XIV

da prevosto a leone
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27 aprile, 2023

Pagelle sulla Lucia scaligera targata Oropesa-JDF/Chailly-Kokkos

La quinta (su 8) rappresentazione di Lucia di Lammermoor è andata in scena ieri sera alla Scala, in un teatro ben lungi dall'esaurito.

Tradita la prima per rispetto a… Rachmaninov, ho quindi iniziato l’approccio a questa nuova produzione attraverso lo streaming-on-demand di RaiPlay, che (ancora per pochi giorni, parrebbe) mette la recita del 13 aprile a disposizione del pubblico. (Nel frattempo è comparsa la registrazione anche su youtube, finchè qualcuno non reclamerà…) Come spesso accade, la ripresa televisiva dà assai di più (e non sempre meglio?) di ciò che si vede in teatro, soprattutto grazie alle angolazioni di ripresa e ai primi piani. 

Parto quindi dalla regìa, che in un’opera come questa conta (ad esagerare) per 20 su 100, rispetto alla musica, per dire che Jannis Kokkos ha fatto il minimo sindacale (ma per lui il salario minimo è un filino più alto degli stratosferici 9€ all’ora che tuttora si negano qui da noi…) limitandosi a coprire i personaggi con abiti contemporanei, il che ce li rende però ancor più antipatici e ridicoli, diciamolo francamente: volendo darci un riferimento all’attualità avrebbe potuto ambientare la vicenda fra le bande del Bronx (tipo West Side Story, per dire) visto che il soggetto è una scopiazzatura di Romeo&Juliet (con tanto di alias di Frate Lorenzo…)

E a proposito di scopiazzature, mi viene in mente la grande scalinata di Brockhaus-Svoboda del 2012, nella produzione del circuito lombardo; per il resto, trovate abbastanza bambinesche: animali di cartapesta – incluso un ramicornuto cervo -  assortiti qua e là e improbabili statue da Cimitero Monumentale… Insomma, una regìa inconsistente, che il loggione alla prima aveva disapprovato assai, e a ragione, mentre ieri sera è stato un filino più clemente (o talmente disinteressato, data l’assenza del regista alle uscite finali, da risparmiare anche sui buh…)

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I suoni - ancora una volta, e come sempre, se emessi come si deve! – hanno solo parzialmente rivalutato questa produzione.

Merito al 60% almeno di Direttore, buca e coro, davvero irreprensibili per ricercatezza di tempi, di suono, di sfumature e di pathosIl restante 40% se lo devono dividere i protagonisti, ai quali mi permetto di assegnare il premio di produzione nelle seguenti quote:

10% Lisette Oropesa (Lucia) [voce calda e morbida, acuti pennellati, agilità virtuosistiche, buona recitazione anche se un po’ contratta]

9% Boris Pinkhasovich (Enrico) [bella sorpresa, voce importante, sicura ed efficace presenza scenica]

7% JDF (Edgardo) [queste sue escursioni extra-rossini non (mi) convincono, fatta salva la sua grande professionalità e la voce ancora abbastanza integra; che però al loggione arrivava a malapena (la glassharmonica si sentiva di più!)]

5% Carlo Lepore (Raimondo) [ha fatto il possibile per non far rimpiangere Pertusi]

4% Giorgio Misseri (Normanno) [in proporzione al peso dei ruoli, all’altezza di JDF]

3% Leonardo Cortellazzi (Arturo) [minimo sindacale per lui]

2% Valentina Pluzhnikova (Alisa) [incoraggiamento per l’accademica]

Primo e terzo atto complessivamente discreti, il secondo francamente meno, con la punta di diamante dell’opera (il sestetto) passato via senza emozione.

Alla fine qualche bravo! per Oropesa, Pinkhasovich, Florez, Chailly e coro; applausetti per i restanti. Regista, come detto, non presentatosi. In tutto forse 7-8 minuti, poi tutti a nanna.

In conclusione, che dire? Maliziosamente: dovremmo ringraziare il Covid per averci risparmiato di sorbire questa passabile minestrina come cenone di un SantAmbrogio? 

29 maggio, 2015

Torna alla Scala la Lucia yankee


 

A poco più di un anno di distanza è tornata in Scala (e ci resterà per altre 5 recite, fino all’11 giugno) la donizettiana Lucia di provenienza MET. Sullo spettacolo quindi non avrei da cambiare idea, né da aggiungere altro a quel poco dichiarato a suo tempo.

Sul piano del cast, la continuità col passato è garantita dal solo Vittorio Grigolo, che anche ier sera è stato accolto come un marziano, anche se a me non è parso aver fatto molti passi avanti in questi 15 mesi: eccessive forzature dei suoni in alto e scarsa efficacia nei passaggi più intimistici.

Accolta da grande esultanza Diana Damrau, che effettivamente è stata una Lucia convincente, e non solo nella famosa scena della pazzia: qualche difficoltà nelle note gravi non ha offuscato una prestazione di alto livello, sia sotto il profilo della tecnica che sotto quello del portamento drammatico.

Gabriele Viviani è un Enrico dignitoso, ma non trascendentale. Meglio Alexander Tsymbalyuk, ben calatosi nella parte non facile di Raimondo. Gli altri due componenti del famoso sestetto di fine atto II (Juan Josè de León, Arturo, e Chiara Isotton, Alisa) hanno fatto onestamente la loro parte. Il Normanno Edoardo Milletti ha faticato assai a farsi udire, causa il combinato disposto Ranzani-Casoni 

A proposito dei quali dirò che il Coro ha offerto una prestazione degna della sua fama, travolgendo – nei passaggi d’insieme – anche le voci soliste. Ranzani ha diretto a memoria e, a mio modesto avviso, forse ha talora scambiato la partitura della Lucia per quella di… Attila (smile!)  

Pubblico una volta tanto abbastanza folto (sarà l’effetto-EXPO?) e unanime nel giudizio categoricamente positivo (proprio come si fosse al MET!) per questo spettacolo.
       

24 febbraio, 2014

Penultima Lucia alla Scala


Il calendario dei turni di abbonamento scaligeri ha fatto finire (nel mio caso) la Lucia dopo il Trovatore: così solo ieri pomeriggio ho potuto gustarmi (beh, insomma…) la penultima recita, in un teatro ancora una volta ben lontano dall’esaurimento.

 

La produzione arrivava direttamente dal MET, quindi assolutamente terra-terra, come si conviene ad un pubblico (quello yankee) che va ancora a teatro per divertirsi (ridendo e/o piangendo) guardando ed ascoltando ciò che gli autori dell’opera in programma hanno creato, e non per fare esercizi spirituali di decifrazione del geniale pensiero del regista di passaggio (smile!)

Così  Mary Zimmerman si è presa come unica libertà lo spostamento in avanti (di tre centuries, l’un per l’altro) dell’ambientazione. Se qualcuno si fosse domandato per quale precisa ragione, verso la fine del second’atto avrebbe avuto la risposta: doveva essere un’epoca in cui fosse già stata inventata la macchina fotografica! Sì, perché la scena finale dell’atto di mezzo (quella del famoso sestetto) è una festa nuziale (pur rovinata dall’intruso Edgardo) e nell’immaginazione della classica vecchietta del Nebraska (smile!) che va in pellegrinaggio al MET è giusto immortalarla con foto di gruppo (escluso ovviamente il disturbatore…)

Invece nel terzo atto la scenografia ricorda vagamente un saloon (con annesse camere al piano di sopra, dove si recano gli sposini e dove avverrà il fattaccio) o anche la ringhiera di un Holiday Inn ante-litteram. Per il resto scene e movimenti di masse e personaggi del tutto prevedibili. 

Sul fronte dei suoni, buone notizie (per me) da Albina Shagimuratova, una Lucia apprezzabile per sensibilità e portamento. Emozionante la sua scena della pazzia e convincente anche la prestazione strettamente vocale, impreziosita da una raffica di MIb acuti sparati come fossero noccioline. 

Vittorio Grigolo (trionfatore della serata) ormai sta conquistandosi saldamente il titolo di Kaufmann de no’ antri. Al bel Jonas non ha da invidiare né il look nè certe posture vocali piuttosto… posticce.  

Il cattivone Enrico era Massimo Cavalletti, autore di una prestazione tra lo sbiadito e l’incolore (smile!) Non molto meglio il Raimondo di Sergey Artamonov. Gli altri tre comprimari (Arturo Juan Francisco Gatell; Alisa Barbara Di Castri e Normanno Massimiliano Chiarolla) onestamente sufficienti, come il coro di Casoni.

 

Pier Giorgio Morandi ha diretto con mestiere e senza prendersi troppe… iniziative personali. Quando ci ha provato (il duetto Lucia-Raimondo) si è beccato un paio di sonori buh! (Effettivamente lì mi è parso avesse tenuto tempi da mortorio.)

In definitiva una domenica pomeriggio (quasi primaverile, da queste parti) da non disprezzare.
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Allego una monografia su Donizetti a firma William Ashbrook, comparsa su Musica&Dossier del marzo 1990.

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PS:  visto che oggi vanno di moda le staffette (dove però il testimone non viene passato ma scippato, stra-smile!) nel second’atto della Lucia abbiamo proprio la materializzazione della staffetta musicale Bellini-Donizetti-Verdi:


19 dicembre, 2012

La Lucia del circuito chiude la corsa a Pavia


Dopo essere passata da Como, Brescia e Cremona, la Lucia donizettiana chiude il suo percorso lombardo al Fraschini (oggi la seconda e ultima rappresentazione).

La locandina online (così come il programma cartaceo della stagione del teatro pavese) annuncia un finale a sorpresa: Nel cimitero dei Ravenswood, Edgardo, non potendo sopportare di continuare a vivere senza Lucia, verrà ucciso da Enrico. Ecco, mi ero detto, un’altra invenzione di qualche regista troppo amico dell’alcool (perché nemmeno l’originale di Scott la racconta così…) Invece l’invenzione è evidentemente del redattore del programma, quindi tranquilli, Edgardo si suicida, proprio come da copione, nell’apprendere della fine dell’amata.

E la regìa di Henning Brockhaus è in effetti assai rispettosa dell’originale di Cammarano, limitandosi ad una delle consuete (in questo caso innocue) deviazioni: ambientazione (ma lo si desume solo dai costumi di Patricia Toffolutti, chè altro in scena quasi non v’è) spostata di qualche secolo in avanti nel tempo. Per il resto l’allestimento è dominato dalle immaginifiche scene del compianto Josef Svoboda, che si riducono ad un velario mobile e semitrasparente - sul quale appaiono immagini che rimandano di volta in volta ai contenuti psicologici (o psichiatrici…) del dramma – ad uno scalone che occupa in larghezza l’intero palco e su cui si muove prevalentemente il coro, oltre ad ospitare l’arpa solista nella terza scena; e a qualche semplicissimo piece-of-furniture (un tavolo, una cassa, le bare degli avi miei…)    

Sul piano musicale, il giovane e bravo Matteo Beltrami – che ascoltavo dal vivo per la prima volta e mi ha fatto un’eccellente impressione alla guida dei ragazzi dei Pomeriggi - propone per la pazzia una variante alla tradizionale cadenza Marchesi-Melba, che dà modo a Ekaterina Bakanova di mettere in mostra le sue ottime qualità.

Il sestetto del second’atto è, con la suddetta scena della pazzia, uno dei piatti forti dell’opera: personalmente fatico sempre a liberarmi, ascoltandolo, dal truce ricordo della famosa Balena disneyana (da 25”) che per prima mi portò quella musica alle orecchie, quando ancora portavo le braghe corte (smile!) Un po’ come il rossiniano finale del Tell, cui non mi riesce di non associare quella specie di catena-del-dna che chiudeva le prime trasmissioni TV. Peccato, perché è grande musica, che sembra fare da cerniera fra Bellini e Verdi, incastonata com’è fra il Per te d’immenso giubilo, che richiama il belliniano Suoni la tromba, e il finale Esci, fuggi il furor, di cui Verdi si ricorderà nel Nabucco.

A fianco della Bakanova, dignitosi tutti gli altri (vedi locandina, compreso il sostituto di Giovanni Battista Parodi) che hanno dato vita, con il coro di Antonino Greco, ad un’esecuzione più che accettabile, accolta con (contenuto) entusiasmo dal non proprio oceanico e piuttosto infreddolito pubblico del Fraschini.

Al ritorno a casa, accendo la TV è chi ti trovo? Lord Enrico Asthon che proclama l’abolizione dell’IMU per Ravenswood!