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29 luglio, 2023

Appendice al recente Parsifal bayreuth-iano

Dato che lo streaming video della prima non era (come previsto) captabile fuori dall’area geografica crucca, il mio precedente, succinto commento a caldo era limitato forzatamente ai soli suoni, diffusi da varie emittenti radio, inclusa la nostra.

Poi è comparso su youtube anche un video integrale, la cui vita è stata brevissima, come potevasi immaginare, subito spezzata da ricorsi della filiera che cercherà di arricchirsi con i DVD di prossima produzione. Io avevo giusto fatto in tempo a scaricare il prezioso reperto, per potermelo poi gustare e giudicare con calma, quando, come l’araba fenice, ne sono subito spuntati addirittura altri due: uno e due

Così adesso sono in condizione di dire due cosette anche sulla messinscena (o meglio, su ciò che la regìa televisiva ha mostrato della messinscena di Jay Sheib).

Una volta tanto devo confessare di non condividere la chiara contestazione al team registico, già emersa al termine del primo atto e poi esplosa abbastanza rumorosamente all’uscita finale.

Poiché, al di là di alcune trovate discutibili (o di difficile decifrazione) come la presenza della donna che si accompagna (ehm… lascivamente) a Gurnemanz durante la seconda parte del Preludio (che sia una visione onirica del vegliardo?) e poi torna accanto a lui alla fine, oppure quella del personaggio cui Parsifal, dopo la sua fulminante reazione al tentativo materno-meretricio di adescamento da parte di Kundry, cava letteralmente il cuore (più …una pietra?) dal petto… mi pare che la concezione di fondo del regista rispecchi abbastanza fedelmente quella che secondo molti (incluso il sottoscritto) è l’interpretazione più seria dell’ultimo dramma wagneriano: la redenzione della Religione secolarizzata e dell’Arte degenerata da parte del folle Artista-Redentore Parsifal (al secolo il medesimo Richard Wagner).

Il momento topico di tale concezione viene risolto dal regista mostrandoci Parsifal che, dopo avere scoperto il Gral, mette in pratica la sua decisione di lasciarlo scoperto per sempre… scaraventandolo a terra e mandandolo in mille frammenti!

Per il resto, un approccio che definirei piuttosto minimalista, un po’ à-la-Wieland, ecco.
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PS: nel caso che anche i due nuovi video vengano inceneriti come il primo, affinchè i rari-nantes che ancora si ostinano a leggere questo blog possano condividere (o contestare) quanto ho esposto, faccio anch’io un’operazione piratesca, mettendo loro a disposizione il video proibito (così faccio indirettamente anche un test sulla severità e capillarità dei controlli nella rete…)

25 luglio, 2023

A Bayreuth ha debuttato un Parsifal (lato suoni) più che positivo

Si è quindi aperto oggi pomeriggio il 111° Festival di Bayreuth, con una nuova produzione di Parsifal curata da Jay Scheib per la messinscena e da Pablo Heras-Casado per la direzione e concertazione.

Il Direttore spagnolo lo scorso dicembre aveva interpretato il second’atto all’Auditorium di Milano con laVerdi, mostrando di sapersi ben destreggiare nei meandri di quest’opera complessa e per molti tuttora inafferrabile. (Io personalmente aderisco con convinzione a quella corrente di pensiero che spiega Parsifal come atto finale della missione wagneriana di redimere Arte e Religione, come ho cercato di sintetizzare in questo scritto

Beh, mi sento di dire che il Kapellmeister iberico abbia superato a pieni voti l’esame con una direzione equilibrata (poco meno di 4 ore nette): né insopportabilmente sostenuta, ma neanche esasperatamente espressionista.

Da elogiare la meticolosità che ha messo nello scavo dei particolari (cose che magari si notano solo con la partitura sotto gli occhi): ad esempio alcune microscopiche prese di respiro, quando fra le battute non esiste segno di legatura, o anche qualche appropriata variazione agogica. I buh che hanno accolto (insieme a irrituali applausi) la calata del primo sipario giurerei non fossero indirizzati a lui!

Ma presumibilmente alla regìa (e/o alla drammaturgia…) che alla fine è stata accolta con freddezza (benevolo eufemismo) ma che lasciamo giudicare a chi ha visto.

A parte Heras-Casado (e all’Orchestra, sempre impeccabile) e al Coro di Eberhard Friedrich (ancora una volta a livelli sontuosi) bene mi pare di dover dire per il gran vecchio Gurnemanz, cui Georg Zeppenfeld ha prestato la sua autorevole padronanza del ruolo-chiave del dramma; poi Derek Welton, un Amfortas convincente per il pathos che ha saputo creare attorno alla sua figura tormentata; felice la prestazione della Elina Garanča, che ha messo in dovuto risalto le due facce di Kundry (pietosa Maddalena e blasfema adescatrice). Andreas Schager mi è parso un Parsifal stranamente a corrente alternata, un po’ in difficoltà nel second’atto. Jordan Shanahan ha dignitosamente impersonato il cattivone nonchè casto (così lo apostrofa perfidamente Kundry) Klingsor. Tobia Kehrer è stato un onesto Titurel. Cavalieri del Gral e Fanciulle fiore in ottima forma, ecco tutto.

16 dicembre, 2022

laVerdi 22-23. 9

Come il precedente, anche il 9° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano è aperto da Mozart, per poi essere seguito da un’originale proposta di teatro musicale: Wagner!

Sul podio dell’Auditorium fa il suo esordio il 45enne Pablo Heras-Casado, il che spiega il perché del Wagner in programma: il prossimo 25 luglio 2023 il direttore andaluso scenderà (primo spagnolo nella storia) nella fornace dell’Orchestergraben di Bayreuth per dirigervi (a 141 anni di distanza dalla prima) l’opera inaugurale (e quindi più importante) dell’edizione 111 del Festival, che il nostro sta quindi cominciando a preparare per tempo!   

Però si comincia col Teofilo e la sua Sinfonia n. 38 K 504, detta Praga perché presentata all’inizio del 1787 nella capitale ceca, che pochi mesi dopo avrebbe portato alla luce il capitale Don Giovanni. Sinfonia che – a dispetto dei tre soli movimenti, mancando del Menuetto – è assolutamente innovativa, nella forma e nella sostanza, avendo ben poco da invidiare al terzetto delle ultime!

Heras-Casado ne ha ben messo in evidenza le qualità, a partire dal solenne e quasi bombastico Adagio introduttivo in stile haydn-iano dal quale esplode poi l’Allegro che presenta – in luogo dei classici due temi della forma-sonata - dei gruppi tematici e dei motivi che animano poi lo sviluppo e la ripresa. Analoga caratteristica dell’Andante, ricco di spunti motivici organizzati e trattati anche qui con esposizione, sviluppo e ripresa. La forma-sonata, assai liberamente interpretata, innerva anche il Presto finale, che il Direttore scandisce davvero a gran velocità mettendo a dura prova la compattezza dell’orchestra.

Accoglienza molto vivace da parte di un pubblico ristretto (forse la giornata proprio autunnale non invitava ad uscire di casa…)
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Pubblico che mi è parso rinforzarsi di numero dopo l’intervallo, mosso forse dalla curiosità per questa insolita proposta: il secondo atto di Parsifal. Che certo è il più adatto (o il meno complicato) dei tre da presentare in un concerto di questo tipo: tre soli interpreti (tenore-mezzosoprano-baritono, praticamente uno dei classici terzetti da melodramma) più un’infornata di soprani: sei soliste divise in due gruppi (sono le Fanciulle-Fiore di Klingsor: Claire Coolen, Miriam Gorgoglione, Min Ji Kim, Barbara Massaro, Noemi Muschetti, Nicole Wacker) e il coro femminile (guidato da Massimo Fiocchi Malaspina) pure in due gruppi; una scena di fatto statica e una durata non proprio biblica.

Le sei soliste si schierano proprio davanti al coro, mentre ai lati del podio trovano posto: a sinistra (per chi guarda) Marina Prudenskaya  (Kundry) che canta dall’inizio alla fine; a destra: dapprima Samuel Youn (Klingsor) poi Tuomas Katajala (Parsifal). Per il suo ultimo intervento (a scagliare la sacra lancia contro Parsifal) Youn si sposta in… galleria.

Questo atto presenta una musica ben lontana dall’atmosfera sacra e austera (e, per taluni, insopportabile) degli altri due atti: qui Wagner – per sua stessa ammissione – tira fuori tutta la sua variegata palette sonora: per chiarirci quali trucchi e inganni l’arte degenerata del degenerato Klingsor metta in atto con l’obiettivo di traviare l’artista puro Parsifal (=Wagner) servendosi di Kundry e delle Fanciulle-fiore come facili esche e false muse. (Qui alcune mie note che spiegano questa interpretazione del dramma.)

Che dire: per essere il primo approccio a questa musica, orchestra e coro hanno ancora una volta mostrato di quanto sono capaci, evidentemente guidate con autorevolezza da Heras-Casado e Malaspina.

Più che apprezzabile la prestazione dei tre personaggi protagonisti: metterei su tutti Youn (veterano ormai a Bayreuth); poi la Prudenskaya (anche lei ha già cantato lassù) e infine il finnico Katajola, voce non proprio da Heldentenor, ma che insomma ha fatto la sua onorevole figura.

Grande accoglienza del pubblico che ha più volte richiamato al proscenio, anche con applausi ritmati, solisti e direttori. Insomma: una bella serata di musica e per Heras-Casado un buon viatico nel lungo cammino verso il tempio del Gral! 

25 luglio, 2016

Bayreuth dei poareti

 

Bayreuth ha aperto il suo annuale caravanserraglio con un nuovo Parsifal francamente modesto (almeno all’ascolto radiofonico, ma i testimoni oculari pare estendano l’attributo anche all’allestimento). Insomma: la montagna collina verde ha partorito il classico topolino (come non fossero bastati quelli di Neuenfels!)

Quasi avessero previsto il misero parto, anche i grandi di Germania (e colonie) non si sono fatti vivi, naturalmente con la scusa che l’Isis gli potesse fare qualche scherzetto, ad esempio convertendo in kamikaze qualche insospettabile fanciulla-fiore (pare in effetti che il regista ci abbia pensato, strasmile!)

Salvo la Pankratova, che ha sfoggiato le sue notevoli doti come Kundry, e il navigato Haenchen - che è il classico vecchio marpione a cui puoi chiedere di fiondarsi a Bayreuth per debuttarvi a 70 anni con 3 settimane di preavviso, e lui ti garantisce di evitare un fastidioso forfait, oltretutto tenendo tempi che pare fossero proprio quelli di Wagner-1882! – il resto del cast mi è parso proprio scombinato: a partire dal Parsifal Nemorino di Vogt, che le note le canta tutte e bene, ma come le canterebbe Bocelli, ecco. Per non parlare di Gurnemanz e Amfortas che si debbono essere per errore scambiati le parti: così il primo è stato cantato da un baritono e l’altro da un basso...

Certo, orchestra e coro sono inossidabili e su loro nulla da dire, ma insomma mi pare abbia fatto bene l’Angelona ad evitare i rischi.  
    

06 luglio, 2016

Parsifal ritrova un tutore


A Bayreuth hanno reclutato in fretta e furia il sostituto di Andris Nelsons per il prossimo Parsifal: si tratta di Hartmut Haenchen, debuttante nella torrida cantina della Festspielhaus. 

Forse per dare importanza alla nomina, il sito del Festival pubblica un suo curriculum kilometrico. Sarà, personalmente l’ho udito dal vivo una sola volta, alla Scala: fu un Holländer francamente mediocre. 
Il 25 c.m. (sia pure per radio) potremo giudicare.

02 luglio, 2016

Parsifal torna orfano


La novità di Bayreuth-2016 (edizione 105 del Festival wagneriano, la prima della nuova gestione Kathi-faso-tuto-mi) è la nuova (10ma nella storia) produzione di Parsifal, che aprirà la kermesse il 25 p.v. Questa la locandina come appare ancor oggi sul sito del Festival:


Come si vede, manca il Kapellmeister (Musikalische Leitung, in gergo) !!! 

Povero Parsifal, un orfanello abbandonato anche dal suo ultimo tutore (Andris Nelsons).

22 gennaio, 2014

A Bologna il Parsifal truccato da Castellucci


Eccomi a raccontare del Parsifal bolognese. Visto la sera successiva al giorno della dipartita di quel bolognese d’adozione che rispondeva al nome di Claudio Abbado.



Prima dell’inizio, Nicola Sani ha ricordato il Maestro e annunciato un desiderio del nipote, Concertatore di questo Parsifal: un minuto di silenzio prima dell’inizio e nessun applauso nei due intervalli (come del resto si faceva nella Bayreuth dei tempi d’oro).

Lo spazio e il tempo

È davvero deprimente constatare il livello di ignoranza distribuita che caratterizza la nostra civiltà. Ignoranza che si manifesta sotto forma di leggerezza, approssimazione e in sostanza menefreghismo rispetto agli oggetti di cui si deve trattare.

Zum Raum wird hier die Zeit (Il tempo qui si fa spazio). Un verso topico del Parsifal, cantato da Gurnemanz nel primo atto al momento, per lui e per il ragazzo folle, di avviarsi verso il tempio del Gral.

Un verso impiegato proprio da Claudio Abbado a fondamento di un ciclo di rappresentazioni di Parsifal alla Philharmonie di Berlino nel 2001-02 e ripreso sul blog dei suoi fedelissimi. E usato dal Teatro Comunale di Bologna come sottotilolo al volantino elettronico (e anche del libriccino stampato) di annuncio della stagione. Un verso richiamato dal protagonista bolognese di Parsifal sul suo blog, dove ha dedicato a questa produzione una lunghissima e per certi versi illuminante serie di post già in occasione delle recite a Bruxelles).

Notato nulla di strano nella traduzione italiana (e inglese, per Richards) dei tre riferimenti? Il puro e semplice capovolgimento del concetto! Ecco, i traduttori e soprattutto i responsabili delle pubblicazioni di quella scellerata traduzione sono la testimonianza palese della suddetta ignoranza distribuita.  
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Può darsi che Wagner, per la sua allegoria, si sia ispirato ad Eraclito e Parmenide, per cui l’entrata nel Tempio del Gral rappresenta il passaggio dal tempo (il divenire di Eraclito) cioè il mondo sensibile, materiale, prosaico, caduco, allo spazio (l’essere di Parmenide) uno stato definitivo, immobile e ineffabile, dove il tempo si dilata fino a scomparire; in altre parole l’eternità, la trascendenza, il metafisico.

Ma possiamo anche pensare che Wagner abbia anticipato di un quarto di secolo… Albert Einstein!

Kein Weg führt zu ihm durch das Land, und niemand könnte ihn beschreiten, den er nicht selber möcht' geleiten (Al Gral via non è, che conduca attraverso il paese: nessuno mai percorrerla potrebbe, che egli stesso non volesse guidare). Cioè: non ci si muove verso il Gral, ma vi si è risucchiati! E infatti così osserva lo stupefatto Parsifal: Ich schreite kaum, doch wähn' ich mich schon weit (Cammino appena, eppur mi sembra già d'esser lontano). E qui Gurnemanz gli aveva dato quell’apparentemente criptica risposta sul tempo che si fa spazio.

Oggi noi conosciamo il Paradosso dei gemelli (qui, da 4’55”, spiegato anche da Crozza-Zichichi): quello dei due che viaggia ad altissima velocità nello spazio e poi torna sulla Terra è invecchiato meno di quello che se ne è stato in poltrona a casa sua. Perché la teoria della relatività ci spiega che il tempo è una variabile dipendente (dal sistema di riferimento) e che quello del gemello viaggiante rallenta, si dilata. In un certo qual modo si potrebbe dire che per lui – come per Gurnemanz e Parsifal, risucchiati dalla potenza del Gral - il tempo diventa spazio

Ecco un bello spunto per un regista che volesse davvero mostrarci un Parsifal innovativo!
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Invece qui abbiamo a che fare con un Parsifal di cui, per la verità, già si sapeva tutto (a mezzo DVD) a livello di allestimento, ormai… stagionato per ben tre anni, dal debutto nel 2011 a La Monnaie di Bruxelles, accolto mediamente da peana per il regista e da osanna per la direzione musicale. Qui a Bologna il regista è sempre lui, mentre è quasi tutta nuova la compagine dei Musikanten, tranne (per la verità) proprio i due protagonisti.

A leggere come Castellucci ha approcciato Parsifal (lo scritto compare anche sul programma di sala) vengono… i brividi (smile!) Illuminante – ancor più delle Note di regìa - è questa intervista in cui Castellucci racconta la sua vision del dramma. Un put-pourri di banalità, tipo l’opera preferita di Hitler e di idee ardite, tipo il sangue è quello mestruale (certo Wagner in materia era assai più ferrato di Nietzsche, smile!) Poi: Parsifal non è un eroe, perché non fa niente (dimenticando le imprese che il ragazzo compie prima di arrivare a Monsalvat - abbattere giganti, nientemeno! - e soprattutto l’autentica carneficina che il nostro provoca sulle mura del castello di Klingsor!) Poi ecco che il pitone bianco si è mangiato la colomba, con elencazione di tutti i significati del pitone albino nella storia e nell’arte… (peccato davvero che Wagner non ci abbia fatto mente locale – e sì che ha messo una cintura di pelle di serpente addosso a Kundry - ma Castellucci è qui apposta per rimediare alla svista). E poi comico velleitarismo (ho studiato l’opera troppo a fondo…) seguito da involontarie ammissioni (…poi l’ho rivoltata come un calzino). Interpretazioni cervellotiche (Kundry è in grado di guarire Amfortas) e palesi contraddizioni (Kundry cerca sinceramente l’amore di Parsifal e per averlo… lo inganna).

Insomma, eccone un altro che ti dice: Oh, mica vorrai sorbirti per l’ennesima volta quella boiata pazzesca del Parsifal di Wagner! Vieni mo’ qua, che te lo do io il Parsifal giusto! (stra-smile!) Naturalmente nell’intervista ci sono anche considerazioni del tutto condivisibili (e ci mancherebbe anche!) che però all’atto pratico (ciò che si vede in scena) vengono più che altro sconfessate.

Più organiche e strutturate, anche se criptiche la loro parte, oltre che fondamentalmente irrispettose della lettera (come minimo) del dramma wagneriano, sono le considerazioni esposte, sempre sul medesimo documento, dalla drammaturga Piersandra Di Matteo. L’impressione che se ne ricava – e sarà in pieno confermata dai fatti – è di una ossessiva ricerca di un’interpretazione innovativa e, per lo spettatore, stupefacente, del dramma di Wagner. Il che porta ad una fatale sovraesposizione di concetti, idee e persino di simboli, qui introdotti in gran dovizia, dopo aver buttato nel cesso (avendone dottamente teorizzato e giustificato la rimozione!) il Gral e la Lancia, il Cigno e la Colomba: Nietzsche, il pitone, il cerchio-specchio, la bacchetta da Kapellmeister di Klingsor e gli ingredienti venefici da lui impiegati, i kalashnikov imbracciati dalle fanciulle-fiore, le scritte sul muro, le funi rosse (o bianche), l’arbustello del terzo atto, tanto per citarne solo alcuni.

I cardini essenziali del dramma, così come fissati da Wagner, vengono bellamente rimossi se non addirittura sconfessati. Magari per dare il massimo risalto – con trovate spettacolari e intelligenti di per sé – ad aspetti che poco hanno a che fare con l’essenza del dramma medesimo. Siamo sempre lì: il regista, pensando in buona fede di arrecarle valore aggiunto, costruisce una sua personale visione dell’opera, sulla quale poi crea uno spettacolo che magari sarà anche intelligente, coinvolgente, profondo, attuale fin che si vuole.

Peccato che non abbia più nulla a che fare con l’originale. E ciò che viene matematicamente penalizzato in questi casi è in primo luogo la musica. Poiché è musica – oh, parlo ovviamente di Wagner, mica del Rossini degli imprestiti, con tutto il rispetto - composta per il (e cucita su misura del) soggetto originale; e non calza più sul soggetto derivato, anzi spesso e volentieri stride maledettamente con esso. E quando in scena si vede qualcosa che fa a pugni con ciò che si sente, è la rovina. Per quanto bella, affascinante, interessante, intelligente e coinvolgente sia quella vista.

Cerco ora di esemplificare.   
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Comincio dal fondo, perché è l’aspetto più importante della questione, di una semplicità proprio cristallina. Dico: qualunque lettura del testo, anche la più strampalata e ardita, e soprattutto qualunque interpretazione della musica (quelle celestiali 54 battute tutte in maggiore, accuratamente depurate - si noti bene! - da ogni e qualsivoglia precedente traccia di dolore, su cui cala il sipario) indipendentemente da voli di colombe o di cigni o di… pitoni, non può non farci concludere che si tratti di un finale – i cui presupposti sono evidentemente gettati da tutto ciò che precede – di redenzione.  

Dopodichè dietro a quel termine ognuno ci metta pure tutto quel che gli passa per la testa: redenzione dal peccato originale, dal vaticano dello ior, dall’arte degenerata, dal maschilismo o dalla pedofilia, dal capitalismo selvaggio o dal comunismo reale o da alqaeda, dall’alienazione o dal consumismo, da hitler o stalin o berlusconi o... castellucci, o da tutto quer che je pare ar reggista… Ma lo scenario è quello, inequivocabilmente, tassativamente.

Ecco ciò che Wagner scrive (testo, didascalie) da vedersi mentre si odono quelle 54 battute: Raggio luminoso; abbagliante fulgore del "Gral". Dalla cupola scende a volo aperto una bianca colomba, arrestandosi sul capo di Parsifal. - Kundry, lo sguardo levato verso di lui, cade lentamente a terra esanime davanti a Parsifal. Amfortas e Gurnemanz, in ginocchio, rendono omaggio a Parsifal, il quale traccia col Gral un gesto di benedizione sui cavalieri adoranti.

Ora, diciamone pure tutto il male possibile o ridiamoci sopra a crepapelle, ma questa è la conclusione che Wagner dà al suo dramma, punto. Se non ci piace, possiamo benissimo far a meno di ascoltarla, di vederla e di… metterla in scena. Castellucci, che ha sciorinato per quattro ore e passa una magistrale sapienza nell’uso delle luci, ci fa vedere qui l’esatto contrario (a proposito di calzini rivoltati!) di ciò che Wagner prescrive. E non parlo certo della mancanza della colomba (possiamo davvero fare a meno di simboli materiali – pitone compreso! - che generano più equivoci che altro) ma qui abbiamo il palcoscenico che si svuota progressivamente delle moltitudini che lo avevano invaso e piomba nell’oscurità mentre le luci piene si accendono in sala…
  
Parsifal? Lui resta solo come un cane, abbandonato da tutti, per ultima da Kundry: cioè resta lì precisamente come alla fine del primo atto - quando nulla aveva capito di ciò che era accaduto dinanzi ai suoi occhi e Gurnemanz gli aveva dato dell’oco - proprio come se nulla sia accaduto nel frattempo! E ciò mentre dall’orchestra sale quella musica che invece ci dice, con la forza espressiva che solo Wagner sapeva infonderle, che tutto è cambiato, per Parsifal e per l’Umanità! Musica quindi mirabilmente funzionale alla scena così come immaginata da Wagner, musica che diventa invece del tutto incomprensibile se associata a ciò che ci mostra Castellucci.

E quindi chiunque – si chiami pure Castellucci o Bieito o Schlingensief o Konwitschny o Berghaus, tanto per andare un po’ a ritroso nel tempo – mi mostri una conclusione del dramma in termini pessimisti, o addirittura nichilisti, o anche semplicemente qualunquisti o agnostici, ai miei occhi fa la figura dell’emerito ciarlatano. Che pretende di presentarmi, magari ammantandole con ampie dosi di filo-psico-sociologia-un-tanto-al–chilo, le sue concezioni o le sue fisime, o le sue ardite seghe (toh, a proposito di Nietzsche, smile!) mentali. Impiegando alla bisogna – e adulterandola (ops, scusate: de-strutturandola, per rispetto del gergo del moderno Regietheater) – la materia originale che ci ha lasciato il più grande Artista di teatro musicale che la nostra civiltà abbia finora prodotto.   
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Altro esempio illuminante degli abbagli che prende il regista, nella sua smania di mostrarci quelli che per lui (non per Wagner!) sono aspetti del dramma della massima rilevanza, quindi da portare in primissimo piano, è ciò che vediamo nel secondo atto, in particolare in tutta la prima parte.

Anche un ingenuo fa presto a capire che le fanciulle-fiore, e Kundry con loro, rappresentano la mercificazione del sesso e lo sfruttamento delle qualità libido-eccitanti della donna da parte di Klingsor, il mago che le ospita nel suo castello (di menzogne) per usarle a suo profitto. E che per sottometterle possiamo certo immaginare impieghi tutti i mezzi disponibili nel suo laboratorio di mago-alchimista, che Wagner ci descrive sommariamente ad inizio d’atto. Ma domandiamoci: è proprio questa fase, diciamo così, di sadica preparazione delle ragazze al compito che le aspetta ciò di cui Wagner ci vuol parlare qui? È questa l’allegoria sottesa alla prima scena dell'atto? Prima di rispondere leggiamo il libretto ed ascoltiamo la musica. 

Allora: le ragazze-fiore sono sicuramente agli ordini di Klingsor, ma per svolgere un ben preciso lavoro. Quello di adescare e sedurre i concorrenti del loro padrone (i cavalieri del Gral) portandoli a disertare e ad ingrossare le fila del suo esercito, così da indebolire le difese di Monsalvat e consentire al mago di conquistarlo e di divenirne finalmente il signore assoluto. Per questo Klingsor le ricopre di vesti preziose e di inebrianti profumi; e per questo Wagner le riveste di una musica celestiale.

Sono sfruttate da un padrone? Sì, ma in una prigione dorata, dove possono persino godere di una vita affettiva, legate proprio a quei cavalieri da loro sedotti e che adesso sono, come loro, al servizio del loro stesso padrone. Non altrimenti si spiega il loro dolore al vedere i compagni massacrati da Parsifal lungo la sua scalata alle mura del castello; e non altrimenti si spiega il loro iniziale risentimento contro quel ragazzo che ha loro rovinato la… famiglia.

Insomma, qui ci troviamo in una specie di azienda, guidata sì da un pazzoide, il quale però non ha come obiettivo primario ed esclusivo, cioè come fine ultimo, la riduzione della donna in schiavitù, ma la conquista del mercato (comunque lo si voglia filosoficamente intendere) e che a tale fine (demolire la concorrenza) impiega come mezzo un’organizzazione di cui fanno parte (in qualità di sfruttate e sfruttati, certo, come lo sono tutti i lavoratori dipendenti in tutte le aziende di questo mondo) sia femmine che maschi.

Ecco perché Castellucci sbaglia clamorosamente (per me) quando invece pone al centro della sua interpretazione della scena l’esposizione smaccata degli atti di volgare schiavizzazione della donna e lo scempio sado-maso del corpo femminile, sostituendo alle fanciulle-fiore le fanciulle-salsiccia, che lui ci presenta mentre Klingsor - evidentemente dopo averle imbottite di tutte le sostanze venefiche che il regista ci ha elencato (patologie indotte comprese) sul sipario fra primo e secondo atto - le lega e le appende al soffitto della sua macelleria, per organizzarne l’esposizione. Così facendo, Castellucci finisce per perdere di vista il concetto fondamentale che è alla base dell’allegoria wagneriana: la posizione e il ruolo di Klingsor rispetto a Monsalvat e le profonde motivazioni che ne informano le scellerate iniziative. Insomma, vien da pensare che qui il sadico non sia Klingsor, ma… il regista (mega-smile!)

La sua, di Castellucci dico, è una scelta che lo porta contemporaneamente anche a stravolgere in modo intollerabile le caratteristiche estetiche del second’atto: sì, perché affinchè l’azione ammaliatrice e seduttrice di quelle donne possa aver successo è assolutamente necessario che tali femmine vengano appunto vestite e profumate come fossero fiori, proprio come ammaliante e seducente è la musica che le accompagna. Quello in cui Parsifal si avventura deve apparire a lui – e anche a noi spettatori, che pure, a differenza sua, siamo già edotti dell’inganno che vi si nasconde – come un ambiente idilliaco, pervaso da bellezza e amore.  (Solo più tardi anche Parsifal scoprirà che in realtà quella è una trappola gestita da un lestofante, un nemico mortale che si serve anche di donne a lui assoggettate per corromperlo e condurlo a perdizione.) Ma insomma, non è un caso se Wagner pensava ai giardini di Ravello – non ad una sala di macellazione - mentre ambientava questa scena!

Invece Castellucci ci mostra un Parsifal che è sul punto di farsi ammaliare e sedurre dalle orripilanti fanciulle-salsiccia, poi trasformate in marionette nude! Col che la scena scade addirittura nel ridicolo. Peggio ancora quando le fanciulle ritornano armate di mitra! Insomma, ciò che il (vero) mago Wagner ha immaginato e mirabilmente realizzato (soprattutto in musica, lo ripeto!) cioè la presentazione della fallacia del mondo di Klingsor, dove la contraffazione più subdola e l’inganno più bieco si nascondono dietro le apparenze più accattivanti, tutto ciò il regista lo butta nel cesso, presentandoci una scena di iper-realismo tanto crudo e ributtante quanto fuori luogo. Scena che reclamerebbe – e questo è sempre il punto fondamentale, accidenti - il supporto di una musica totalmente diversa

(A merito del regista invece va riconosciuto, e sembra paradossale, che l’immagine più iconoclasta di questa scena - la vagina esposta in primo piano - è proprio quella più pertinente al contesto dell’incontro Parsifal-Kundry.)

A proposito, mentre Kundry bacia Parsifal, che poi si ritrae inorridito, sulla zanzariera passano le immagini di un coito (uno stupro peraltro, direi). Qui abbiamo almeno due interpretazioni: la più banale, che si tratti di un didascalico riferimento (per i disattenti o i non informati) ad un precedente coito, fra la stessa signora e Amfortas. La seconda, ben più importante, che sia la risposta che da 165 anni tutto il mondo aspettava con ansia alla domanda: ma da dove è uscito fuori ‘sto Lohengrin?  

Infine, quello che tutti gli spettatori, anche i più sprovveduti, devono aver capito al volo è come mai, a un certo punto, senza apparente ragione, la macelleria scompaia nel nulla, con tutto il bendidio che conteneva. E questo è il più gran merito dell’eliminazione di tutti i simboli di Wagner…  
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Il primo atto è forse quello meno rovinato, anche se non vi mancano gratuite invenzioni e aperte contraddizioni del testo wagneriano.

Foresta ombrosa e austera, ma non tetra, così Wagner. Beh, Castellucci, in vena di rivoltare calzini, ci mostra un luogo di una tetraggine assoluta, in certi momenti non si vede letteralmente nulla. Gurnemanz&C sono ridotti a cespugli ambulanti, tanto che, a voler fare facili battute, mi vien da pensare che il regista stesse anche mettendo in scena un Macbeth e abbia per errore portato in Parsifal la scenografia predisposta per Birnam (smile!)

Al primo arrivo di Amfortas, portato al laghetto per il bagno ristoratore, Wagner compie uno dei suoi miracoli, legando mirabilmente il tema disperante del dolore (Nach wilder Schmerzensnacht, dopo una notte selvaggia di dolore…) a quello invero sbudellante del radioso mattino che illumina la foresta (…nun Waldes Morgenpracht! la selva, ora, in mattutino splendore!) Ecco, sono meno di due minuti di arte straordinaria, una delle tante perle che Wagner ci offre perché ne possiamo esteticamente e spiritualmente godere. Castellucci? Tutto come prima, fogliame impenetrabile, su cui galleggia un canotto pneumatico che attraversa la scena. Memorabile!

Non parliamo della Verwandlung, con la foresta che si… ritira in tutte le direzioni, rasa al suolo da boscaioli armati di motoseghe che lasciano, invece che il Duomo di Siena, un un letto di foglie e rami per quei quattro sfigati di Gurnemanz&C, mentre sullo sfondo vediamo una volgare raffineria: oh già, parliamo di raffinazione dello spirito! (Però tutti i record son fatti per essere ineluttabilmente battuti, quindi la Verwandlung del terz’atto sarà ancor meglio, stiamone certi!)

Nulla si vede dello scoprimento del Gral, con la scena chiusa da un velone bianco su cui campeggia una virgola, o un apostrofo, o (in notazione musicale) un segno di respiro. Né il Gral si vedrà alla fine, dato che per il regista è una non-cosa, una mancanza, insomma un vattelappesca su cui è meglio non indagare oltre. 
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Una delle conseguenze della visione sostanzialmente pessimistica del regista consiste nel cestinare senza pietà tutta la fondamentale problematica wagneriana (caratteristica non solo del Parsifal) legata alla Natura (hai detto niente!) Dopo le bizzarrìe del primo atto (Monsalvat=Birnam) e lo scempio del secondo atto (Ravello=macelleria) la cosa toccherà il suo zenit nel terzo, al momento del cosiddetto Incantesimo del Venerdi Santo.

Esso viene ridotto - da stupefacente inno alla Natura finalmente tornata ad essere tutt’uno con l’Uomo - ad un’interminabile processione di gente sbandata (Pellizza credo non gradirebbe proprio…) che marcia su un tapis-roulant. Cioè in realtà sta ferma, e si noti bene l’implicazione filosofica della cosa, a proposito di pessimismo della concezione registica e di Paradosso dei gemelli! (Nota tecnica: il nastro che è posto quasi al proscenio e occupa tutta la larghezza della scena, ha solo un paio di metri di profondità, ci camminano massimo, sfalsate, due file di persone, tutte le altre centinaia che stanno dietro si limitano ad agitarsi per simulare la camminata. Chissà chi fa più fatica?)

Sentiamo Parsifal, selon Wagner: (Parsifal si volta e guarda con dolce estasi sulla selva e sul prato, che ora rilucono in luce antimeridiana.) Oh come bello m'appare oggi il prato! Bene io mi trovai tra fior di meraviglia, che intorno a me cupidi s'attorcevan fino al capo; e pure mai io vidi sì mansueti e teneri, fiori e steli in fioritura; né mai così tutto odorò di cara fanciullezza, né così mi parlò intimo e soave!

Capita l’antifona? Qui ci sono i fiori veri, naturali, gli steli in fioritura, altro che le ingannevoli fanciulle-fiore di quel castrato di Klingsor! E Gurnemanz ci aggiunge un’autentica laude alla Natura come parte del creato, agli esseri animati che nascono, crescono e muoiono con naturale innocenza. Ma proprio mentre canta (Wagner) che in quel giorno gli uomini evitano di calpestare erba e fiori, che ti fa, l’ecologista targato Castellucci? Sradica l’unico arboscello presente in ettari ed ettari di deserto per farne una corona d’alloro a Parsifal! (Ma Greenpeace non interviene, dico io?)

Ho già anticipato della seconda Verwandlung, che qui proprio non c’è del tutto, perché surrogata dal protrarsi della finta camminata sul rullo della palestra.

In precedenza, ma solo secondo Wagner, Gurnemanz aveva continuato a parlare a Kundry, che voleva farsi in quattro per Parsifal; persino l’aveva bonariamente rimproverata quando lei aveva recato acqua per rianimarlo; poi entrambi avevano preparato il battesimo di Parsifal, che aveva baciato castamente Kundry, dopo che la donna gli aveva lavato ed asciugato i piedi.

Castellucci? Kundry scompare letteralmente dopo il suo risveglio e la rivediamo solo alla fine, quando passa a salutare Parsifal prima di aggregarsi al gregge che si allontana. Gurnemanz e Parsifal parlano al vento ed accarezzano il vuoto dinanzi a loro, con movimenti mutuati dallo yoga. Insomma: Wagner buttato nel cesso, tutta roba, avrà pensato Castellucci, degna di donnicciuole svenevoli o di novizie al convento.

Eh già, le scorie bigotte che Nieztsche rimproverava al Maestro. Qui invece il più arido qualunquismo anima quelle moltitudini marcianti verso il nulla nel più arido degli spazi urbani cementificati. Ancora una volta: per questa scena servirebbe ben altra musica, capito Wagner?       
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Ora basta buttare in vacca la regìa e parliamo appunto di cose serie: la musica!

In complesso mi sento di dichiararmi moderatamente soddisfatto: la compagnia di canto è di livello più che discreto, da Gábor Bretz, che è un Gurnemanz convincente, forse poco ieratico (secondo i miei gusti) a Detlef Roth, che capitalizza bene la sua dimestichezza con il ruolo di Amfortas, da lui portato anche a Bayreuth. Gradite sorprese (per me che partivo con qualche riserva mentale su di loro) il Klingsor di Lucio Gallo, e la Kundry di Anna Larsson.    

Arutjun Kotchinian cantava Titurel dal suo sarcofago in… loggione e non ha demeritato, come le fanciulle-fiore, a loro volta relegate ai due lati della buca, mentre sul palco si esibivano le… salsicce. Positiva anche la prestazione dei cori di Andrea Faidutti e Alhambra Superchi, peraltro quasi sempre relegati dal regista dietro sipari o quinte.

Roberto Abbado mi pare abbia superato onorevolmente questo difficile battesimo, mutuando ora da Kna (primo atto in particolare) ora da Boulez, così da… stare in media (smile!) A parte le battute, una direzione attenta, con qualche sbavatura sul fronte del fracasso che ha in qualche occasione sommerso le voci. Orchestra forse non al massimo, ma il banco di prova è davvero dei più temibili.
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Considerazioni finali: un grazie grandissimo al Teatro per l'immane sforzo organizzativo messo in campo, un vero miracolo stante la condizione pre-agonica del nostro sistema-cultura. Resta (ma questa è ovviamente la mia reazione personalissima) il rammarico per la discutibilità della proposta artistica.   
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Post scripta.

Ho già scritto anni fa della mia personale vision del Parsifal, e siccome da allora non è cambiata (non c’è riuscito nemmeno Castellucci, a farmela cambiare, smile!) rimando i milioni di curiosi a quel lontano post.

Invece consiglio seriamente a tutti di ascoltare (basta andare sul tubo) la versione in lingua italiana nell’esecuzione di Vittorio Gui del 1950 con l’Orchestra RAI di Roma (è stata anche trasmessa qualche settimana fa da RadioFD). A parte che ci si trova in Kundry una 27enne allora quasi sconosciuta (indovinare chi…) la cosa che sorprende (perlomeno che mi sorprende, essendo personalmente scettico sulle traduzioni, in specie di Wagner) è la qualità assoluta della versione ritmica di Giovanni Pozza, che non toglie nulla alla pregnanza del testo, anzi ce lo rende quasi più caldo e vicino. 

Wagner il saccheggiatore. L’incipit del tema principale di tutto il dramma (l’Agape) viene dal caro genero:

Excelsior, introduzione alla cantata Le campane del Duomo di Strasburgo (1874).

31 gennaio, 2011

Parsifal al Regio di Torino



 
Dopo il Boris, questo Parsifal è l'altro (per me) grande appuntamento della stagione del Regio di Torino. L'allestimento – con qualche variante - è quello presentato nel 2007 al SanCarlo: regìa di Federico Tiezzi e scene di Guido Paolini.

 
La ripresa radiofonica della prima del 26 scorso aveva lasciato davvero un'impressione sontuosa, che è stata pienamente confermata dalla rappresentazione di ieri pomeriggio.

 
Non saprei come aggettivare la prestazione di Kwangchul Youn, tale è stato il livello di assoluta nobiltà raggiunto dal basso coreano: chissà, forse sono proprio le sue origini orientali a permettergli di calarsi tanto profondamente nello spirito (ma anche nel fisico, proprio da ieratico monaco nepalese) del personaggio di Gurnemanz e dell'opera. Semplicemente grandioso!

 
Christopher Ventris ci ha portato qui Parsifal direttamente dalla sua Betlemme di Bayreuth, e dono migliore non ci poteva fare: non una smagliatura in un'interpretazione impeccabile.

 
Christine Goerke è stata una straordinaria Kundry: riuscire a cambiare letteralmente la voce – non soltanto gli abiti – per portarci le sue diverse reincarnazioni è cosa riservata solo a poche, e lei è da annoverare di diritto nel novero di quelle poche.

 
Jochen Schmeckenbecher è un Amfortas più che dignitoso, e del resto nessuno può pretendere che tutto e tutti siano perfetti. È soltanto la (quasi) perfezione dei tre protagonisti succitati che ce lo fa apparire un filino al di sotto!

 
Lo sbifido Klingsor era Mark Doss, beniamino del pubblico torinese. Valgono per lui le considerazioni fatte per Amfortas.

 
Il navigato Kurt Rydl ha interpretato da par suo la parte breve ma impegnativa del vegliardo Titurel (uno che abita direttamente in un sarcofago, così, tanto per facilitare le operazioni al suo funerale, smile!)

 
Non elencherò nei dettagli cavalieri, scudieri, fanciulle-fiore e voce dall'alto. Non per fargli uno sgarbo (la locandina è doverosamente linkata) ma perché cumulativamente li associo in un bravi! Insieme ai diversi cori guidati da Claudio Fenoglio, che ha già saldamente in pugno il testimone passatogli da Gabbiani, volato a Roma.

 
Bertrand de Billy, sconosciuto come minimo, e addirittura snobbato da taluni, ha invece fatto ai miei occhi un figurone. Intanto perché tiene tempi non esasperanti (non ha toccato le 4 ore) ma allo stesso tempo non cerca di imitare in velocità il suo connazionale Boulez (smile!) Poi perché mostra di saper padroneggiare questo behemoth – e l'orchestra che lo deve suonare - in modo sicuro e autoritario.

 
Merito ovviamente anche dei professori, che non hanno mostrato neanche una sbavatura in tutto il pomeriggio. Suono sempre pulito e discreto, che arriva proprio come da un altro mondo, mai a coprire le voci sul palco. Così come i cori di fanciulli e ragazzi, che cantano fuori scena, lasciando un effetto emozionante.

 
Un autentico trionfo, a fine degli atti, e un'apoteosi a fine opera. Pubblico a dir poco in delirio (fin troppo, forse, quanto a fretta nell'applaudire).

 
L'allestimento di Tiezzi-Paolini (coadiuvati da Giovanna Buzzi per i costumi e Luigi Saccomandi per le luci) non era una novità, ma ha confermato quanto di buono si era detto e scritto dopo l'esperienza napoletana. Nessun velleitario o fantasioso Konzept, cui adattare, magari distorcendolo, l'originale, ma una visione – per me – assolutamente laica di questo capolavoro, troppo spesso trattato alla stregua di una volgare (mi scuseranno i credenti) messa cantata.

 
Dell'intima natura del Parsifal si sono date mille diverse interpretazioni, e ciascuno di noi può legittimamente prediligere una o l'altra o l'altra ancora. Per me, Parsifal è tutto fuor che una parodia – o un'apologia, come pensò bizzarramente e perfidamente tale Nietzsche - di riti cristiani o addirittura cattolici, né un inno al pietismo e all'ingenuo volemmose-bbene; è tutto fuor che un'apologia razzista dell'antisemitismo; è tutto fuor che un libello contro l'omosessualità e la prostituzione. Io credo (e cerco di sviluppare questa tesi più compiutamente in appendice a questo post) che Parsifal ponga - in modo (per Wagner) definitivo - la questione del ruolo dell'Arte e dell'Artista all'interno dell'umana società, sempre più straniata fra una religione autoreferenziale e una scienza tracotante.

 
Ecco perché sono stato da subito piacevolmente colpito dall'ambientazione, che sembra indirizzarci verso questa prospettiva di fruizione del Parsifal: il sipario trasparente già ci introduce a geometrie e prospettive del pensiero (la curvatura dello spazio?) e poi si solleva proprio su un luogo dove convivono Arte e Scienza (statue e libri) in casa della Religione. E dove le imprese di Parsifal sono da subito e visibilmente rappresentate come opere di un artista: il cigno morente è letteralmente incorniciato, a suggerire che le azioni di Parsifal sono, appunto, intimamente di natura artistica (Al volo io colgo, ciò che vola).

 
L'agape al termine del primo atto non ci presenta vino e pane, ma… tomi e lo stesso Gral è una struttura composta da tre cornici di quadro disposte a formare un vuoto poliedro, che reca al suo interno il simbolo del tempo (una clessidra).

 
Nel secondo atto la Scienza ci viene presentata come astronomia: dapprima i pianeti che campeggiano sopra Klingsor, al momento per lui di risvegliare Kundry, alla fine come una galassia, o un pulviscolo stellare, o una supernova che prende il posto del castello, neutralizzato dalla presa di coscienza di Parsifal. Ma anche come primordiale scoperta dei quattro elementi fondamentali, rappresentati sulle quattro porte nidificate che incorniciano l'ingresso di Kundry. L'Arte compare nelle vesti e nelle aggraziate movenze delle fanciulle-fiore. E nel velo colorato con cui Kundry, la musa ispiratrice (dell'arte degenerata, che cerca di contrabbandare il meretricio come amor materno) avvolge Parsifal per attirarlo nella sua trappola.

 
Nel terzo atto, dopo la scena dell'Incantesimo (essenziale, luminosa, emozionante fino al groppo in gola) vediamo inizialmente l'Arte deturpata, dimenticata (piedistalli senza statue) o ridotta a puro segno (le colonne disegnate sullo sfondo) cui fa da contraltare la Religione decaduta ad oscurantismo: i cavalieri che si coprono gli occhi, pur in un ambiente scarsamente illuminato, e letteralmente minacciano Amfortas perché ripeta ancora la vuota liturgia. Poi, all'arrivo di Parsifal, torna anche l'Arte (colonne vere che scendono dall'alto) e anche la Scienza (libri che finalmente si riaprono). Amfortas letteralmente si auto-trafigge con la Lancia, proprio ad uccidere, e definitivamente esorcizzare, quella religione oscurantista, mentre Kundry si addormenta posando il capo sulle sue ginocchia, in un gesto emozionante di riconciliazione universale. E torna soprattutto la luce, quella della Ragione e dell'Arte, che nessuno più teme, ora che il Gral è scoperto per sempre e per tutti.

 
Così ho visto, ascoltato e vissuto io questo Parsifal. Altri l'avranno vissuto diversamente, e ciascuno per le sue ottime ragioni. Io cerco adesso di spiegare le mie.


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Appendice

 
Wagner era (soprattutto era convinto lui stesso di essere) un vero artista; nella sua concezione, l'arte, quindi l'artista, è investito di una ben precisa missione: procurare all'Uomo adeguati e nobili strumenti di contrasto contro le sue ossessioni esistenziali.

 
Ludwig Feuerbach, con la cui filosofia Wagner aveva preso dimestichezza ai tempi di Dresda e della rivoluzione, e che poi studierà a fondo – prima di imbattersi nella capitale figura di Schopenhauer - negli anni dell'esilio (durante i quali – è bene ricordarlo – getterà le fondamenta di tutta la sua futura produzione artistica, già del resto messa in cantiere a partire dal 1845) assegna all'Arte un ruolo paritetico e potenzialmente sostitutivo a quello della Religione. Secondo il filosofo, la Religione altro non è se non il prodotto dell'inventiva e della fantasia umane (a loro volta rese possibili grazie alle facoltà intellettive, prerogativa peculiare dell'animale Uomo). La capacità di razionalizzare l'esperienza ha portato l'Uomo a constatare, assieme alle proprie grandi qualità e capacità, anche i propri limiti e le proprie deficienze, prima fra tutte la propria mortalità. Allo stesso tempo l'Uomo ha preso atto che la Natura - assieme a molti lati consolanti – presenta anche aspetti negativi, dolorosi, ripugnanti e, in definitiva, insopportabili.

 
Per sfuggire a questa autentica ossessione, l'Uomo ha creato prima gli dei e poi Dio (che rappresenta la quintessenza idealizzata delle migliori qualità umane) e l'aldilà, che rappresenta l'ideale di un mondo perfetto, soprannaturale e metafisico in cui poter, anzi dover credere: tutto un insieme di valori codificati dalla Religione, che ha fatto assurgere a sistema assoluto (in cui aver fede dogmaticamente) ciò che in realtà era sbocciato dall'immaginazione e dalla fantasia umane.

 
Immaginazione e fantasia che sono, anche, i motori della produzione artistica dell'Uomo. E l'Arte altro non è se non un diverso (dalla Religione) strumento che l'Uomo si è dato per combattere le sue ossessioni e l'insopportabile constatazione della propria mortalità; in definitiva, uno strumento di evasione dalla miseria della propria condizione, e di elevazione spirituale, insomma: una religione laica.

 
Altra considerazione capitale: dato che l'intelletto consente all'Uomo di esplorare, e sempre più in profondità, la natura, la materia (organica e inorganica) che lo circonda, ma anche la propria stessa identità e la propria stessa mente, ecco nascere il pericolo mortale per la Religione: essere smentita dalle conquiste della Ragione (tramite la Scienza) e perdere ogni rilevanza, con ciò privando l'Uomo di quello strumento auto-consolatorio che si era così faticosamente costruito, e precipitandolo, in ultima analisi, in uno stato di gelida, spettrale, e in fin dei conti disperata condizione.

 
Religione ed Arte sono andate quasi sempre a braccetto: basti pensare a quanta Arte si è ispirata alla Religione e quanto la Religione si sia servita dell'Arte per edificare i suoi luoghi di culto e per nobilitare le sue liturgie. Diverso invece il rapporto che la Religione ha avuto con la Scienza, rapporto spesso, se non quasi sempre, conflittuale. Interessante è analizzare il rapporto fra Scienza ed Arte, dove si scopre, per fare un esempio perfettamente in tema, la grande affinità fra la Scienza dei Numeri e l'Arte dei suoni. Non a caso Wagner fu definito, da Thomas Mann, come l'Artista in grado di poetizzare l'intelletto! E nessun Artista più e meglio di Wagner seppe avere, e tradurre in parole e musica – i suoi drammi – intuizioni che la Scienza razionalizzerà e strutturerà molto tempo dopo: basti pensare alla psicanalisi (Freud) e alla teoria della relatività (Einstein).

 
Orbene, Wagner, interpretando Feuerbach (cui significativamente dedica, nel 1849, il suo fondamentale scritto L'Opera d'Arte dell'Avvenire) arriva a concludere che - scomparsa fatalmente la Religione sotto i colpi della Ragione - l'unico strumento di salvezza per l'Uomo non potrà essere che l'Arte. Domanda: perché l'Arte, i cui prodotti nascono pur sempre, come la Religione, da fantasia e immaginazione umane, quindi al di fuori della realtà razionalmente sperimentabile, può essere dall'Uomo accettata (come strumento auto-consolatorio) in luogo della Religione? Semplicemente perché l'Arte – a differenza della Religione - non pretende di imporre Dogmi, nè di rivelare Verità (dogmi e verità sempre meno accettabili dalla Ragione). Il prodotto artistico si presenta per ciò che è, senza maschere, né inganni: appunto, come un'invenzione della mente umana, volta a procurare all'Uomo non già speranze in una immaginaria e inesistente realtà metafisica, ma piacere estetico e spirituale, da consumarsi nella realtà della nostra mortale esistenza, e in piena armonia con la Natura immanente. Appunto, l'Arte come una religione laica.

 
Bene, ai tempi di Wagner, con la Religione che era da un lato messa alla berlina dai vari illuminismi, positivismi, comunismi, ateismi dilaganti in Europa, e dall'altro si andava sempre più trasformando nella parodia di se stessa, schiava delle sue proprie liturgìe, qual'era lo stato dell'arte della produzione artistica (particolarmente del teatro musicale) che alla Religione avrebbe dovuto sostituirsi? Per Wagner: deprimente e penoso. Che questo suo giudizio, più e oltre che da constatazioni oggettive, derivasse dalla sua personale incapacità di penetrare l'establishment di quel mondo (impersonato da Parigi) che mostrava di rifiutarlo, è questione magari secondaria. Sta di fatto che Wagner si vedeva e si sentiva investito della missione di redimere (toh, chi si vede: Parsifal!) l'Arte da quelle che per lui erano degenerazioni prodotte da maghi, stregoni e alchimisti (alla Meyerbeer, per intenderci… o alla Klingsor?) i quali, invece di regalare all'Uomo il tanto necessario ed edificante piacere estetico e spirituale, ne assecondavano le attitudini più abiette e disdicevoli, con prodotti che erano la pura e semplice mercificazione (e prostituzione, quindi) dell'Arte. Duplice compito, quindi, quello che Wagner si assegna: liberare l'Uomo dalla religione, scaduta a mera liturgia (il Gral periodicamente esposto proprio come un feticcio da adorare e usato come pseudo-balsamo per curare l'Uomo delle ferite derivanti dalle sue ossessioni esistenziali) e liberarlo anche dall'arte degradata a turpe e peccaminoso mercimonio (il castello di Klingsor).

 
Ecco, tutta la produzione artistica di Wagner (già a partire, come minimo, dall'Holländer) dapprima in forme e approcci ancora non ben codificati e spesso contraddittori (fino a Lohengrin compreso) ma successivamente in modo chiaro, programmato e strutturato, altro non è se non la rincorsa continua, instancabile – potremmo dire ossessiva (!) - alla propria auto-imposta missione. E non solo, ai drammi che compone, Wagner dà forme e contenuti di altissimo livello estetico, filosofico e spirituale (facendone appunto opere d'Arte nel senso più alto); ma gli stessi protagonisti dei suoi drammi impersonano precisamente le sue convinzioni riguardo l'Arte e la lotta che l'Artista (quello vero e puro, con la A maiuscola!) è chiamato a sostenere per svolgere la sua missione. Missione che si completa con Parsifal, guarda caso. Dove l'Artista Wagner, nell'atto di redimere Religione e Arte, redime anche se stesso (Erlösung dem Erlöser) da tutti i peccati, materiali, spirituali ed anche… artistici, che ha commesso lungo le tappe del suo missionario cammino.

 
Chi incontriamo in Parsifal?

 
Amfortas è il rappresentante, anzi il primo ministro, della Religione che, sentendosi minacciata dall'Arte, decide di combatterla. Ma l'Arte, che ai tempi di Monsalvat come di Wagner, è quella degenerata di Klingsor, lo seduce per tramite di Kundry, provocandogli una ferita insanabile: la perdita della Fede, in effetti. Ferita che la stessa Kundry – nelle sue reincarnazioni pietose (pietose, si badi bene, non compassionevoli!) – cerca invano di sanare.

 
Klingsor è un religioso mancato, per indegnità, che si trasforma in artista degenerato, e che alla purezza e spontaneità della fantasia e dell'immaginazione ha sostituito il trucco, la magìa, l'inganno, auto-castrandosi di tutte le sue potenzialità naturali. Vuole distruggere la Religione, ma non per sostituirla con la vera Arte, bensì per imporre una sua arte-religione depravata e depravante. È un caso forse che il secondo atto di Parsifal sia quasi letteralmente scopiazzato dal terzo atto di Robert le Diable? È il mondo degenerato (agli occhi di Wagner) di Meyerbeer, pieno di fasulle e profumate promesse, quello che l'Artista puro Wagner ci presenta – e con quale sublime maestrìa – per farcelo poi disprezzare e per distruggerlo sotto i nostri occhi, dopo che lui, l'Artista, ha fulmineamente messo a fuoco la verità, cioè il terribile inganno che si cela dietro i colori e i profumi di Klingsor e le dolci carezze di Kundry. (Qualcosa del genere Wagner aveva fatto nel secondo atto di Götterdämmerung, dove ci aveva mirabilmente mostrato – con sguaiati cori da grand-opéra - la degradazione della civiltà ghibicunga, meritevole così di essere travolta da incendi e inondazioni purificatrici!)

 
Kundry – nelle sue re-incarnazioni al servizio di Klingsor – rappresenta appunto la Musa ispiratrice dell'artista. Così si spiega perché lei conosca tutto di Parsifal, anche ciò che lui stesso non conosce di sè. Nei drammi di Wagner c'è sempre una figura femminile che rappresenta la Musa ispiratrice dell'Artista (Wagner) bistrattato e incompreso. Spesso e volentieri è, a differenza di Kundry, una musa nobile. Tanto per fare un esempio, Brünnhilde lo è nei confronti di Siegfried, con questo piccolo particolare aggiuntivo: la musica che Brünnhilde canta a Siegfried sulle parole Ewig war ich, ewig bin ich fu originariamente scritta da Wagner per Cosima, appena divenuta la sua musa ispiratrice, in quel di Starnberg! Ma, come esiste arte degenerata, così esistono le sue muse e Kundry è una di queste: dopo aver irriso la Religione (ridendo del Cristo sul Calvario) si è venduta a Klingsor ed ora è costretta a fare il suo gioco, adescando i nemici del suo padrone. Riesce a far cadere in trappola Amfortas e non Parsifal, poiché Amfortas è accecato dalla religione, e come tale incapace (agli occhi di Wagner) di comprendere la realtà e i suoi subdoli strumenti, mentre Parsifal è ignorante come un oco, ma – da vero naïf, quindi da autentico Artista toccato dalla grazia (come Wagner si autodipingeva, del resto) – sa cogliere l'essenza profonda delle cose e scongiurare così il pericolo di perdersi, acquisendo anzi quella conoscenza che lo mette in grado di redimere l'Umanità.

 
Parsifal è appunto l'Artista (Wagner) che, in cerca di se stesso, della sua identità e della sua missione, ha inizialmente vagato per il mondo, incontrandovi la religione degradata e l'arte corrotta e che finalmente, proprio mentre è sul punto di cadere, irretito dalle lusinghe della falsa arte, prova compassione. Compassione per chi? Ma per tutti gli uomini e le donne vittime di quella degradata religione e di quella falsa arte, fasulli ed abietti strumenti auto-consolatori, ben impersonati dalla cerimonia dell'Agape nel primo atto, che rappresenta mirabilmente la liturgia religiosa, trita, sterilizzante, magica e inafferrabile. L'ingenuo Parsifal nulla ci capisce, anzi l'unica cosa che capisce è che quello dev'essere un ambientino che nuoce gravemente alla salute, almeno a giudicare dalle esternazioni di Amfortas.

 
Questi uomini e donne possono essere redenti se il vero Artista aprirà loro gli occhi: sulla Realtà e sulla Natura (Ecco, ne rende grazie ogni creatura, quante han qui fiore e presto periranno, perché oggi la natura discolpata conquista il giorno della sua innocenza!) La cerimonia conclusiva del dramma è di fatto un funerale, quello della religione e del suo più illustre ministro (Titurel) a cui segue il trionfo della riconquistata conoscenza e dell'elevazione spirituale, prodotto dell'autentica espressione artistica. Elevazione che si potrà perpetuare se, una volta scoperto il Gral, scoperto lo si lascerà per sempre, come cantano le ultime parole di Parsifal.
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