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22 agosto, 2024

ROF-2024 live: L’equivoco stravagante.

Ieri L’equivoco stravagante, una ripresa della fortunata produzione del 2019 affidata alla coppia registica di Moshe Leiser e Patrice Caurier (che allora avevo personalmente apprezzato assai) ha chiuso il suo ciclo di quattro recite a questo ROF-45. Dico subito che mi sento di riconfermare in pieno quell’apprezzamento, anzi di innalzarlo ulteriormente, grazie anche allo spostamento delle recite dalla dispersiva Vitrifrigo Arena all’ambiente più raccolto, cittadino e quindi familiare del glorioso Teatro Rossini, riaperto per l’occasione.

Sul pruriginoso soggetto di Gasbarri e sulla regìa non sto quindi a dilungarmi oltre rispetto a quanto scritto allora. Manche perché molto più e molto meglio ne scrisse il venerabile Alberto Zedda.

Ma buone notizie sono arrivate anche dal nuovo apparato musicale, interamente rinnovato rispetto a quello ben distintosi nel 2019, che poteva contare sull’apporto della OSN-RAI e del coro del Ventidio Basso. Che la meno blasonata ma agguerrita Filarmonica Rossini e la piccola pattuglia del coro (14 tenori-baritoni-bassi, interpreti di contadini, letterati e soldati) del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani non hanno fatto per nulla rimpiangere.

Tutti guidati dalla bacchetta di Michele Spotti, che dall’anonima Cesano Maderno che gli ha dato i natali 30 anni orsono è oggi arrivato a dirigere l’importante teatro e la filarmonica di Marsiglia e a calcare podi in giro per il mondo. Rimarchevole la sua capacità di far emergere tutta l’accattivante freschezza di questa terza partitura di Rossini, che tanti bei momenti trasferirà ad opere successive. Gesto a volte enfatico o lezioso, ma evidentemente efficace, a giudicare dal consenso manifestatogli non solo del pubblico, ma degli stessi strumentisti.    

Nicola Alaimo è il motore assoluto dello spettacolo: il baritono palermitano, (all’ottava presenza nel cartellone principale del ROF, dopo l’esordio nel lontano 2010 in Cenerentola) ha incantato con la sua verve sempre raffinata, la sua presenza scenica mai sopra le righe e – superfluo aggiungerlo – la sua splendida voce! Ammirata già nell’iniziale duetto con Buralicchio (Ah, vieni al mio seno) poi nelle due arie (Talpa in mortale ammanto e Il mio germe) come nei pezzi d’insieme (Quartetto Ti presento a un tempo istesso e Quintetto Speme soave) oltre che nei due movimentati finali. È senza dubbio lui il trionfatore di questa riproposta dell’Equivoco.      

L’esordiente Maria Barakova (passata per l’Accademia nel 2018) veste i pani della protagonista Ernestina, la ragazza saputella e svampitella che vive nel mondo dei sogni per poi migrare in quello della realtà, complice… l’amore. Davvero apprezzabile la sua prestazione, a partire dalla cavatina d’esordio (Nel cor un vuoto) e poi nel Duetto con Ermanno (Se una speme). Nel second’atto si distingue nel Duetto con Buralicchio (Vieni pur) e nel Rondò con coro (Se per te lieta ritorno) che precede il finale. Importante anche il suo contributo ai pezzi d’insieme. (Se proprio devo trovarle il pelo nell’uovo, è qualche decibel che manca nell’ottava bassa.)

Al Nemorino-ante-litteram della situazione (il romantico Ermanno) ha prestato la sua limpida voce Pietro Adaìni (alla sua terza importante presenza al ROF). Acuti svettanti (fino al DO#) e bella proiezione di suono, unite a perfetta immedesimazione nel personaggio. Oltre all’esordio a freddo (Si cela in quelle mura) e al citato duetto con Ernestina (Sì, trovar potete) e ai pezzi concertati, ha pienamente convinto nella sua concitata aria (Sento da mille furie) e nella successiva cavatina (D’un tenero ardore).  

Il ricco nullafacente Buralicchio (l’altro buffo della situazione) è il quasi esordiente Carles Pachòn, che si è subito messo in mostra nella sua cavatina d’esordio (Occhietti miei vezzosi) e poi si è distinto nel citato duettino con Gamberotto (Ah padre! Mi stringi). Nel second’atto poi ha degnamente assecondato Ernestina nel duetto (Più la guardo) oltre a dare il suo valido contributo ai pezzi concertati.  

Bella figura hanno fatto anche i due comprimari, servitori di Gamberotto e alleati di Ermanno alla conquista del cuore di Ernestina. Patricia Calvache, voce per la verità non molto penetrante, si distingue nella sua arietta Quel furbarel d’amore, oltre che nel quintetto e nei finali d’atto. Matteo Macchioni è a sua volta un simpatico (e geniale ideatore dell’Equivoco!) Frontino, cui Rossini riserve la sua applaudita aria di sorbetto (Vedrai fra poco nascere).

Ma a parte i numeri solistici o concertati, la compagnia di canto ha sempre mantenuto alti il ritmo e la tensione della commedia, in ogni scena, proprio senza un solo momento di stasi, dall’inizio alla fine.  

Pubblico entusiasta, che ha accolto ogni numero con applausi a scena aperta, per poi decretare un trionfo generale – con punte al calor bianco per Alaimo - alla fine dello spettacolo. 


08 agosto, 2024

Il ROF-2024 alla radio.

Radio3, fedele alla tradizione, irradia le prime del Festival, che quest’anno sono quattro e non tre, in omaggio allo status di Capitale italiana della cultura di cui gode Pesaro per il 2024.

Rompere il ghiaccio, nel rinnovato Auditorium Scavolini, è toccato a Bianca&Falliero, alla quarta presenza al ROF (dopo 1986-89 e 2005). A guidare dal podio la OSN-RAI era Roberto Abbado; Giovanni Farina ha diretto il Coro del Teatro Ventidio Basso.

Nei quattro ruoli principali figurano due (ormai) vecchie glorie del ROF: le voci acute di Bianca di Jessica Pratt e di Contareno (suo padre!) di Dmitry Korchak; affiancate da quelle più gravi di due promesse già battezzate al ROF in anni recenti: il(la) Falliero di Aya Wakizono e il Capellio di Giorgi Manoshvili.

Premesso che l’ascolto tecnologico ha sempre i suoi limiti, mi sento di giudicare positivamente la prova di Abbado, almeno sul lato delle agogiche. Bene anche il coro di Farina.

Quanto alle voci, la Pratt ha subito approfittato delle opportunità di coloratura offerte da Rossini per sciorinare i suoi proverbiali sovracuti (DO#, RE e persino MI) chiudendo il rondò finale con uno stentoreo e lunghissimo MIb. La cantante aussie ormai di casa qui da noi mi è parsa anche la voce più centrata sul personaggio.

Non così le altre tre voci. Korchak più che discreto, ma forse questa parte di bari-tenore non gli è proprio congeniale (ascoltare il Merritt del 1986…) così lui se l’è cavata sopperendo con il mestiere. Per la Wakizono stesso discorso: voce assai bella ed espressiva, ma non certo di contralto (ascoltare la Horne del 1986 ma anche la Barcellona 2005…) anzi di mezzo spinto (DO acuti come nulla fosse) che soprattutto nei duetti con Pratt si faticava a distinguere dal soprano. Fin troppo grave e cavernosa invece la voce di Manoshvili. Doveroso segnalare anche la Costanza di Carmen Buendìa, il Doge di Nicolò Donini, e poi Claudio Zazzaro e Dangelo Dìaz.

Accoglienza per tutti più che calorosa, anche se… ristretta. Forse il pubblico era esausto per l’autentica maratona durata dalle 20 fin quasi a mezzanotte! In effetti l’opera mostra tutte le sue contrastanti caratteristiche: quelle di una summa di tutto lo scibile del teatro musicale messa insieme da Rossini a partire dalla Camerata dei Bardi per arrivare ai giorni suoi, Beethoven incluso! Lunghissime scene, duetti, terzetti, quartetti e concertati con coro di splendida ma ipertrofica fattura, alternate a recitativi accompagnati in declamato e pure a recitativi secchi (ieri proprio nulla è stato tagliato!)


Insomma, ci si spiega ancor oggi la reazione ammirata del pretenzioso pubblico della Scala del 1819, ma anche la contemporanea stroncatura degli spocchiosi critici di allora.   
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2. L’equivoco stravagante.

Quarta comparsa al ROF (dopo 2002-08-19) anche per La terza opera di Rossini (seconda ad essere rappresentata) che ha fatto riaprire i battenti al glorioso Teatro intitolato al Maestro e rimesso in sesto dopo il terremoto del 2022 che ne aveva compromesso la sicurezza.

Opera che – causa bando dai teatri per divieti di censori-bacchettoni - ha generosamente imprestato sue parti a parecchie sorelle arrivate dopo di lei; citerò solo tre macroscopici esempi: il Coro introduttivo dell’Atto II, che verrà reimpiegato in Ciro in Babilonia e poi in Tancredi; il quintetto dell’atto II (Speme soave) ripreso nel corrispondente Spera se vuoi (Pietra di paragone, a 21’55”); e l’aria finale di Ernestina (qui a 43”) passata ancora nella Pietra di paragone a Clarice (qui a 1’28”).

Michele Spotti (al suo terzo impegno importante al Festival: Barbiere streaming 2020 e Bruschino 2021) sta facendo grandi progressi e ha diretto da par suo la Filarmonica Rossini, dando un taglio davvero mozartiano a questa partitura del todeschino, che al Teofilo si ispirò assai nei suoi primi anni di carriera. Mirca Rosciani ha guidato il Coro del Teatro della Fortuna ad una prestazione più che apprezzabile.

Oltre a orchestra e coro, anche il cast è totalmente rinnovato rispetto alla stessa produzione del 2019 (allora ospitata nella smisurata Vitrifrigo Arena). Artisti quasi tutti (Alaimo escluso) di recente frequentazione dell’Accademia. La debuttante nel cartellone principale del ROF, Maria Barakova, veste i panni della protagonista Ernestina, alla quale presta in modo convincente (cavatina, duetti e rondò finale) la sua bella e calda voce di mezzosoprano lirico. 

I due buffi sono il navigato trascinatore Nicola Alaimo (Gamberotto) e il quasi esordiente (dopo la Cambiale del 2018) Carles Pachòn (Buralicchio): entrambi degni di elogio nelle rispettive cavatine/arie ma anche nel duetto (con gag) del primo atto e nei concertati.

Pietro Adaìni (già nel Turco del 2018 e ne La Gazzetta del 2022) impersona il romantico Ermanno e lo fa con buon profitto: voce squillante e acuti (incluso un DO#) senza sbavature.     

I suoi due sodali per la conquista della cinica Ernestina (Rosalia e Frontino) sono Patricia Calvache (praticamente all’esordio) e Matteo Macchioni, già presente nella Gazza del 2015 e in Adina del 2018. Anche per loro (cui Rossini riserva le classiche arie da sorbetto) note più che positive.

Da ultimo sottolineo ancora il perfetto affiatamento di tutti nei pezzi d’insieme: duetti, quartetto, quintetto e finali d’atto.

Insomma, almeno all’ascolto radio, una riproposta più che positiva.

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3. Ermione.

Ermione rappresentò per Rossini un (fugace) momento di rottura dei collaudati schemi (napoletani) dell’opera seria, tanto che fu categoricamente bocciata dal pubblico e messa in naftalina dallo stesso compositore, per essere poi dimenticata lì per decenni. Questa fu – ante-litteram – un’operazione di tipo breakthrough (come usano dire i moderni barbari…) che solo 30 anni dopo troverà il massimo epigono in tale Wagner!

Se oggi ne possiamo apprezzare tutta la straordinaria modernità, è soprattutto grazie al recupero fattone dalla Fondazione Rossini e dal ROF, che lo mette in scena oggi per la terza volta, dopo 1987 e 2008.

E poi - ça va sans dire – il merito va anche riconosciuto a Direttori come Michele Mariotti, che la concerta qui per la prima volta proprio a casa sua, sapendone esaltare tutte le straordinarie qualità e la grande varietà di accenti, dal dolente, al lirico, alle esplosioni degli animi esacerbati. In ciò assecondato alla grande dalla OSN-RAI, davvero senza una sola sbavatura, e dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.

Ma anche il cast ovviamente conta, e quello messo in campo in questa produzione ha avuto la sua punta di diamante nella protagonista, la sempre più convincente Anastasia Bartoli, già segnalatasi lo scorso anno come Cristina: davvero torreggiante, soprattutto nelle due grandi scene del second’atto.

Molto bene anche l’appassionata Andromaca di Viktoria Yarovaya, anche lei ormai veterana del ROF (esordio nel Demetrio del lontano 2010). 

Praticamente scontato il successo per il Direttore Artistico del Festival, tale J.D.F. (Oreste) ormai ultra-decano del ROF (esordio 1996!) che ha sciorinato il meglio del suo bagaglio virtuosistico. 

Maluccio, ahilui e ahinoi, il Pirro di Enea Scala. Al quale credo proprio manchi il phisique-du-role per questo personaggio. Senza scomodare il sontuoso Merritt, basterà aver presenti un Kunde o uno Spyres per fare confronti impietosi. Ma poi, a parte la vocalità naturale, ier sera mi è parso anche fuori forma, con difficoltà di intonazione, acuti gutturali e spesso ghermiti dal semitono sottostante, oltre ai gravi quasi inudibili. Peccato davvero!

Buone notizie invece per Antonio Mandrillo (Pilade) che ieri è stato, per meriti sul campo, il secondo e non il terzo tenore del cast.

Più che dignitose le prove di Michael Mofidian (Fenicio), Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Comunque accoglienza calorosissima per tutti, con punte per Mariotti, Florez e Bartoli.

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4. Il barbiere di Siviglia.

Da quest’anno il Barbiere diventa recordman in solitaria in fatto di presenze al ROF (7, senza contare lo streaming dell’autunno 2020 in epoca Covid, contro le 6 della Scala). Consideriamolo un doveroso tributo a quella che è indiscutibilmente ancora l’opera più nota e gettonata del grande Gioachino.

E per omaggiarla se ne omaggiano quest’anno alcuni iconici interpreti. A partire da uno che calcò le scene del ROF, vestendo i panni di Assur, nel remoto 1992 (!!!) Michele Pertusi. Il quale ha cantato come DonBasilio nelle ultime apparizioni. E anche ieri la sua Calunnia ha mandato il pubblico in visibilio!

Un altro navigatissimo del ROF (Siége del 2000 dopo presenza in una kermesse del 1996) è Carlo Lepore, che impersona, come nello streaming del 2020, il mangiapane-a-tradimento Don Bartolo. Anche la sua è stata un’interpretazione sontuosa, che ha avuto la punta di diamante nell’aria del primo atto, caratterizzata da quella incredibile raffica di scioglilingua che lascia sempre di stucco. 

Ma a proposito di veterani, che dire di Patrizia Biccirè, che fu Giulia ne La scala di seta del 1992! E che già fece Berta nel 1997! E anche ieri ha raccolto ovazioni dopo a sua arietta del vecchiotto

Dopo i decani, ecco i promettenti giovani della nuova leva di cantanti rossiniani. Il protagonista è Andrzej Filonkzyk, in terminologia goliardica un fagiolo, essendo alla seconda apparizione al ROF, dopo il Raimbaud (Ory) del 2022. Il suo è un accattivante Figaro: voce potente, buon portamento, subito esibiti nella celebre cavatina d’esordio. Certo, l’esperienza gli gioverà per migliorare ancora. 

Come lui, viene dall’Ory di due anni fa anche la Rosina di Maria Kataeva. E anche per lei vale lo stesso discorso: una prova superata con voto più che discreto, voce dal timbro morbido, bene impostata su tutta l’ampia tessitura mezzosopranile, oltre a buona sensibilità interpretativa.   

Jack Swanson (già Florville nel Bruschino del 2021) è oggi il lezioso Conte/Lindoro, cui ha prestato la sua bella voce chiara e dagli acuti squillanti. Anche per lui il futuro si prospetta roseo, a patto di continuare a... studiare.

Alla terza uscita (dopo 2018 e streaming 2020) come Fiorello/Ufficiale è William Corrò, che ha dato il suo valido contributo al buon successo della serata.

Successo propiziato dall’energica direzione – tempi a volte persin troppo parossistici - di Lorenzo Passerini, alla guida della solida Sinfonica Rossini, ben coadiuvati dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.   

Insomma, un Barbiere più che positivo, un’esibizione che il pubblico ha giustamente accolto con grandissimo calore.

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Ecco, chiuso il ciclo radiofonico delle prime, ora non mi resta che assistere dal vivo… dopo Ferragosto.

Ma intanto, Ernesto Palacio ha già annunciato il cartellone del 2025:

·       Zelmira (Sagripanti/Bieito)

·       Italiana (Korchak/Cucchi)

·       Turco (Ceretta/Livermore)

·       Messa per Rossini
 

11 febbraio, 2019

Alla Scala una Cenerentola sempre giovane


Proseguendo la serie dei revival di produzioni ormai catalogabili come storiche (domanda: nel 2060 si riprenderà ancora la Traviata di Cherniakov?) la Scala ha ospitato ieri la prima della Cenerentola della premiata coppia Abbado-Ponnelle, ripresa a 46 anni di distanza dalla sua originaria comparsa nel 1973. Produzione già riproposta da allora in diverse stagioni (74, 75, 82, 01, 05) e oggi affidata alle esperte mani di Grischa Asagaroff, ben coadiuvata da Marco Filibeck alle luci. Immortalata anche in DVD (con altri interpreti rispetto al ’73, e con riprese fatte in studio e in play-back) nel 1981. E proprio a Claudio Abbado, a 5 anni dalla scomparsa, è dedicata questa ripresa. Che mantiene, più o meno, anche i (consueti) tagli: qualche recitativo secco e i due contributi di Luca Agolini (coro di apertura atto secondo e aria di sorbetto di Clorinda). Cassata anche l’altra componente agoliniana (Alidoro) in favore del Rossini autentico.

Nel progettare la loro Cenerentola, il librettista Ferretti e Rossini si erano posti un obiettivo assai chiaro: sfrondare il racconto di Perrault da ogni e qualsivoglia componente favolistica, magica, miracolistica, bambinesca (aspetti che si reputavano sgraditi se non addirittura offensivi per l’evoluto pubblico romano di allora) per mettere più che altro in risalto - pur in un contesto giocoso - gli aspetti drammatici, sociologici ed etici del racconto, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo come pari-opportunità. (Lo stesso Barbiere, di un anno precedente, dietro la maschera del buffo poneva problemi mica da poco, quali l’avvento della borghesia alla guida della società.) Quindi niente comari-fatine, zucche-carrozze e topi-cavalli che appaiono dal nulla, ma solo un po’ di alone arcano col quale rivestire un illuminato filosofo (Alidoro, precettore del principe Don Ramiro, una specie di Marco Pannella ante-litteram) che procura alla povera Angelina i mezzi per godere, appunto, delle pari-opportunità, negatele dal retrivo padre e dalle sorellastre viziate.

E Ponnelle(-Asagaroff) interpreta alla perfezione l’approccio degli Autori, facendone passare il messaggio col mettere in ridicolo gli aspetti più retrivi della società. Niente miracoli, ma nemmeno avanspettacolo: le gag sono limitate allo stretto necessario e tutto viene mantenuto entro i confini del buon gusto. E per questo l’allestimento resiste alla grande anche in tempi di regie fatte solo per far parlare del regista, ma di fatto prodotti usa-e-getta.
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Che dire poi della prestazione musicale?

Intanto si apprende dal curatissimo libretto della Scala che Angelina-Cenerentola è diventata improvvisamente soprano, come pure la Tisbe, e che Alidoro ha innalzato la sua tessitura a quella di tenore... evabbe’, è il progresso, bellezza! (Il testo pubblicato nel 2005 riportava correttamente le tessiture dei ruoli... o forse è Alberto Zedda che ha inviato dall’aldilà un aggiornamento alla sua edizione critica, chissà.)

Marianne Crebassa per fortuna canta da mezzosoprano qual è e quale l’ha voluta Rossini. La sua è stata una prestazione non strepitosa, tuttavia il personaggio è uscito discretamente bene: un po’ legata all’inizio, è poi cresciuta nel corso della recita, arrivando ben rodata in tempo per la sua finale aria strappalacrime, che ha anche strappato... applausi a scena aperta, applausi che per la verità hanno accolto tutti i principali numeri dell’opera.  

Don Ramiro è una parte non propriamente impossibile (peraltro nell’aria del second’atto presenta diversi DO sovracuti...) e lo smilzo Maxim Mironov l’ha padroneggiata assai bene (a proposito di acuti, ha esagerato anche con un RE): peccato che la sua voce non abbia sufficiente potenza per diffondersi adeguatamente in spazi come quelli del Piermarini altrimenti, invece di un più che discreto, si meriterebbe un più che buono...   

Dandini è Nicola Alaimo (credo che Cenerentola fosse anche il suo debutto in carriera); personalmente lo ricordo in questa parte già al ROF nel 2010... direi che da allora, anche grazie al passaggio su terreni diversi, vedi Falstaff, ha imparato a meglio controllare l’emissione, a giudicare dall’assenza di sguaiatezze e schiamazzi.

Carlos Chausson è un più che convincente Don Magnifico, gran potenza e rotondità di voce, ha brillantemente superato gli scogli della sua parte (anche quantitativamente) assai impegnativa. Subito in spolvero con i rampolli femminini, ha poi ben cantato  l’aria del second’atto e ha contribuito alla riuscita del duetto-di-bassi a suon di scioglilingua con Alaimo.

Erwin Schrott (anche lui non ha velleità tenorili...) - da qualche anno (esordio nel Turco al ROF-2016) si dedica a Rossini - è un ottimo Alidoro, personaggio cui conferisce appropriatamente quell’arcano aplombe soprannaturale che ne caratterizza la figura. Pregevole la sua interpretazione dell’aria del primo atto, quella di Rossini e non di Agolini.  

Le due sbifide sorellastre vengono dalla scaligera Accademia e devo dire che si sono ben portate, la Capitelli in primo luogo, ma anche la Giorgadze. Prezioso il loro contributo agli ensemble, in particolare al sestetto del second’atto.

Il coro è impegnato solo al maschile, e per di più senza grandi difficoltà, quindi Casoni ha fatto il suo dovere, e basta così.

Ottavio Dantone, di professione barocchista, ha riportato saldamente questo Rossini nel ’700, il che non è affatto un demerito, tutt’altro. Apprezzabile la sua concertazione, in specie negli insiemi, dove basterebbe poco a trasformare le mirabilia di Rossini in puro e semplice caos sonoro.
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Pubblico meno folto rispetto a quello della recente Traviata, ma prodigo di applausi per tutti.

10 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala - Pezza d’appoggio


Ho lasciato passare qualche giorno, per non correre rischi di denuncia (hahaha!) da parte dei solerti cerberi del Teatro, ma adesso provo a integrare il mio precedente commento mettendo a disposizione dei 4-5 milioni di miei lettori (ai quali chiedo di mantenere il più assoluto segreto, altrimenti Pereira mi fa condannare al 41-ter) l’audio della prima del Pirata che ho commentato nel precedente post. In ogni caso, se hanno dato i domiciliari a Dell’Utri, posso sperarci anch’io!

(Della qualità della registrazione non sono per nulla responsabile, sia chiaro.)  

07 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala


Ieri sera è andata in onda - con intermezzo giallo - la terza delle otto recite de Il Pirata, che tornava alla Scala dopo 60 anni di assenza. Teatro gruviera come capita spesso, con pubblico abbastanza caloroso, tanto che non si sono ripetute le vivaci contestazioni seguite alla prima (vittime sacrificali il cattivone di turno Alaimo, il concertatore Frizza e il regista Sagi) ascoltata per radio venerdi.

Fino a ieri la registrazione di quella recita era disponibile in rete, prima che il Teatro la facesse rimuovere d’autorità. Io nel frattempo mi ero preso la briga di analizzarla da vicino per cercare di comprendere le ragioni (o i pretesti) del fiasco iniziale e del (relativo) riscatto successivo. Ovviamente potendo giudicare l’agogica (tempi) e gli accenti, assai meno le dinamiche, che vengono fatalmente distorte - leggi: appiattite - dalla ripresa radio. Ho deciso (per non buttare l’investimento fatto... haha) di pubblicare comunque queste note a futura memoria - di fatto contengono anche una succinta esegesi del soggetto, oltre che riferimenti ai tagli apportati - anche se fatalmente vi manca il riscontro in-corpore-vili, ma tant’è. Lascio anche i riferimenti di minutaggio, a conferma della... serietà del lavoro.
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Comincio dal mio conterraneo Frizza e dall’Ouverture, che è un serio banco di prova per il Direttore. La prima parte dell’Introduzione (Allegro con fuoco, RE maggiore, 3/4) è staccata con piglio apprezzabile. Personalmente gradirei una freschezza ancor maggiore, ma accontentiamoci: certe pur blasonate interpretazioni del ‘900 sono letteralmente esasperanti, trasformando il tempo in Andante maestoso, che caratterizza invece la seconda parte dell’Introduzione (38”, 4/4, RE minore - FA maggiore). Frizza la presenta correttamente, mette in risalto gli incisi dei violoncelli, poi gestisce in modo apprezzabile (1’44”) il passaggio in marcato che porta verso l’attacco (2’19”) del primo tema (Allegro agitato, 4/4, RE minore). Qui gestisce bene lo slentando (2’26”) e poi il ritorno in tempo che separa il soggetto dal controsoggetto, quindi carica leggermente il ritmo per il passaggio (2’44”) al RE maggiore, dove troviamo la transizione che porta (3’24”) al secondo tema, bipartito, nella relativa FA maggiore (qui Frizza fa tutto in staccato, di sua iniziativa). Efficace il passaggio alla seconda sezione (3’42”) con il moderato crescendo che la caratterizza (e che terrà banco alla fine del primo atto). Ecco poi la ripresa dei due temi, dapprima (4’59”) quello in RE minore, assai scorciato, e poi (5’23”) il secondo (ora canonicamente in RE maggiore) dove Frizza del tutto arbitrariamente scatena un presto, certo di facile effetto, ma francamente un po’ pacchiano. Tutto sommato però l’accoglienza è abbastanza positiva.

L’Introduzione con il coro e Goffredo non si presta a particolari critiche (forse la voce di Riccardo Fassi viene qua e là travolta da quella del coro...) e quindi passiamo (15’11”) all’esordio del tenore, di gran lunga la parte più importante, difficile e ostica, sotto il profilo espressivo, oltre e più che sotto quello strettamente vocale. Dopo il recitativo con Goffredo, ecco la cavatina di Gualtiero (Nel furor delle tempeste, 17’29”) in SOL minore e SIb maggiore: la voce di Piero Pretti non è per niente male (salirà anche al RE acuto con relativa scioltezza, nella cadenza finale) ma ciò che lascia a desiderare è l’espressività (Come un angelo celeste, 18’06”) che Bellini richiede in forti dosi, mentre il tenore continua a cantare con piglio inalterato. Stessa cosa anche alla ripresa. Sono magari sfumature, ma fanno la differenza, almeno ad un orecchio attento. Il pubblico comunque pare aver apprezzato, pur senza particolari entusiasmi.

Il successivo coro (con interventi minori di Gualtiero e Itulbo) include anche (22’43”, Per te di vane lagrime, in SIb maggiore)  una  nuova esternazione del tenore, che Pretti risolve dignitosamente, accolto da moderati applausi.

Arriviamo quindi (26’36”) all’esordio del soprano (recitativo e cavatina). Dopo la breve introduzione orchestrale in MIb maggiore, che Frizza affronta a ritmo svelto, Sonya Yoncheva si presenta (27’35”) con il recitativo Sorgete, e in me quella pietade, MIb maggiore, ove il soprano bulgaro mette subito in bella mostra la sua voce potente e ben tornita. Che esplode poi nella cavatina (29’39”, Lo sognai ferito esangue, SOL minore) e ancora (31’44”, Quando a un tratto il mio consorte, SI maggiore) si inerpica in difficli vocalizzi nel ricordo dell’incubo che la colse vedendo l’amante straziato dal marito! Segue un nuovo passaggio in MIb (Muta, oppressa, sbigottita) con i pertichini di Itulbo, Adele e coro. Dopo l’arrivo di Gualtiero (33’52”) del qule Itulbo ancora cerca di nascondere a Imogene l’identità, riprende (35’13”) in SOL maggiore la cavatina (35’32”, Sventurata anch’io deliro) con ripetizione abbellita (37’48”) e cadenza finale (40’00”) con il coro. Mah, si potrà sempre eccepire sulla relativa piattezza dell’esposizione della Yoncheva, ma francamente gli applausi sono davvero convinti (e per me meritati).   

Segue il coro libagioso dei pirati, francamente piuttosto dozzinale (Bellini non deve averci dedicato più di un quarto d’ora...) che Frizza e Casoni (più Pittari) mi pare abbiano sfangato con onore, nell’indifferenza generale.

Dopo il breve incontro fra Imogene e Adele, aperto (45’00”) da 8 mirabili battute strumentali in SIb (non si saprebbe se farle risalire a Bach o anticipare Mendelssohn...) dove Adele ha preannunciato alla sua Signora la visita di Gualtiero (modulando a SOL minore) si arriva alla corposissima scena dell’incontro fra i due amanti (46’45”). Il recitativo accompagnato dei due sfocia (50’54”) in una pregevole frase in LAb maggiore di Imogene (Se un giorno fia che ti tragga) che la Yoncheva espone con bel portamento. Frase musicale che subito dopo è ripresa un tono sopra (SIb) da Gualtiero (51’45”, Voce suonava un giorno): qui Pretti ha una partenza difficoltosa sull’intonazione, poi però si riprende discretamente. Si modula ancora in alto di un tono intero (DO maggiore, 52’16”) e Imogene (Tu sciagurato) invita Gualtiero a fuggire dalla casa di Ernesto, nome che la Yoncheva scandisce efficacemente (con forza) su una discesa di quattro veloci gruppi di semicrome. La tonalità è virata a SOL maggiore per la risposta di Gualtiero (Lo so, 52’47”) sostenuta dai violini su un inciso anapestico, che si ripeterà ancora nel seguito del duetto, la cui tonalità modula ancora (53’44”) a FA maggiore dove Imogene (Il genitor dolente) va a chiudere la sezione con una pregevole scala discendente (dal LA acuto al DO sotto il rigo). Ora inizia (55’11”, DO minore) una nuova sezione del duetto con Gualtiero (Pietosa al padre) che accusa di crudeltà Imogene, la quale (56’47”, Ah tu, d’un padre antico) si difende ricordando lo stato di necessità (scegliere lui o il padre) che l’aveva imprigionata, difesa che però non convince Gualtiero. Il quale modulando a DO maggiore (57’58”, Vivea vivea per te soltanto) conduce insieme a Imogene alla conclusione di questa sezione del duetto, accolta ancora da moderati applausi. Segue il drammatico arrivo del figlioletto di Imogene, che Gualtiero vorrebbe sopprimere, convinto poi dalla donna a desistere dall’insano proposito. Inizia qui (1h00’26”) ancora in DO maggiore, la parte conclusiva del duetto, con Gualtiero (Bagnato dalle lacrime) che reitera le sue accuse ad Imogene, che invece (Non è la tua bell’anima, 1h01’01”) gli riconosce l’antica nobiltà d’animo. Anche qui la Yoncheva sembra assai a suo agio, un po’ meno Pretti, che comunque - prendendo fiato a scapito di qualche battuta - stacca con lei un apprezzabile DO acuto, trascinando il pubblico ad applausi abbastanza convinti.  

Segue il recitativo fra Imogene e Adele, mentre si ode sopraggiungere il corteo che riporta a casa Ernesto, dopo la vittoria sui pirati di Gualtiero. Il coro in FA maggiore che segue, aperto da un’introduzione strumentale piuttosto leziosa (1h05’04”) ha un portamento nobile, ma anche (1h07’40”) passaggi da marcetta accompagnata dalla banda del paese. Frizza e Casoni lo accorciano opportunamente di 25 battute di ripetizione.

Finalmente (1h08’56) fa la sua entrata in scena anche il terzo protagonista del triangolo amoroso, il Duca Ernesto, cui Nicola Alaimo subito cerca di dare l’importanza che merita (Sì, vincemmo). La sua aria in FA - con tanto di ripetizione - accompagnata dal coro, anticipa future conquiste belliniane per baritoni e bassi. Alaimo mostra fiero cipiglio e non demerita nemmeno sui virtuosismi cui Bellini lo chiama. Certo la voce è troppo chiara per fare la parte del cattivone, si adatta meglio ai Dulcamara o anche ai Falstaff, oltre che ai tanti buffi di rossiniana memoria, tuttavia il pubblico ha per lui solo applausi. 

Segue l’incontro di Ernesto con Imogene (1h15’11”) un recitativo di cui vengono tagliate - inspiegabilmente - 9 battute: il Duca si meraviglia dello stato depresso della moglie, alla quale domanda conto dell’aiuto portato ai naufraghi, che arrivano al suo cospetto (1h16’55”). La scena - prevalentemente in DO maggiore - è occupata dall’interrogatorio di Ernesto a Itulbo, che si è presentato come il capo dei pirati, per proteggere Gualtiero. Ci troviamo poi un’esternazione - in SOL maggiore - di Ernesto (1h18’06”) che decide di tener prigionieri i naufraghi; e poi una (ancora in DO) di Imogene (1h18’49”) che chiede invece al consorte di consentire loro di tornare alle loro terre, permesso subito accordato. 

Ha inizio ora il quintetto (con coro) che porterà alla conclusione dell’Atto. Vi sono impegnati - in LA minore, con modulazioni a maggiore - dapprima (1h19’36”) Gualtiero (che si rivolge a Imogene, chiedendole un’ultima udienza, pena qualche strage che lui metterà in atto) ed Ernesto (che mette i suoi sgherri sull’avviso, avendo sospetti sui naufraghi e su nuovi possibili sbarchi nemici). Quindi interviene Imogene (che risponde a Gualtiero, implorandolo di desistere dai suoi propositi). Ecco poi entrare anche Adele, Itulbo e il coro, che contrappuntano le esternazioni dei tre protagonisti. Alla chiusa in LA maggiore (1h23’38”) ancora applausi non fragorosi (e con qualche sommesso ululato in sottofondo...)  

Attacca poi (1h23’53”) la stretta finale del quintetto, introdotta da un recitativo in FA dove Gualtiero tenta di aggredire Ernesto, ma ne viene impedito da Itulbo e Goffredo, mentre Imogene quasi sviene ed Ernesto ordina venga accompagnata nelle sue stanze. Imogene (1h25’00”, Ah, partiamo, in SIb minore) attacca la stretta, incalzata subito da Adele, Gualtiero, Ernesto, Itulbo, Goffredo e coro, che modulando a SIb maggiore innescano (Infelice, quali accenti, 1h25’35”) il crescendo già udito nell’Ouverture. Dopo un drammatico rallentando, Imogene (1h26’16”) riattacca la stretta (SIb minore) e quindi riecco (1h26’46”) il crescendo in SIb maggiore, che qui viene tagliato di 22 battute (di ripetizione, incluso il vocalizzo del soprano). Alla chiusa ancora applausi abbastanza convinti. 

La registrazione porta direttamente al secondo atto (1h28’24”) e manca quindi la testimonianza del trattamento riservato dal pubblico a Frizza al rientro: personalmente non ricordo di aver udito per radio alcuna contestazione al Direttore.

L’atto inizia con un Coro introduttivo in DO maggiore, tempo 6/8, protagoniste le damigelle di Imogene, con Adele in primo piano, preoccupate per lo stato di prostrazione in cui versa la Signora. La sezione femminile del coro di Casoni lo interpreta con apprezzabile leggerezza e Marina de Liso ha modo di mettere in mostra le sue buone qualità. Adele invita ora (1h32’12”) Imogene a recarsi all’appuntamento con Gualtiero: lei dapprima recalcitra, poi si decide, ma in quel momento arriva Ernesto. Segue un recitativo (1h33’49”) in cui Ernesto accusa la moglie di sfuggirlo, e alle rimostranze di lei, la accusa apertamente per il suo amore per Gualtiero. Imogene lo accusa di crudeltà, ricordandogli di avergli dato un figlio, ma Ernesto (1h36’03”) attacca in LA maggiore il duetto (Tu m’apristi in cor ferita) tacciandola di empietà e iniquità. Imogene gli ribatte (1h37’40”) che il suo amore per Gualtiero era ben noto a tutti, quando lui la strappò al padre e pretese di averla in moglie senza essere amato. Ernesto (1h39’21”) ora ha avuto la sua confessione e rincara la dose (L’ami? Parla... l’ami?) Imogene si difende (1h39’46”) degradando la tonalità di un semitono, a LAb, riconoscendo di amare Gualtiero, ma di un amore senza più speranza, quello che si prova per un defunto. Ora si è passati in FA maggiore e in tempo Larghetto (1h41’27”) i due cantano i rispettivi moti dell’animo, dapprima per terze, poi (1h42’26”) disgiunti, poi ancora insieme. C’è un piccolo taglio di 7 battute (una ripetizione) prima dei due vocalizzi (lei e poi lui) che chiudono questa sezione del duetto. Ernesto - siamo passati a DO maggiore - riceve una missiva (1h44’52”) che lo informa della presenza di Gualtiero nel palazzo e va su tutte le furie, chiedendo invano alla moglie di rivelargli dove l’amante si nasconda. Inizia quindi, tornando a LA maggiore (1h46’00”) la parte conclusiva del duetto, con i due coniugi che manifestano gli opposti stati d’animo: lei teme una carneficina, quella che lui sta ostentatamente programmando. Qui ci sono due tagli (18+16 battute) che levano parecchie castagne dal fuoco ai due cantanti, risparmiandogli il fiato per esibirsi in un un LA acuto finale, non scritto in partitura e, per quanto riguarda il baritono, tanto velleitario quanto estraneo al personaggio. Il pubblico applaude moderatamente (ma Alaimo forse avrebbe meritato qualche dissenso, diciamolo pure).  

Siamo ora tornati da Gualtiero. Gualtiero ingaggia un recitativo - che si muove fra le tonalità  di LA minore, DO e MIb maggiore - con Itulbo (1h47’59”) durante il quale manifesta il proposito di incontrare a tutti i costi Imogene, vanamente sconsigliatone dal compagno. E proprio in quel momento compare la donna (1h49’33”) intenzionata a convincere Gualtiero a fuggire. Invano, chè lui conferma i propositi di prenderla con sè o morire. Inizia qui (1h51’28”) il duetto (che poi diverrà terzetto con il sopraggiungere di Ernesto). Gualtiero, in DO maggiore, invita Imogene a fuggire con lui (Vieni, cerchiam pe’ mari) chiuso da una salita (non scritta, ma efficace) al DO acuto. La risposta di Imogene (1h59’33”, Taci, rimorsi amari) arriva sulla stessa linea melodica, ma dopo una modulazione a LA maggiore: la donna prefigura i rimorsi che coglierebbero lei e l’amante per il resto della loro esistenza. I due (1h55’36”) ancora si scambiano opposti propositi, ma sta sopraggiungendo Ernesto (1h56’36”) che già pregusta il piacere di catturare Gualtiero. Qui inizia (1h56’55”) il terzetto vero e proprio, in tonalità di RE, poi di LA maggiore: Gualtiero si prepara al peggio (Cedo al destin orribile) e a sfidare la morte; Imogene ancora lo supplica di desistere; Ernesto (ancora non visto dai due) già prefigura una punizione esemplare per i fedifraghi. Qui mi pare che Frizza trattenga eccessivamente i tempi, i tre sono impegnati anche in alcuni virtuosismi che culminano, per tenore e baritono, in due non facili cadenze, sulla prima delle quali Pretti raggiunge (2h00’35”) con qualche affanno il RE acuto (questo scritto in partitura) mentre Alaimo (2h00’50”) cala vistosamente (MIb al posto di MI naturale) sul culmine della sua. Anche qui c’è un applauso non certo entusiasta. Attacca ora (2h01’38”) la parte conclusiva del terzetto. Gualtiero ancora indugia, ma Ernesto si palesa e fra i due si ingaggia una reciproca sfida mortale. Siamo ora alla stretta finale (2h02’51”) in DO maggiore, tutta su un ritmo puntato che ben evoca l’agitazione dei tre. La conclusione è, diciamo così... semplificata.

Ora abbiamo il recitativo di Imogene e Adele 2h04’47”): questa cerca di calmare la Signora, che invece vorrebbe precipitarsi per separare i due litiganti, marito e amante. Ci si muove da DO a RE minore, LA minore per tornare a DO maggiore. Le ultime 12 battute strumentali vengono tagliate, per passare direttamente (2h06’01”) alla scena successiva, che ci presenta già il risultato del duello fra i due contendenti: Ernesto ha evidentemente avuto la peggio, visto che i suoi guerrieri gli stanno facendo il funerale... Dopo l’introduzione strumentale, che va dal SOL a DO maggiore, ecco il coro (2h07’16”) cantare l’elogio funebre del Duca. Per un po’ Frizza tiene il tempo maestoso, effettivamente adatto ad un mortorio (pur se in DO maggiore...); poi però a un certo punto accelera vistosamente, e il coro si chiude con passo garibaldino.

Arriva ora Gualtiero (2h09’56”) accolto da improperi dei sudditi di Ernesto; ma lui getta la spada e si offre alla vendetta dei nemici; i quali tuttavia gli vogliono assicurare un giusto processo (!) Lui li sprona a far presto, altrimenti potrebbe pentirsi... E canta, rivolto ad Adele, la sua aria con coro in DO maggiore (Tu vedrai la sventurata, 2h12’00”). Pretti non se la cava poi troppo male, cerca anche di dare un po’ di espressione al canto, sale al DO acuto, e così alla fine, fra gli applausi, spunta anche un bravo! Segue un breve recitativo (2h15’32”) che prepara la sezione finale, sempre in DO, dell’aria di Gualtiero (Ma non fia sempre odiata, 2h16’48”). Anche qui Pretti mostra buona saldezza di voce, si permette anche di chiudere con un DO acuto non scritto, e gli applausi si ripetono.

Soppresso il breve recitativo di Adele e damigelle, che compiangono Gualtiero, ecco arrivare la scena finale (davvero la scena-madre) dell’opera (2h21’18”) aperta da un richiamo di corni in FA maggiore, cui segue un breve preludio caratterizzato da arcane sonorità e chiuso da un cupo accordo dell’orchestra. L’arpa attacca (2h22’35”) la mesta introduzione del corno inglese (in FA minore) all’ingresso in scena di una vaneggiante Imogene (2h25’04”) che canta un breve e straniato recitativo, compianta dalla fida Adele. Poi (2h26’57”, Ascolta) si imbarca nella narrazione di un sogno, un incubo, una visione tragica, il corpo trafitto di un uomo, non Gualtiero, ma Ernesto, che, sulla ripresa della melodia, reclama il figlio... E lei il figlio l’ha salvato e lo trascina verso il padre. Il figlio in carne ed ossa le viene portato e lei (Deh, tu innocente) lo abbraccia e lo bacia, chiedendogli di implorare al padre il perdono per lei.

Attacca ora (2h30’04”) l’aria più famosa dell’opera (Col sorriso d’innocenza): dopo l’introduzione del flauto, ecco Imogene (2h31’00”) rivolgersi al figlio perchè interceda per lei con il genitore. Il suono del gong (2h33’46”) avverte che la sentenza contro Gualtiero è stata emessa. Lo conferma subito (2h34’20”) il coro dei guerrieri e Imogene (2h35’23”, Oh sole, ti vela) vorrebbe scacciare la visione dell’amante decapitato. La Yoncheva regge discretamente lo sforzo, anche se stranamente evita (2h36’16”, D’orrore morrò) il DO acuto, fermandosi al SIb. Dopo il pertichino del coro, si ripete la strofa e la frase Oh sole (2h36’51”) e lo stesso abbassamento da DO a SIb (2h37’49”) già registrato prima. DO che viene passabilmente cantato sulla chiusa, accolta da applausi abbastanza intensi.

Ora, nella registrazione incriminata non ci sono le accoglienze finali, che hanno visto sonore contestazioni ad Alaimo, poi a Frizza e infine al regista Sagi. Per quel che posso giudicare dalla ripresa audio (sempre poco fedele, per definizione) queste contestazioni al baritono e al Direttore mi sono parse quanto meno eccessive, per non dire premeditate, ecco: possibile che durante tutta la serata non si sia udita una sola voce di dissenso, ma esclusivamente (sia pur moderati) applausi e poi soltanto alla fine esplodano contestazioni così vivaci?
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Chiuso l’esame (ormai virtuale, ahimè) della prima, vengo a ieri sera, raccontando subito del citato giallo prima dell’inizio del second’atto: l’intervallo si è protratto per almeno 20 minuti supplementari, il che ha dato la stura alle più svariate congetture (malore di qualche interprete, o magari uno sciopero selvaggio di sezioni dell’orchestra...) finchè Pereira (maleducatamente accolto da improperi dal loggione, subito rintuzzati dal soprintendente) ha annunciato l’indisposizione di Pretti (un calo di pressione, ufficialmente). Ma aggiungendo che il tenore avrebbe comunque proseguito la recita.

In effetti Pretti lo ha fatto, ma cantando quasi sempre da seduto (su sedie, poltrone, persino alla base del sarcofago di Ernesto) a conferma delle sue precarie condizioni. Sulla sua prestazione di ieri nel second’atto sarà doveroso astenersi da giudizi di merito, ma va comunque dato atto al tenore di aver fatto il possibile per garantire un livello dignitoso alla sua performance (sono mancati gli acuti, per comprensibili ragioni).

Per il resto devo dire che ieri l’accoglienza ai singoli numeri e quella finale sono state assai calorose per tutti (per Frizza anche al rientro dopo la pausa) con ovazioni - per Yoncheva e il Coro in testa - che si sono aggiunte agli applausi, sia alle uscite di gruppo che a quelle singole. Per me nel complesso - pur tenendo conto della menomazione di Pretti - si è trattato di una performance musicale più che accettabile, fatte le riserve che ho espresso via via lungo l’esame della prima. In sostanza, una riproposta che personalmente ritengo meriti ampia sufficienza.
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La messinscena è francamente - a mio modesto parere - ingiudicabile, nel senso che pare del tutto estranea al soggetto in questione. È già una fortuna che gli sia semplicemente estranea e non pervicacemente offensiva, ecco. La pagina di Note di regìa pubblicata sul programma di sala (contiene un sunto della posizione di Sagi) è un condensato di banalità e insensatezze: precisamente ciò che si vede in scena.

19 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Torvaldo e Dorliska


Terza recita anche per Torvaldo&Dorliska, ieri sera al Rossini, in un ambiente che anche logisticamente ti trasporta indietro di secoli, proprio ai giorni in cui la musica che si suona e si canta venne ideata e composta dal grande Gioachino. Bomboniera gremita e pubblico cosmopolita ben disposto al gradimento e all’applauso.

Opera che meriterebbe di essere riproposta più spesso, anche da altri teatri, stante il livello dei contenuti musicali: è un Rossini ancora giovane (1815) ma già alla sua 16ma fatica; è al suo esordio sulla piazza di Roma, dove poco dopo otterrà (a valle dell’iniziale fiasco) il successo destinato a divenire imperituro del Barbiere. E forse proprio la fama del Figaro ha finito per oscurare, immeritatamente, quella della sorella maggiore, che invece presenta struttura (arie, duetti, terzetti e concertati) e ispirazione davvero degni del miglior Rossini.

Il quale anche qui non si smentisce, quanto ad auto-imprestiti; ne segnalo almeno un paio: il primo è in uscita, il tema in LA maggiore (poi in RE) della Sinfonia che nei due anni successivi a quel 1815 migrerà dapprima nella Gazzetta e da lì nella Cenerentola. L’altro, in entrata (in FA maggiore, ad accompagnare Giorgio e il coro in apertura dell’atto II) viene immediatamente dal Sigismondo (1814) ma remotamente (1812) dall’introduzione della Scala di seta...

Sono le tre voci gravi del cast a innervare l’opera, fin dalle prime due scene, in cui spicca quell’impareggiabile terzetto con coro (si cercherà, si troverà) che anticipa proprio la cavatina di Figaro (Figaro qua, Figaro là) ma qui raggiunge vette esilaranti proprio per il continuo passare da una voce all’altra. E i tre interpreti sono anche stati i maggiori trionfatori della serata. Nicola Alaimo, la cui presenza scenica ha fatto da degno supporto ad una prestazione canora impeccabile; poi Carlo Lepore, presentatosi con il braccio sinistro al collo (una costante di questo ROF, dopo quello di Abbado...) che ha sfoderato tutta la sua proverbiale verve di autentico buffo rossiniano. Ma bene si è portato anche Filippo Fontana, che si è inoltre esibito come scalatore di alberi nella sua strampalata aria (sopra quell’albero vedo un bel pero) a metà del primo atto.

Dmitri Korchak ha confermato in pieno le sue doti che in pochi anni lo hanno portato ad emergere non solo nel repertorio rossiniano (ma presto vestirà i panni e soprattutto... la voce di Arnold): svettante negli acuti, sempre squillanti e capaci di penetrare anche i fracassi degli insiemi, ma assai efficace anche nei momenti più lirici e intimistici, dove sa sfoderare apprezzabili mezze voci.

Salome Jicia è certamente cresciuta, dopo la debuttante Elena dello scorso anno. Ma ancora mi pare debba lavorare sodo per raggiungere livelli di eccellenza: gli acuti sono spesso forzati e urlacchiati con timbro sgradevole (complice anche la regìa che la costringe a volte a cantare supina... posizione non ideale davvero); comunque una più che passabile Dorliska.

Raffaella Lupinacci ha pure lei mostrato qualche vetrosità nella tessitura acuta, comunque all’interno di una prestazione mediamente onorevole.

Altrettanto va detto del Coro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha anche dovuto affrontare difficoltà, come dire, logistiche, impostegli dall’eccentricità delle soluzioni registiche.

Francesco Lanzillotta si conferma più che una promessa: la sua è una direzione e concertazione precisa, attenta e rispettosa delle voci; e l’Orchestra Sinfonica G.Rossini ha dimostrato come anche piccole compagini di provincia sino perfettamente all’altezza di eseguire adeguatamente opere come questa. Gianni Fabbrini e Anselmo Pelliccioni hanno egregiamente sostenuto il ruolo del continuo (fortepiano e cello) nei recitativi, il primo ha pure vestito estemporaneamente i panni di comparsa...

Alla fine applausi, ripetute chiamate singole e collettive e ovazioni per tutti. Meritate, direi proprio.
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La regìa di Mario Martone era già sicuramente vecchia, come concezione, 11 anni fa, ed oggi è proprio irrimediabilmente passata. L’idea di ignorare il palcoscenico per portare l’opera in platea potrà piacere agli amanti dell’avanspettacolo, ma va decisamente a detrimento innanzitutto della precisione dell’esecuzione (un coro sparso per l’intera platea difficilmente sarà perfetto negli attacchi, col Direttore che gli volta le spalle...) e poi anche dell’ottimale fruizione da parte del pubblico un filino più... esigente.

Così, avendo sprecato l’intera scena per collocarvi il bosco (cui nel libretto semplicemente si accenna) ecco che al regista sarebbe rimasto solo il proscenio per ambientarvi l’intera vicenda: pretesto quindi per dislocare in sala passerelle, scale retrattili che scendono dai palchi del primo ordine, una gabbia che sale e scende proprio alle spalle del Direttore a far da cella per il povero Korchak, altre scale che portano nella buca dell’orchestra... insomma, un armamentario francamente bizzarro e soprattutto penalizzante per la concentrazione di interpreti e di pubblico. Ciliegina sulla torta, i volantini rossi con la scritta Viva Rossini fatti piovere dal loggione all’inizio del second’atto, in corrispondenza con il patriottico ingresso dei popolani di Ordow.   

Insomma, un allestimento fra il goliardico e il varieté, che peraltro in molti avranno anche apprezzato.