XIV

da prevosto a leone
Visualizzazione post con etichetta lanzillotta. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta lanzillotta. Mostra tutti i post

17 agosto, 2023

ROF-44 live – Nedda di Borgogna


Il mio tour per le visioni live (tipica frase nell’idioma italico…) delle tre opere in cartellone di questo ROF è organizzato a ritroso: quindi ho iniziato ieri (in un’Arena occupata per non più dell’80%) da Adelaide di Borgogna, che è una nuova produzione, la seconda nella storia del ROF dopo quella del 2011, allora affidata a Pier’Alli. La registrazione video (mutilata della Sinfonia) è disponibile su youtube e fu effettuata al Teatro Rossini proprio alla rappresentazione del 16 agosto, quando ero anch’io presente e alla quale si riferiscono alcune mie note di commento. 

Il titolo del post si spiega ovviamente in riferimento alla regìa di Arnaud Bernard. Che ha impiegato il trucco, vecchio quanto il… teatro, di mostrarci appunto un soggetto di teatro-nel-teatro, con totale commistione fra l’ambiente (falso e bugiardo per definizione) del teatro e quello, vero, prosaico e a volte miserevole, della vita di ogni santo giorno. Così lo spettacolo è infarcito di mille dettagli che nulla hanno a che vedere con il serioso soggetto originale, ma molto con l’avanspettacolo: screzi fra cantanti e fra interpreti e regista, intoppi di ogni tipo alle prove dell’opera e soprattutto privati amoreggiamenti e tradimenti. Insomma, per tornare al titolo del post, vediamo in scena un soggetto di cui è esempio preclaro il lavoro di Leoncavallo.

 

Peccato che per quest’ultimo il soggetto intendesse programmaticamente presentare la citata commistione fra teatro e vita. Nulla di più lontano quindi dalle intenzioni e dagli obiettivi di Rossini e del suo librettista Giovanni Schmidt. Ergo possiamo dire, senza tema di smentite e rimanendo perfettamente seri, che questa produzione è una (simpatica perchè incruenta?) pagliacciata!

___

Venendo a cose serie, il povero Francesco Lanzillotta è stato vittima di un incidente stradale, in moto, che gli è costato qualche frattura. Perciò ha dovuto dare forfait per le tre restanti recite e sul podio è salito il promettente Enrico Lombardi che, come spesso accade a chi viene inopinatamente catapultato alla ribalta (e così anni fa fu proprio per Lanzillotta chiamato a sostituire Chung), ha sfruttato a meraviglia l’occasione per confermare le sue doti, con una direzione sicura e autorevole.


L’OSN-RAI lo ha assecondato (o forse… guidato?) nell’impresa. Così come il coro di Farina del Ventidio Basso, cui ci verrebbe da rimproverare qualche (ehm…) sfasatura, non fosse che fosse la volta bbuona anch’essa parte dei trucchi del regista!!!

 

Prima di dire delle voci soliste, va premesso che – come sempre - dal vivo le cose appaiono (o si sentono, nella fattispecie) sotto-dimensionate rispetto a quanto contrabbandato dalle riprese tecnologiche (microfoni-in-bocca). Ma i maschi (e insomma, diamogli ciò che è loro diritto naturale, una volta tanto) hanno tenuto gagliardamente botta: primo fra… due Riccardo Fassi, un Berengario che si sentiva anche da… Rimini; ma anche l’Adelberto di Renè Barbera, che ha sfoggiato tutto ciò che gli è concesso da madre natura.

 

Non proprio così le due femminucce (Peretyatko e Abrahamyan) protagoniste della relazione LGBTQ+, che hanno mostrato qualche problemino nella cosiddetta ottava bassa

 

Ma infine per tutti c’è stato un meritato trionfo (insomma, 7-8 minuti totali) che ripaga il cast (un po’ meno il regista…) dell’abnegazione dimostrata nell’affrontare disgrazie, sia quelle programmate che quelle materializzatesi on-the job.

14 agosto, 2023

ROF-44 via radio - Adelaide


Adelaide di Borgogna è una nuova produzione, la seconda nella storia del ROF dopo quella del 2011, allora affidata a Pier’Alli. La registrazione video di quell’esordio (mutilata della Sinfonia) è disponibile su youtube e fu effettuata al Teatro Rossini proprio alla rappresentazione del 16 agosto, quando ero personalmente presente e alla quale si riferirono alcune mie note di commento.

 

Come nelle due serate precedenti, anche quella di ieri va apprezzata sul piano musicale: il cast si è rivelato assai agguerrito e ben assortito in tutti i ruoli principali.

La protagonista è Olga Peretyatko, veterana del ROF (esordì in Desdemona nel 2007) e sempre di casa a Pesaro, a dispetto della travagliata relazione con il profeta-in-patria Michele Mariotti. Voce calda e omogenea in tutta la tessitura, solidi acuti e brillanti colorature. Il (la) deuteragonista Ottone è oggi quella Varduhi Abrahamyan che qui ha già interpretato Malcolm (2016, La Donna del lago) e Arsace (2019, Semiramide): ieri ha davvero superato il difficile esame, mostrando di padroneggiare questo ruolo fra i più importanti nella gamma rossiniana degli en-travesti

Gli altri due personaggi maggiori (e… maschili) sono il Berengario di Riccardo Fassi (Polibio nel 2019 e Stabat Mater nel 2021) e l’Adelberto di Renè Barbera, che esordì nel 2015 come Giannetto (Gazza ladra e Stabat) e l’anno successivo fu Narciso nel Turco. Entrambi hanno brillantemente superato la prova: il primo sciorinando la sua solida voce baritonale e l’autorevolezza del portamento; il secondo confermando le sue qualità di tenore dalla voce chiara, sempre ben impostata, e dagli acuti stentorei.

Completano il cast gli esordienti Paola Leoci (Eurice), applaudita anche alla sua breve arietta del second’atto; Valery Makarov (Iroldo) e Antonio Mandrillo (Ernesto).

Buone notizie anche da Francesco Lanzillotta, ritornato al ROF dopo il suo positivo debutto del 2017 (Torvaldo&Dorliska) che ha guidato la sempre impeccabile OSN-RAI; e dal Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina.

Quindi meritato successo per tutti.

___
Prossimamente commenterò lo spettacolo, affidato alla regìa del neofita (al ROF) Arnaud Bernard. Bossini e il regista ci hanno a parole fatto capire che l’idea portante dello spettacolo è un teatro-nel-teatro presentato in modo iper-realistico. 

E che c’è una sorpresa finale di sapore LGBTQ+!¾?@#§£$...... 

20 gennaio, 2020

La Risurrezione di Firenze


Eccomi quindi a riferire della seconda recita (ieri pomeriggio in un’OF ben affollata - mentre pare che così non fosse alla prima di venerdi...) dell’alfaniana Risurrezione.

L’ascolto della prima su Radio3 mi aveva positivamente impressionato: non già per la qualità della musica, che è quella che è... ma per quella degli interpreti (voci e strumenti) che mi era sembrata di buon livello. E devo dire che l’ascolto dal vivo ha confermato sostanzialmente questa impressione.

Anne Sophie Duprels è stata la regina della serata: voce abbastanza solida e corposa di soprano lirico-drammatico, ha proposto una Katiusha convincente nelle tre diverse prospettive nelle quali il personaggio si materializza: l’ingenua, spaurita ma infine voluttuosa adolescente; la spoetizzata e involgarita condannata-prigioniera; e infine la donna che trova la via della redenzione, pur non rinnegando i suoi sinceri sentimenti legati al tempo dell’ingenuità. 

Degna di apprezzamento la performance del tenore Matthew Vickers, un Dimitri a momenti spavaldo, oppure sconvolto (la rivelazione del figlio perduto) o ancora sinceramente premuroso con Caterina e leale con Simonson. La voce, che Alfano impegna spesso e volentieri nell’ardua zona di passaggio, è squillante e abbastanza ben proiettata, gli acuti sono staccati senza problemi. I duetti con Caterina sono stati fra le perle della serata.

Il catto-comunista Simonson era Leon Kim, che ha affrontato a viso aperto una parte baritonale per nulla facile, per quanto limitata al solo ultimo atto, mostrando buona intonazione e sicurezza anche nelle impervie salite al FA e al SOL cui lo chiama la partitura.

Applauditissima Romina Tomasoni, che ha incarnato la Matrena Pavlovna e (nel second’atto alla stazione) la fedele e premurosa Anna.

Francesca Di Sauro (Sofia Ivanovna) e Ana Victoria Pitts (sdoppiatasi in Korableva e Vera) hanno completato il cast dei ruoi principali con pieno merito.

Benissimo il Coro di Lorenzo Fratini, di rilievo quantitativamente non debordante, ma fondamentale, con interventi a bocca chiusa e a cappella. In più, alcune voci femminili hanno ricoperto ruoli non marginali, in particolare nel terz’atto della prigione.

Francesco Lanzillotta ormai non è più una promessa, e la sua concertazione ne è testimonianza, per accuratezza e costante ricerca del miglior equilibrio dei suoni di voci e strumenti. Poi, nei diversi passaggi puramente strumentali, il Direttore fa tesoro della lunga esperienza alla guida di Orchestre Sinfoniche.
___
L’allestimento è affidato a Rosetta Cucchi, che si avvale delle scene - essenziali, ma di sicuro impatto - di Tiziano Santi e degli appropriati costumi di Claudia Pernigotti. Le luci, ideate da D.M.Wood, sono curate da Ginevra Lombardo e nella loro essenzialità ben supportano l’ambientazione ora serena, più spesso cruda, dell’opera. 

Approntata per un appuntamento irlandese, questa messinscena si fa innanzitutto apprezzare per la fedeltà rigorosa (parlo della sostanza) al testo originale: la storia che ci viene raccontata è precisamente quella che esce dal libretto di Hanau. Dopodichè la regista ci deve mettere qualcosa di suo, come l’apparizione in scena di una bimbetta che rappresenta la Caterina nella sua infanzia spensierata; oppure ambientare il carcere in cui è rinchiusa la donna in un laboratorio di cucito, con una selva di macchine Singer, la cui presenza nella Russia del 1880-90 è dubbia; o ancora mostrarci nel quarto atto i binari di una Transiberiana che era con tutta probabilità ancora di là da venire... e altre cosucce francamente innocue, ecco. Assai efficace la resa dei personaggi e delle loro interazioni. Mirabile ed emozionante, senza scadere nel banale, la scena ultima, con l’apparizione di un luminoso paesaggio agreste nel quale si incontrano la Caterina risorta e la sua piccola controfigura.
___
Che dire, in definitiva? Lo spettacolo è di ottimo livello e l’accoglienza del pubblico è stata oltremodo calorosa. Insomma, un'azzardata scommessa (chè tale era e rimane) ampiamente vinta!

12 gennaio, 2020

Rarità in arrivo a Firenze: Risurrezione


Per quanto gli uomini, ammucchiati in uno stretto spazio a centinaia di migliaia, cercassero di isterilire quella terra sulla quale si stringevano; per quanto coprissero quella terra di pietre affinchè nulla più ci crescesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio; per quanto tagliassero le piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli uccelli; – pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in città. Il sole riscaldava, l’erba spuntava, cresceva e verdeggiava dovunque non la strappavano, e non solo sulle zolle dei giardini pubblici, ma anche fra i ciottoli delle vie; e le betulle, i pioppi, i viscioli allargavano i loro rami e le loro foglie odorose, ed i tigli gonfiavano le loro gemme pronte a sbocciare; i corvi, i passeri ed i colombi preparavano allegramente i loro nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Ed erano allegri gli uccelli, gl’insetti, e le piante, ed i bimbi. Ma gli uomini – gli uomini adulti – non cessavano dall’ingannare e dal tormentare sè stessi e gli altri. Gli uomini consideravano per savia ed importante non quella mattinata primaverile, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutti gli esseri, – quella bellezza che predisponeva alla pace, all’accordo, all’amore; ma invece solo sacro ed importante ciò che essi stessi avevano inventato per dominare gli uni sugli altri.

Greta? Francesco?

Queste parole di assoluta attualità sono l’apertura di Risurrezione di Leo Tolstoi, 1899. Da questa novella nel 1902 Henry Bataille trasse il testo di una pièce teatrale che fu vista da Franco Alfano. Il quale ne rimase tanto colpito da decidere di metterla in musica; ma le pretese eccessive del letterato francese indussero il compositore a ripiegare su una soluzione diversa: un libretto (affidato a Cesare Hanau, supportato dal drammaturgo Camillo Antona-Traversi) direttamente ispirato a Tolstoi e non a Bataille, il che spiega le non banali divergenze fra il testo del francese e quello dell’italiano.

L’OF ospiterà fra pochi giorni quattro rappresentazioni di quest’opera che ebbe un discreto successo al suo apparire, per poi... sparire o quasi dai cartelloni dei Teatri. Quando Alfano la presentò a Torino Giacomo Puccini aveva da meno di un anno sfornato la Butterfly, e certo non immaginava che una ventina d’anni dopo proprio al giovane collega partenopeo sarebbe stata affidata la sua tormentata e incompiuta Turandot per portarla... all’altare.

Il lavoro di Tolstoi ha caratteristiche piuttosto particolari, anche se non certo insolite per un’opera letteraria di quel genere: è infatti un racconto pieno di flash-back che mal si adatta al teatro (di prosa o musicale, cambia poco) e che la stessa cinematografia ha le sue belle gatte da pelare per rendere in modo efficace. Tolstoi apre il suo racconto proprio in-medias-res, in questo caso nel bel mezzo cronologico della sua storia (il processo a Caterina) metà della quale apprenderemo via via, appunto, come ricordi e riferimenti al passato, e l’altra metà come descrizione di eventi successivi, fino alla catartica conclusione. La pièce di Bataille e il libretto di Alfano-Hanau seguono invece un percorso rettilineo, che parte dall’evento scatenante del dramma (il prolifico incontro nella notte di Pasqua fra Dimitri e Caterina) e da lì procede fino alla fine.

Va subito sottolineato come le due riduzioni teatrali (Bataille e Alfano-Hanau) si concentrino esclusivamente (e, direi, appropriatamente, essendo opere destinate al teatro) sulla vicenda umana dei due protagonisti (Dimitri e Caterina) che invece in Tolstoi rappresenta - si potrebbe dire - solo il pretesto per l’esposizione di un vero e proprio trattato scientifico-antropologico-politico-giuridico-religioso, con tanto di critica corrosiva della società del suo tempo! Nel racconto del russo - che ha risvolti autobiografici - troviamo lunghissime dissertazioni sulla problematica della proprietà privata, in particolare di quella delle terre; e le proposte concrete, con tanto di contrattualistica, che il Principe Dimitri fa ai contadini dei suoi poderi essendo intenzionato a cedere loro la terra. Non parliamo poi della tematica relativa all’amministrazione della giustizia e delle carceri, con tanto di analisi dettagliate di leggi, norme, consuetudini e soprattutto con l’elencazione di casi che testimoniano infinite storture e brutalità del sistema. Ancora: argomenti squisitamente politici e ideologici, che occupano la mente di Dimitri, la cui parabola passa da un ingenuo idealismo adolescenziale, al conformismo che subentra con la maggiore età e il contatto con l’ambiente della nobiltà e dell’esercito, comprese le attitudini da libertino verso le donne (testimoniate anche da una relazione con una nobile sposata) di cui la povera Caterina diventa vittima; e infine - dopo il drammatico e quasi casuale incontro in tribunale con la ragazza sedotta anni prima e ora imputata di omicidio - il subentrare, attraverso il senso di colpa, di una volontà di riparazione, non solo del male fatto alla ragazza, ma del male dell’intero universo... maturando con ciò idee che oggi definiremmo catto-comuniste, un misto di radicalismo e filantropia, di cui è lampante esempio l’incontro-scontro con il cognato, membro dell’establishment dell’amministrazione giudiziaria e portatore di idee conservatrici, se non proprio reazionarie. Il racconto di Tolstoi si chiude con Dimitri che rilegge il Vangelo dopo l’addio di Caterina, rifiutatasi di accettare la sua proposta di matrimonio riparatore, il che fa esplodere in lui una profonda fede religiosa, che ispirerà la sua vita futura (Risurrezione!)

La mappa che segue reca le indicazioni delle principali località di cui si parla nel romanzo:


Panovo è la residenza delle zie di Dimitri, presso le quali il giovane aveva passato, da laureando, un periodo di vacanza, iniziando una tenera amicizia con la piccola Caterina. A distanza di pochi anni - ufficiale dell’Esercito - ci torna per trascorrere la Pasqua prima di andare a Odessa, e di lì al fronte per la guerra contro i turchi. Nella notte di Pasquetta mette incinta Caterina. (Si noti che Tolstoi ci rivela il nome del villaggio solo al 62° capitolo del racconto, dopo averne parlato già in lungo e in largo!) Alla periferia sud-est di Mosca (Kusminskoie) c’è il possedimento della madre di Dimitri, che lui deciderà poi di cedere ai suoi contadini. A Mosca (lo si deduce dal contesto, non viene detto esplicitamente!) si svolge anche - dopo qualche anno da quella Pasqua con Caterina - il processo alla ragazza (nel frattempo finita in casa di tolleranza) nel quale Dimitri fa da giurato popolare. A Pietroburgo si svolge la sessione del Senato in cui si discute la richiesta di cassazione del processo a Caterina, richiesta promossa da Dimitri ma respinta, il che comporta per la donna l’esecuzione della pena: lavori forzati in Siberia. Nizni (allora capolinea della ferrovia) Perm, Ekaterinburg, Tjumen e Tomsk sono le città citate nel romanzo e incontrate sul percorso di Caterina e dei deportati in Siberia, che Dimitri ha seguito, intenzionato a convincere la donna a sposarlo: dopo Tomsk la marcia prosegue ancora, ma senza che venga esplicitamente citata la località (forse Krasnojarsk...o l’ancor più remota Irkutsk) dove avviene la definitiva separazione fra Dimitri e Caterina.    

Tolstoi non dà precise indicazioni sull’epoca degli avvenimenti, ma il periodo storico si può abbastanza plausibilmente individuare in quella decina d’anni che decorre dallo scoppio della seconda guerra Russia-Turchia (1877): un indizio di ciò è nella presenza della ferrovia che passa nei pressi di Panovo, che Dimitri usa per andare al fronte turco, che certo non poteva esistere al tempo della prima guerra (quella di Crimea, per intenderci, che è del 1853-56).

Ora, dovendo ridurre un tomo di 800 pagine (129 capitoli suddivisi in tre parti) ad un testo teatrale, o a libretto d’opera, è evidente che si dovessero fare delle scelte. Lo schema sottostante riporta sinteticamente la struttura dei due lavori teatrali di Bataille e Hanau(-Alfano):


Come si può notare, le due riduzioni hanno alcune parti importanti in comune, ma altre diverse, a conferma dell’indipendenza del libretto di Hanau dal testo di Bataille. Entrambi contengono inoltre parecchie divergenze rispetto all’originale di Tolstoi, quasi inevitabili in casi come questo: quando si prendono, da un enorme mosaico, soltanto alcune tessere per costruirne uno più ridotto, è fatale che le tessere scelte poi non combacino più perfettamente, il che costringe a qualche... acrobazia per far tornare i conti. Incominciamo da Hanau. Il quale, nel secondo atto, modifica radicalmente la vicenda del mancato incontro fra Caterina e Dimitri alla stazione di Panovo.

Tolstoi: Dimitri è di ritorno dal fronte, ma fa sapere alle zie di non aver tempo di fermarsi nemmeno un giorno; è probabile che voglia evitare di incontrarsi con Caterina, che ancora abita lì (la sua gravidanza è tuttora un segreto, scoperto il quale verrà brutalmente cacciata): lei quindi, avendo evidentemente avuto l’informazione del giorno e ora di passaggio da Panovo del treno su cui viaggia Dimitri, si propone di parlargli in quei tre minuti di sosta del treno alla stazione, in piena notte. Purtroppo non ci riesce, per banali contrattempi.

Ora, costruire su questo prosaico episodio un intero atto d’opera sarebbe davvero dura... ed ecco che allora Hanau si inventa tutto di sana pianta: che Dimitri si ferma dalle zie per qualche giorno e (per matematica conseguenza) che la gravidanza di Caterina è stata già scoperta, portando alla cacciata della giovane dalla casa (altrimenti i due si incontrerebbero proprio lì, dalle zie...) Quindi si vede costretto ad inventare che Caterina abbia saputo da qualcuno della presenza a Panovo di Dimitri e del giorno della sua partenza, e che si rechi quindi alla stazione per incontrare il padre della creatura che porta in pancia (domanda: perchè non va direttamente a cercare Dimitri?) Ma adesso bisogna anche inventare un motivo per il quale l’incontro va a vuoto: ed ecco quindi la creazione del personaggio (muto) di Nora, che accompagna Dimitri e la cui presenza trattiene Caterina dal farsi avanti con l’amato (!)

Transigiamo sull’inspiegabile scambio di ruoli nel ricordo della corsa nei prati (in Tolstoi è lui che cade in mezzo alle ortiche, non lei, come nell’opera!) e sulla collocazione di Hanau della prigione di Caterina a Pietroburgo, invece che a Mosca, come correttamente fa Bataille. Il quale, da parte sua, costruisce il suo secondo atto mescolando due distinti episodi del romanzo: il battibecco a sfondo ideologico fra Dimitri e il cognato, e la rottura del fidanzamento dello stesso Dimitri con Missy. Comune a Bataille e Hanau è l’invenzione - nell’ultimo atto - della Pasqua in Siberia (in Tolstoi il racconto si chiude ancora in pieno inverno e sul mistico colpo-di-fulmine di Dimitri).
     
L’opera di Alfano viene (non proprio unanimemente) definita come verista: ma è un verismo (almeno secondo me) che si riduce a qualche contenuto musicale particolarmente carico di colori ed eccessi drammatici. Nella sostanza, il verismo autentico è in Tolstoi! Insieme all’assoluta coerenza del testo. Basta osservare come ci viene presentata dallo scrittore russo la vicenda della seduzione pasquale: Dimitri si era già, per così dire, traviato nei tre anni precedenti, con l’ingresso in società e il suo approccio verso Caterina in quella fatale Pasqua-Pasquetta, dopo un iniziale quanto fugace slancio romantico, fu di pura libidine e carnalità, desiderio maschilista di possesso: per tutta la giornata di Pasqua lui non fece che pensare a come possederla e per tutta la notte successiva non fece altro che darle letteralmente la caccia, fino a raggiungere il suo libidinoso obiettivo (infatti ricompensato con una banconota da 100 rubli, consegnata quasi di forza alla povera ragazza, trattata quindi come una prostituta!)

Nell’opera tutto ciò risulta assai edulcorato (verismo? haha...) ed anzi troviamo il giovane ancora ingenuo e romantico di qualche anno prima (cita addirittura Carducci: ecco l’albero a cui stendevi invano la piccioletta man...) L’unione fra i due alla chiusura del primo atto, a parte qualche timida esitazione di lei prima di abbandonarsi, è proprio la classica scena d’amore da melodramma tradizionale (...è il dì che unisce i nostri cuori in un solo destin!) La verità (di Tolstoi) la verremo sorprendentemente a sapere solo nel terzo atto, quando sarà proprio Caterina a svelarcela, rinfacciando a Dimitri l’affronto dei 100 rubli!

La stessa chiusa dell’opera è quanto di più melodrammatico (ma anche banalotto) si possa immaginare: il duetto strappalacrime fra due che si giurano amore e contemporaneamente si lasciano... e l’invenzione (mutuata da Bataille) della Pasqua siberiana con quella reiterata invocazione Cristo è risuscitato! che sa tanto di sagra paesana (dove magari spadroneggia la più grande ipocrisia). Tolstoi al contrario ci mostra il distacco fra Dimitri e Caterina con grande realismo (i due si lasciano come buoni amici, senza alcuna enfasi); e poi chiude con un fulminante concetto: dopo la lettura del Vangelo, che Dimitri fa la notte successiva, preparandosi a tornare in Russia, nulla - per lui, almeno - sarà più come prima!
___
Sul piano musicale siamo di fronte - sempre a parere mio personale - ad un velleitarismo degno di miglior causa. Per carità, si può apprezzare la buona volontà di questo 28enne che cerca di farsi largo seguendo la corrente italiana che in quel momento pareva prevalere, ma i risultati sono piuttosto modesti. E non a caso lo stesso compositore abbandonerà assai presto il filone verista per cercare altre strade originali (Sakuntala ne sarà un frutto apprezzabile). Tornando a Risurrezione, a parte pochi spunti (da contarsi col contagocce) non trovo in quelle quasi due ore di musica molto di coinvolgente, nulla che faccia vibrare genuinamente qualche corda interiore. È un quasi continuo recitativo accompagnato (o arioso al massimo) su motivi abbastanza anonimi, poco scolpiti e poco penetranti, che devono oltretutto supportare un testo di per sè piuttosto piatto e incolore. Qui una delle poche registrazioni dell’opera, dove di apprezzabile c’è soprattutto la straordinaria voce di Magda Olivero. 

Insomma: un’opera appena appena interessante, certo non bella. Possiamo sperare che il bravo Lanzillotta e la creativa Cucchi ce la rendano almeno interessante! Venerdi 17 alle 20 su Radio3 la prima.

19 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Torvaldo e Dorliska


Terza recita anche per Torvaldo&Dorliska, ieri sera al Rossini, in un ambiente che anche logisticamente ti trasporta indietro di secoli, proprio ai giorni in cui la musica che si suona e si canta venne ideata e composta dal grande Gioachino. Bomboniera gremita e pubblico cosmopolita ben disposto al gradimento e all’applauso.

Opera che meriterebbe di essere riproposta più spesso, anche da altri teatri, stante il livello dei contenuti musicali: è un Rossini ancora giovane (1815) ma già alla sua 16ma fatica; è al suo esordio sulla piazza di Roma, dove poco dopo otterrà (a valle dell’iniziale fiasco) il successo destinato a divenire imperituro del Barbiere. E forse proprio la fama del Figaro ha finito per oscurare, immeritatamente, quella della sorella maggiore, che invece presenta struttura (arie, duetti, terzetti e concertati) e ispirazione davvero degni del miglior Rossini.

Il quale anche qui non si smentisce, quanto ad auto-imprestiti; ne segnalo almeno un paio: il primo è in uscita, il tema in LA maggiore (poi in RE) della Sinfonia che nei due anni successivi a quel 1815 migrerà dapprima nella Gazzetta e da lì nella Cenerentola. L’altro, in entrata (in FA maggiore, ad accompagnare Giorgio e il coro in apertura dell’atto II) viene immediatamente dal Sigismondo (1814) ma remotamente (1812) dall’introduzione della Scala di seta...

Sono le tre voci gravi del cast a innervare l’opera, fin dalle prime due scene, in cui spicca quell’impareggiabile terzetto con coro (si cercherà, si troverà) che anticipa proprio la cavatina di Figaro (Figaro qua, Figaro là) ma qui raggiunge vette esilaranti proprio per il continuo passare da una voce all’altra. E i tre interpreti sono anche stati i maggiori trionfatori della serata. Nicola Alaimo, la cui presenza scenica ha fatto da degno supporto ad una prestazione canora impeccabile; poi Carlo Lepore, presentatosi con il braccio sinistro al collo (una costante di questo ROF, dopo quello di Abbado...) che ha sfoderato tutta la sua proverbiale verve di autentico buffo rossiniano. Ma bene si è portato anche Filippo Fontana, che si è inoltre esibito come scalatore di alberi nella sua strampalata aria (sopra quell’albero vedo un bel pero) a metà del primo atto.

Dmitri Korchak ha confermato in pieno le sue doti che in pochi anni lo hanno portato ad emergere non solo nel repertorio rossiniano (ma presto vestirà i panni e soprattutto... la voce di Arnold): svettante negli acuti, sempre squillanti e capaci di penetrare anche i fracassi degli insiemi, ma assai efficace anche nei momenti più lirici e intimistici, dove sa sfoderare apprezzabili mezze voci.

Salome Jicia è certamente cresciuta, dopo la debuttante Elena dello scorso anno. Ma ancora mi pare debba lavorare sodo per raggiungere livelli di eccellenza: gli acuti sono spesso forzati e urlacchiati con timbro sgradevole (complice anche la regìa che la costringe a volte a cantare supina... posizione non ideale davvero); comunque una più che passabile Dorliska.

Raffaella Lupinacci ha pure lei mostrato qualche vetrosità nella tessitura acuta, comunque all’interno di una prestazione mediamente onorevole.

Altrettanto va detto del Coro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha anche dovuto affrontare difficoltà, come dire, logistiche, impostegli dall’eccentricità delle soluzioni registiche.

Francesco Lanzillotta si conferma più che una promessa: la sua è una direzione e concertazione precisa, attenta e rispettosa delle voci; e l’Orchestra Sinfonica G.Rossini ha dimostrato come anche piccole compagini di provincia sino perfettamente all’altezza di eseguire adeguatamente opere come questa. Gianni Fabbrini e Anselmo Pelliccioni hanno egregiamente sostenuto il ruolo del continuo (fortepiano e cello) nei recitativi, il primo ha pure vestito estemporaneamente i panni di comparsa...

Alla fine applausi, ripetute chiamate singole e collettive e ovazioni per tutti. Meritate, direi proprio.
___
La regìa di Mario Martone era già sicuramente vecchia, come concezione, 11 anni fa, ed oggi è proprio irrimediabilmente passata. L’idea di ignorare il palcoscenico per portare l’opera in platea potrà piacere agli amanti dell’avanspettacolo, ma va decisamente a detrimento innanzitutto della precisione dell’esecuzione (un coro sparso per l’intera platea difficilmente sarà perfetto negli attacchi, col Direttore che gli volta le spalle...) e poi anche dell’ottimale fruizione da parte del pubblico un filino più... esigente.

Così, avendo sprecato l’intera scena per collocarvi il bosco (cui nel libretto semplicemente si accenna) ecco che al regista sarebbe rimasto solo il proscenio per ambientarvi l’intera vicenda: pretesto quindi per dislocare in sala passerelle, scale retrattili che scendono dai palchi del primo ordine, una gabbia che sale e scende proprio alle spalle del Direttore a far da cella per il povero Korchak, altre scale che portano nella buca dell’orchestra... insomma, un armamentario francamente bizzarro e soprattutto penalizzante per la concentrazione di interpreti e di pubblico. Ciliegina sulla torta, i volantini rossi con la scritta Viva Rossini fatti piovere dal loggione all’inizio del second’atto, in corrispondenza con il patriottico ingresso dei popolani di Ordow.   

Insomma, un allestimento fra il goliardico e il varieté, che peraltro in molti avranno anche apprezzato.       

11 agosto, 2017

ROF-XXXVIII. Le prime alla radio


La nuova produzione de Le Siège de Corinthe ha aperto a Pesaro il Festival rossiniano n°38. Per gli ascoltatori via etere hanno fatto gli onori di casa Guido Barbieri (da studio) e Oreste Bossini (in loco). Qualche discorso di circostanza (le doverose commemorazioni di Zedda e Gossett) poi la ormai ripetitiva auto-celebrazione di patron Mariotti-sr (il ROF come fucina di talenti canori e di innovative invenzioni registiche) e qualche sensata considerazione di Roberto Abbado sulla musica del Siège. Anche Carlus Padrissa ha avuto modo di spiegare ciò che nessuno aveva capito (!) della sua regìa, che dalle sue parole sembrerebbe piuttosto estranea allo spirito e all’estetica rossiniani... ma sarà meglio giudicare con l’approccio di SanTommaso.

Quanto alla musica, detto che si è impiegata l’edizione (critica?) di Damien Colas (che ha rispolverato da manoscritti conservati a Parigi un’estensione dell’aria di Pamira dell’atto II, un giro-extra di danze prima dell’Hymne, e ha fatto cantare nella chiusa dell’opera le donne greche) direi che Radio3 ci ha portato gradevoli sensazioni: l’OSN-RAI non si scopre oggi, mentre una buona impressione ha fatto l’esordiente coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che gioca un ruolo per nulla secondario in questo grande affresco a sfondo storico-patriottico.

Luca Pisaroni si è calato in modo convincente nei panni di quel Mahomet che storicamente era un autentico flagello, mentre Rossini lo ammanta di un’aura di nobiltà, mettendone in risalto i caratteri di uomo amante delle arti e di sincero innamorato: qualità che la voce chiara e baritonale di Pisaroni ha efficacemente interpretato. Nino Machaidze (mi) ha ben impressionato, avendo fatto emergere le due facce della personalità della protagonista: donna attirata dall’amore addirittura verso il nemico mortale della sua gente, ma poi eroina e patriota esemplare, fino all’estremo sacrificio. I due tenori del campo greco (il comandante John Irvin e l’eroico Sergey Romanovsky) hanno sfoggiato belle voci (forse troppo... simili, il primo dovrebbe essere più baritenore) e tecnica apprezzabile nei (pur non esagerati) virtuosismi cui Rossini chiama i due personaggi (Romanovsky ha anche sfoggiato un sicuro RE sovracuto). Efficace anche Carlo Cigni (come Hiéros) nel suo accorato ed autorevole appello del terz’atto. Oneste le prestazioni dei tre comprimari, tutti usciti dall’Accademia rossiniana: Cecilia Molinari (apprezzabile la sua ballade dell’atto II) Xabier Anduaga, e Iurii Samoilov.

Tutto sommato, un inizio abbastanza promettente.   
___
Promesse direi proprio mantenute con La pietra del paragone, questa commedia brillante dal soggetto assurdo e strampalato, che il grande Gioachino ventenne ha saputo ricoprire con musica strepitosa, ancora una volta nobilitata dall’esecuzione impeccabile dell’OSN-RAI guidata da un sempre più convincente Daniele Rustioni.

Ma anche il cast, quasi interamente di provenienza dall’Accademia rossiniana, ha ben figurato, con punte di spicco in Maxim Mironov e Aya Wakizono. Accanto a loro un efficace Gianluca Margheri e il navigato Paolo Bordogna. Un filino sotto metterei le due babbione (!) Aurora Faggioli e Marina Monzó. Completano dignitosamente la squadra Davide Luciano e William Corrò, mentre il Coro del Ventidio Basso ha confermato il suo valore.

Stando ai suoni arrivati via etere, si direbbe di un caloroso successo di pubblico.
___
E Torvaldo&Dorliska ha degnamente chiuso il primo turno delle recite rossiniane. Ascoltandola ci si stupisce sempre di come sia tuttora sottovalutata e negletta: poichè trattasi invece del miglior Rossini, con arie, duetti e concertati di prim’ordine, che impegnano al massimo livello il cast delle voci.

E quella messa in campo dal ROF è davvero una squadra di tutto rispetto, composta da veterani del Festival e da giovani e giovanissimi prodotti dell’Accademia. Fra i primi spiccano Carlo Lepore e Nicola Alaimo, veri trascinatori della squadra; in cui hanno ben meritato Dmitri Korchak, anche lui ormai di casa a Pesaro, e Salome Jicia, uscita dall’Accademia non più di due anni orsono e già al secondo ROF da protagonista, dopo il battesimo con Elena nel 2016. Bene anche Raffaella Lupinacci, tornata a tre anni di distanza dalla Publia dell’Aureliano, e Filippo Fontana, che ha completato il cast.

L’Orchestra Sinfonica G.Rossini - Provincia di Pesaro-Urbino ha supportato egregiamente cantanti e Coro della Fortuna di Mirca Rosciani; tutti ben concertati da Francesco Lanzillotta, esordiente al ROF, ma anche lui ormai entrato nel gruppo dei giovani Direttori italiani di talento.
___
Ernesto Palacio, Direttore artistico del Festival, ha annunciato ai microfoni di Radio3 il palinsesto principale del ROF-39: Ricciardo&Zoraide, Adina, Viaggio e Barbiere, quattro nuove produzioni per festeggiare adeguatamente il 150° anniversario della scomparsa di Rossini.

22 aprile, 2017

2017 con laVerdi – 17


Per la seconda volta nella stagione principale il concerto in cartellone vede protagonista una compagine ospite: dopo la Haydn di BZ-TN di alcune settimane fa è la volta di far visita in Auditorium per la Filarmonica Arturo Toscanini, guidata dal suo Direttore Principale, Francesco Lanzillotta.

Mihaela Costea (come si vede, caro DiMaio, dalla Romania non arrivano qui solo badanti e poco di buono...) è il primo violino dell’Orchestra e si esibisce come solista in un Concerto contemporaneo, opera del 79enne John Corigliano, figlio d’arte (il padre fu per anni e anni spalla della prestigiosa NYPO) e autore di musiche da film: dalla colonna sonora - premio Oscar - di uno di essi (The Red Violin) è stato ricavato, per successivi ampliamenti, il Concerto in programma, commissionato a suo tempo dalla Baltimore Symphony Orchestra (allora diretta da Temirkanov) e interpretato in prima nel 2003 da Joshua Bell. Qui lo si può ascoltare da Elina Vähälä con Slatkin.

Prima dell’esecuzione Lanzillotta illustra brevemente e meritoriamente le caratteristiche salienti del brano: opera che contamina il più classico diatonismo e le classiche strutture musicali con stilemi e passaggi di sapore novecentesco, che rimandano alla serialità e alle scuole del dopoguerra. Così troviamo quattro movimenti e l’impiego di un costrutto di ciaccona (sette accordi ascendenti) che permea il primo di essi per tornare poi ciclicamente in chiusura del concerto. Al solista sono riservati i motivi principali, di grande lirismo come il tema cosiddetto di Anna (la protagonista del film) e quello che occupa il poetico terzo movimento, oppure di grande energia e straordinari virtuosismi, come accade per lo Scherzo e l’Accelerando finale. 

Caratteristica del Concerto è la rarefazione del suono: non sono molti i momenti in cui l’orchestra interviene al completo (come il culmine del primo movimento dove la ciaccona e il tema principale esplodono con grande enfasi) per il resto alle evoluzioni del violino fanno da eco sommessi interventi di pochissimi strumenti, ora i legni, ora gli archi, più raramente gli ottoni.

Insomma, un pezzo assai interessante e gradevole, che la bella Mihaela (presentatasi con un lungo e scollato taffetà viola) mostra di padroneggiare alla grande, sia nei passaggi più squisitamente virtuosistici che in quelli dove predominano il lirismo e la cantabilità. Per lei grande successo ricambiato da un bis di carattere patriottico (Enescu).

La seconda parte del programma è occupata dalla celeberrima Settima beethoveniana. Qui la Toscanini si scatena e la wagneriana apoteosi della danza diventa un’autentica orgia di suoni. Al cui interno però spicca mirabilmente l’Allegretto, una parentesi davvero emozionante.

Per Lanzillotta e la sua compagine un successo trionfale in un Auditorium abbastanza affollato, che li attende per la replica domenicale.

21 marzo, 2016

Il Conte di Essex onorevolmente decollato sotto la Lanterna

 

Ieri pomeriggio un Carlo Felice piacevolmente gremito da una folla entusiasta ha ospitato la seconda recita di Roberto Devereux, terzo atto della donizettiana trilogia Tudor (1830 Bolena, 1835 Stuarda, 1837 Devereux). Tre opere che trattano (più o meno liberamente) delle vicende dei reali inglesi negli anni che vanno dal 1536 al 1601: sono 65 dei 70 anni di Elisabetta I. Lei ai tempi dell’Anna Bolena (sua madre) aveva solo 3 anni, quindi non poteva ancora comminare condanne a morte (quella della madre toccò al padre Enrico VIII) e tantomeno cantare in teatro (smile!) Ne aveva poi 54 (1587) ai tempi della Maria Stuarda, sua cugina da lei mandata al patibolo, e 68 appunto in questo Roberto Devereux, pure spedito anzitempo (aveva precisamente la metà degli anni della Regina, 34!) al creatore.

Ecco, i tre personaggi che danno i titoli alle opere hanno in comune il fatto di essere decollati: oh, parliamo di decollazioni, mica di decolli... di aerei per le vacanze, eh! E non si trattò di cose semplici e burocratiche, tutt’altro: vediamo.

Anna fu gratificata dal corpulento Enrico (180Kg per 180cm!) non di uno ma di ben due privilegi: la pena canonica per arrostitura al rogo fu commutata in quella per decapitazione; per di più da eseguirsi, invece che con il barbaro rito albionico (scure calata dal boia sul collo della vittima appoggiato sul ceppo) con il più raffinato ed assai meno antipatico rito francese, che prevedeva – in attesa dell’invenzione della tecnologica ghigliottina - la mozzatura del collo eseguita con un colpo di spada e con la vittima inginocchiata sì, ma con il capo in posizione eretta (già, l’esprit de finesse... sappiamo che Anna da ragazza aveva soggiornato alla corte parigina). Quindi per lei fu chiamato dalla Francia un autentico specialista del ramo, tale Jean Rombaud da Calais che, armato di un ben affilato spadone da samurai, con un sol fendente le separò di netto la testa dalle spalle.

Per Maria invece si resero necessarie ben due asciate del boia, più un terzo colpetto per recidere un’ultima cartilagine renitente; poco dopo fra le pieghe delle sue vesti si scovò un piccolo maltese che Maria si era portata appresso e che si rifiutava di abbandonare il suo corpo straziato.

Ma peggio ancora andò al Roberto, sul cui robusto collo il boia dovette infierire con la scure per ben tre volte, prima di poter esibire alla folla la testa del fedifrago, gridando lo slogan di prammatica: God save the Queen
   
E le parole con cui principia l’Inno britannico ci portano direttamente alla Sinfonia dell’opera. Peraltro sarà bene ricordare che per la prima assoluta di Napoli (domenica 29 ottobre, 1837) Donizetti aveva composto, un po’ come aveva fatto per la Stuarda, solo un brevissimo (11 battute) Preludio che precede l’Introduzione dell’Atto I. La Sinfonia che oggi si esegue comunemente fu composta per la prima francese (giovedi 27 dicembre 1838, Parigi, Théâtre des Italiens) e francamente, se proprio non è un corpo estraneo rispetto all’opera, di certo ne evoca assai maldestramente i contenuti. Dopo l’attacco in SOL minore, con i pesanti accordi sulla dominante RE, compare improvvisamente nella relativa SIb maggiore (eccolo là) il famigerato God save the Queen!

Così come è antistorico il finale dell’opera, con l’abdicazione del tutto inventata di Elisabetta in favore di Giacomo (figlio della Stuarda, guarda un po’ i casi della vita...) altrettanto fasulla è la citazione dell’inno che risale, a voler esagerare, al 1619 (John Bull) ma più probabilmente a metà del 1700 (definitiva vittoria degli Hannover sugli Stuart). In ogni caso nel 1601 (anno di ambientazione dell’opera) l’inno non esisteva proprio. Ritorna il SOL minore con un motivo agitato, intercalato ancora dall’inno britannico, prima che una serie di modulazioni porti al FA maggiore, dove ascoltiamo il tema che Devereux canterà in LA maggiore nel terz’atto (Bagnato il sen di lagrime) apprendendo della sua imminente decollazione e della disperazione che ciò provocherà nella sua amata Sara. Solo che qui viene presentato come un’allegra marcetta! Poi si modula progressivamente a RE maggiore per l’entrata di un nuovo motivo assai vivace e spensierato, e infine - per chiudere in bellezza, neanche fossimo a... Cavalleria leggera - ecco tornare il tema di Devereux letteralmente spiritato, con protervo accompagnamento (RE-LA) di timpani. Insomma, una cosa assai bizzarra, giustificata probabilmente dal desiderio di Donizetti di accattivarsi a buon mercato le simpatie del pubblico parigino. Ecco perchè alcuni direttori (qui il leggendario Gavazzeni a Bologna nel 1993) scelgono talvolta di eseguire l’opera proprio come presentata in origine a Napoli, cioè senza la discutibile Sinfonia appiccicatavi a posteriori.

Quanto al libretto di Salvadore Cammarano, si può dire abbia davvero un corposo pedigree: di certo fu ispirato direttamente (come l’analogo del 1833 di Romani per Mercadante) dal dramma Elisabeth d’Angleterre di Jacques-François Ancelot (1829). Ma  un’altra probabile fonte di Cammarano risalirebbe al 1787, e si tratterebbe di un testo di Jacques Le Scène-Desmaisons intitolato assai sinteticamente (!) Histoire d'Élisabeth et du comte d'Essex, tirée de l'anglois des Mémoires d'un homme de qualité. Il quale testo era quindi a sua volta la traduzione di un altro di autore anonimo (ma... di qualità) risalente al 1680 e titolato The secret history of the most renowned Q. Elizabeth and the E. of Essex by a person of quality. Il quale a sua volta potrebbe essere la traduzione dal francese di un preesistente (1678) Comte d'Essex histoire angloise. Insomma, un soggetto di lunghissima data! E non a caso, dato il mistero e la curiosità che la persona della Regina vergine (?!) ha suscitato nella fantasia popolare.

È chiaro che il soggetto di Cammarano non si ponesse l’obiettivo di tenerci una lezione di Storia albionica, ma ovviamente di creare ambienti, vicende e situazioni che fornissero al compositore materia per un classico melodramma. A partire da un paio di oggetti che servono a pilotare colpi di scena e ad influenzare il corso degli avvenimenti: l’anello donato da Elisabetta a Roberto in segno (per lei) di amore e (per lui, evidentemente) di semplice stima per le sue capacità politico-militari, anello che alla fine manca il suo scopo (tornare in mano alla Regina salvando Roberto) per uno stupido ritardo di pochi attimi; e una sciarpetta ricamata e donata (in segno di amore) da Sara a Roberto, che diviene il reperto principale per il capo di imputazione del Conte: tradimento nei confronti della Regina, ma mica di natura politica (per quello Elisabetta poteva girare la frittata a suo piacimento e fregarsene del Parlamento) bensì di natura sentimentale, che insieme al mancato arrivo dell’anello fa scattare il risentimento personale della Regina nei confronti di Roberto, decidendola per la sua esecuzione capitale.

Naturalmente troviamo nel libretto anche alcune profondità di contenuto, relative all’inquadramento delle diverse personalità dei protagonisti. Così abbiamo una Regina innamorata, ma più che del giovane Roberto in carne ed ossa, dell’amore in quanto tale, che reclama i suoi diritti sulla sua psiche (L'amor suo mi fe' beata è evidentemente frutto della sua immaginazione, come ci conferma nel duetto del prim’atto l’inconciliabilità fra le parole sue Un tenero core mi rese felice e quelle di Roberto Indarno la sorte un trono m’adddita) a dispetto delle sue volontarie e istituzionali auto-castrazioni. La sua conclusiva abdicazione è più al ruolo di donna, ormai per lei impossibile a realizzarsi, che non a quello di Regina

Sara è il suo contraltare, ma solo in parte: nessuna prospettiva - ma nemmeno alcuna aspirazione - di tipo politico (e qui siamo agli antipodi di Elisabetta) e invece una morbosa e contrastata vita sentimentale, che viene guarda caso condizionata proprio dalle decisioni della Regina: spedire il suo amato Roberto in Irlanda e metterla in moglie al fido Nottingham. La poverina non vede proprio vie d’uscita alla sua condizione (Io vivendo ognor morrò... ci racconta chiudendo la sua triste romanza di presentazione) e il corso dell’opera altro non farà che confermare, passo dopo passo, questa nichilistica prospettiva.

Nottingham è (ma solo a prima vista) il classico uomo tutto d’un pezzo: fedeltà assoluta alla Regina e fraterna amicizia per il coetaneo Roberto; rapporto quest’ultimo che viene fatalmente ad incrinarsi e poi a spezzarsi a causa della condivisione forzata di Sara, che lui ama per dovere convenzionale, mentre lei ha il cuore – anche se non il corpo, stando a Cammarano! - tutto per Roberto. Però alla scoperta della sciarpa di Sara finita in mano a Elisabetta il suo comportamento è proprio da gran paraculo: sfrutta l’incidente e la sua conoscenza del legame affettivo della Regina per Roberto al fine di convincere Elisabetta a mandare l’ex-amico al patibolo, ma noi sappiamo bene che in realtà lui vuol vendicarsi di Roberto poichè si sente da questi cornificato (in via platonica o materiale). Alla fine, scoperti inevitabilmente tutti gli altarini, i coniugi Nottingham vengono meritatamente accomunati dal pollice-verso della Regina, ma francamente chi ci perde di più, diciamolo pure, è la povera Sara, l’unica vittima davvero innocente di tutto il dramma.

Infine Roberto, che dà il titolo all’opera, è forse il personaggio più indecifrabile e non proprio cristallino: fatto oggetto delle attenzioni della babbiona Regina, sembra fingere una certa condiscendenza – ma ogni volta che Elisabetta tocca il tasto del sentimento, lui risponde con quello della fedeltà istituzionale! – solo per trarne vantaggi politici, mentre in realtà i suoi pensieri (e... altro?) vanno alla giovane Sara. Il che lo mette però in una situazione insostenibile, una dissociazione schizofrenica che lo porta dritto al patibolo, pur con le attenuanti della sfiga (Sara impedita dal restituire in tempo il salvifico anello ad Elisabetta).

Ecco, a mo’ di passatempo possiamo provare ad immaginarci come sarebbe mutato il finale nel caso di tempestivo arrivo dell’anello; qui avremmo almeno due possibili sviluppi: Elisabetta resta fedele al suo recente proposito (Vivi, ingrato, a lei d’accanto) e così fa giustiziare Nottingham e consente a Roberto e Sara di coronare il loro sogno d’amore; o viceversa, toglie di mezzo i due Nottingham e così può vivere felice e contenta con il suo Robertino, hahaha!
___
Sul piano musicale forse non si toccano i vertici della Lucia, ma non v’è dubbio che l’opera sia uno scrigno di tesori, a partire dalla splendida appropriatezza della scolpitura in suoni della personalità dei quattro principali protagonisti. Non mancano nemmeno omaggi alla più alta tradizione, come testimonia la scena di Roberto nella prigione, che par proprio una versione, diciamo così, à la bergamasque, di quella che apre con Florestan il second’atto di Fidelio.

Mariella Devia è stata -  c‘era forse da dubitarne? - la grande trionfatrice della recita: alle qualità artistiche aggiunge qui anche la perfetta adeguatezza all’età della protagonista: 68 anni! E portati canoramente assai bene, al contrario di quanto accadde qui (2 anni fa) alla inossidabile Edita Gruberova, pure cimentatasi a 68 anni nella stessa parte con risultati – ahilei e ahinoi - purtroppo deprimenti. Il (pur esteticamente discutibile, e non prescritto da Donizetti) RE sovracuto conclusivo è stato il diamante sonoro posto su una ideale corona regale di cui la Mariella ha tutto il diritto di fregiarsi.

Prestazione di buon livello quella di Sonia Ganassi, alle prese con una parte non proibitiva, ma sostenuta con la grande professionalità che contraddistingue da sempre il mezzosoprano emiliano. In particolare citerei per efficacia il duetto con Roberto che chiude il primo atto.

Eccoci appunto al protagonista che dà il nome al titolo: Stefan Pop. Il peso-massimo (ma non gli auguro di raggiungere... Enrico VIII!) rumeno non ha ancora 30 anni, ma la voce è a dir poco sontuosa. Certo, sono i proverbiali 1000 cavalli da mettere a terra, come si usa dire in F1, e il buon Stefan dovrà ancora lavorare parecchio per ottenere un rendimento di eccellenza. In particolare sul versante dell’espressione, che talvolta fa le spese della stessa invadenza della voce. Nella cabaletta finale (che pure il pubblico ha accolto con ovazioni) il nostro si è lasciato prendere da eccessiva foga, accentuando in modo (per i  miei gusti) eccessivo la puntatura del tema, ottenendo effetti da... operetta, ecco.

Nottingham – come annunciato da un foglietto inserito nel programma di sala, ma non dall’altoparlante – era Mansoo Kim, che ha anticipato il cambio a Marco Di Felice. Il baritono coreano si è portato assai bene, già dalla cavatina del prim’atto: la voce è abbastanza solida e... promette bene, diciamo.

Più che positivi Alessandro Fantoni (lo sbifido Cecil) e Claudio Ottino (Gualtiero). Il coro di Pablo Assante ha assolto dignitosamente il suo compito: che non è quantitativamente impegnativo, ma ciò che conta è la qualità della prestazione.

Che dire di Francesco Lanzillotta? Il giovane romano, che ha fatto gavetta più all’estero che in Italia, ha indubbie qualità e merita incoraggiamento: ha le carte in regola per aggiungersi al gruppetto dei giovani direttori italiani, che comprende Mariotti, Bignamini, Beltrami, Rustioni, D’Espinosa...
___
Due note sull’allestimento del baritono Alfonso Antoniozzi. Con i tempi che corrono, c’è sempre da fare i complimenti ai registi che ti mostrano precisamente il soggetto dell’opera così come esce da libretto e partitura, risparmiandoti cervellotiche ambientazioni, che so, nella sede di una cupola mafiosa o nel board di una multinazionale quotata a WallStreet. Ecco, qui a Genova si assiste proprio alla vicenda narrata nel libretto. Magari senza troppi orpelli inutili o pacchiani; le scene di Monica Manganelli sono semplici ed essenziali (una piattaforma sopraelevata di qualche gradino dal palco, dove si svolge l’azione) e in più funzionali ai mutamenti d’ambiente, ottenuti spostando pannelli costituiti da grate, che supportano trono, scranni, celle carcerarie, e lasciano sempre intravedere ciò che sta dietro (poichè a corte si spia e si trama). Ambientazione scura, come si addice al soggetto che pochissimo spazio lascia a luce e serenità.

I costumi di Gianluca Falaschi sono allo stesso tempo fedeli a quanto i dipinti d’epoca ci tramandano e di una ricchezza davvero sontuosa! Assai efficaci le luci di Luciano Novelli, che mettono di volta in volta in risalto i movimenti dei personaggi e delle masse.  

Il malsano ambiente di corte è didascalicamente rappresentato dalle maschere indossate dalle masse e dalla presenza di giullari: come dire che la corte è tutta una pagliacciata? I movimenti di tutti sono sempre piuttosto lenti e ieratici (del resto nel libretto c’è assai poca azione) ma assai appropriati alle diverse psicologie dei protagonisti.
___
Come detto, accoglienza calorosissima per tutti e trionfo-nel-trionfo per la grande Mariella. Che a questo punto aspettiamo ancora a Genova per il previsto completamento della trilogia.