, sempre con gli alti-e-bassi ricordati). Dopo il rinsavimento di Tannhäuser (la cui frase principiante con Zum Heil den Sündigen zu führen e fino a für sein Leben è giustamente lasciata al solo protagonista, senza il contrappunto di coro e cantori) si arriva al finale, ancora con il gigantesco concertato generale, culminante nella perentoria intimazione al reprobo: Nach Rom!

Ecco, qui un buon 5-10% di spettatori deve aver preso alla lettera l'invito e se l'è squagliata (correndo a Porta Nuova a prendere l'ultimo Frecciarossa per la capitale?) Desolante, a dir poco!

All'inizio del terzo atto vediamo finalmente sul palco tutti i coristi: in alto i ragazzini di Claudio Fenoglio, sotto le signore e più in basso ancora i maschi (per ragioni, penso, legate alla resa del coro iniziale dei pellegrini). Dopo l'introduzione strumentale, magistralmente diretta da Bychkov, è ancora Wolfram a presentarci Elisabeth, in perenne attesa del ritorno dell'amato. Strepitoso qui il coro di Roberto Gabbiani, un piano davvero religioso, che esplode poi nel fortissimo di Der Gnade Heil, una cosa da mozzare il fiato!

Nel successivo lamento di Elisabeth, la Merbeth dà il meglio di sé, sia come canto che come drammaticità di interpretazione. Come pure fa Boaz Daniel porgendoci con calore e gusto la sua canzone alla stella della sera, mentre la ragazza se ne esce, accompagnata stupendamente da Bychkov. Arriva Tannhäuser col suo lunghissimo racconto della penosa avventura romana, e poi torna sul palco Michaela Schuster per il suo ultimo disperato tentativo di riportare il peccatore al peccato.

Forse Bychkov lascia troppa corda all'orchestra (effettivamente deve fare un fortissimo) ma sta di fatto che lo stentoreo Elisabeth! di Wolfram (autentico momento topico) perde un pochino della sua drammaticità. Ora si chiude, con i ragazzini a cantare il loro parsifaliano Heil! Heil! Der Gnade Wunder Heil! Prima che tutti – in un colossale fortissimo – suggellino la redenzione del Nun geht er ein in der Seligen Frieden!

Un trionfo? È dir nulla! Schiamazzi e urla da stadio (o c'erano troppi interisti?) ad accogliere le sortite di cantanti e direttori e le alzate di professori e coristi. Una serata di quelle da incorniciare.

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Tornando alla Scala, proprio questa sera il Teatro più importante del pianeta (se lo dice Lissner…) offre la prima del suo nuovissimo allestimento. Che viene annunciato con un francamente inquietante giochetto di parole - Mehta-Fura - che lascia temere interpretazioni metaforiche, quindi di norma strampalate (trattandosi di Wagner e non del Rossini buffo). E pensare che Wagner già nel 1852 aveva sentito il bisogno di scrivere un autentico e dettagliatissimo trattato di messa-in-scena della sua (allora) penultima opera, con considerazioni sui tagli (fatti a Dresda per colpa di cantanti inadeguati) e consigli, anzi ordini in piena regola per Kapellmeister e Regisseur, oltre che per gli interpreti.

Chi, col regista, è ancora più severo dello stesso Wagner è il professor Quirino Principe (autore fra l'altro della pregevole traduzione del libretto, reperibile sul sito del Teatro). Trascrivo testualmente: Un regista che metta in scena Tannhäuser di Wagner deve conoscere la biografia e la poesia di Wolfram von Eschenbach e di Biterolf e di Reinmar von Zweter e di Heinrich der Schreiber, deve saper leggere e capire i testi in «mittelhochdeutsch», percorrere a menadito la storia e la geografia della Turingia, ed avere visitato la Wartburg. Altrimenti, è meglio che cambi mestiere, e si volga a professioni ugualmente onorevoli come il cancelliere di tribunale, l'idraulico, la guardia di finanza, l'impiegato dell'Agenzia delle Entrate.

Ora invece, Padrissa ci confida che lui – anziché nella ridente e linda, ma un po' noiosa Turingia - è andato a cercare ispirazione in India (in omaggio al Kapellmeister) e lì avrebbe trovato Venusberg e Wartburg quasi osmoticamente compenetrati …a Bollywood. La scena finale ci viene così anticipata: le lacrime di Elisabeth formano un lago, in cui Tannhäuser si purifica (e poi ci muore annegato? ndr) e in cui si specchia la luce di Venere, intesa qui non come tenutaria di casini, bensì come luminoso pianeta in cui Padrissa (non Wolfram) ha trasformato la suddetta Elisabeth. Povero Padrissa, come idraulico forse (data la tecnologia da acquari che la Fura impiega in questa occasione) posso anche vedercelo, ma come impiegato dell'Agenzia delle Entrate (?!) Che dio ce la mandi buona, viceversa converrà chiudere gli occhi e sperare almeno in Zubin e nelle voci…

29 settembre, 2009

Sulla soggettività dell’ascolto


Un giudizio espresso di recente in un post sul Corriere della Grisi, dedicato al ricordo di un famoso concerto wagneriano di Bruno Walter, ripropone il tema della soggettività dell’ascolto.

Nel post si definisce pesante e lento l’avvio dell’Ouverture del Tannhäuser, con una velata critica a Walter (peraltro giustamente esaltato, sia prima che dopo). Ora, la redattrice del post ha evidentemente giudicato in base ad un suo – legittimo! – metro. Come spiega nella gentile risposta al mio commento, il suo giudizio è stato influenzato dal confronto con il brano precedente (il Preludio dei Meistersinger). O magari, chissà, per riferimento mentale con ricordi di altre interpretazioni, o con la propria sensibilità o il proprio modo di vivere quella musica. Nulla di male in tutto ciò, intendiamoci. Ma nulla di più soggettivo ed arbitrario.

A chiarimento e completamento informativo del mio commento – con annessa precisazione - a quel post, provo ad esporre la questione con maggior dettaglio tecnico.

L’Ouverture del Tannhäuser si apre con un tempo Andante Maestoso (la marcia dei pellegrini, cui segue l’Allegro, che introduce il Baccanale). Siamo in misura di 3/4 e l’Andante – che non ha al suo interno alcuna ulteriore variazione dinamica, si noti bene – occupa 80 misure, più una semiminima di attacco. Quindi, in tutto, 241 semiminime.

Ora notiamo un fatto importantissimo: per l’ultima volta nelle sue partiture, Richard Wagner prescrive un metronomo. L’Andante Maestoso andrebbe eseguito a 50 semiminime al minuto. (Si noti che lo stesso metronomo è indicato successivamente, per il canto dei pellegrini nel terzo atto).

Adesso ci supporta la matematica per stabilire quanto tempo, secondo l’indicazione dell’Autore, dovrebbe durare l’Andante. A 50 semiminime al minuto, per suonarne 241 sono necessari precisamente 4 minuti, 49 secondi e 2 decimi. Questo dato potrebbe essere addirittura stampato sulla partitura, poiché deriva direttamente (matematicamente) da ciò che Wagner ha scritto, in modo inequivocabile.

Se fissiamo – arbitrariamente, ma credo con un certo buon senso – una forchetta di variabilità della durata del 10% (+/- 5%) potremmo dire che un Direttore è fedele alla lettera di Wagner se esegue l’Andante in un tempo compreso fra 4’34” (e 74 centesimi) e 5’3” (e 66 centesimi).

Orbene, Bruno Walter, nel concerto di cui sopra, suona attorno a 4’35” (l’attacco è coperto dagli applausi) quindi si colloca sul limite inferiore di questa forchetta, perciò va piuttosto veloce, non lento! E tiene, come prescritto, un tempo assolutamente costante (metronomo 52-53, come si può verificare facendo “traguardi” intermedi, ogni minuto). Ecco altri interpreti, tutti più lenti di Walter, si noti (link a Youtube):

Igor Markevitch 4’36”
Leonard Bernstein 4’37”
Federico Santi 4’43”
Ennio Nicotra 4’46”
Arturo Toscanini 4’49” (praticamente perfetto! c’era da dubitarne?)
René Leibowitz 4’53”.

Herbie Karajan suona attorno ai 5’ netti, quindi verso l’estremità superiore della nostra personalissima forchetta. Sforano di poco in lentezza Zubin Mehta e Willem Mengelberg con 5’10” (metronomo 46-47).

Chi è totalmente fuori è Georges Prêtre, che fa fare ai poveri pellegrini, reduci in Germania da una podistica andata e ritorno a Roma, uno sprint sui 100 metri piani: 4’09” (metronomo 58!) Ma non ho dubbi che per moltissimi ascoltatori – dal loro soggettivo punto di vista - questa esecuzione sia la preferita!
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