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12 ottobre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.2

Il secondo appuntamento della stagione 24-25 de laVerdi vede l’esordio sul podio dell’Auditorium del giovane (28 anni scarsi) Diego Ceretta, attuale Direttore Principale della rinomata Orchestra Regionale della Toscana.

Il programma, di struttura classica (breve brano di apertura, concerto solistico e sinfonia) si apre con la prima esecuzione italiana del compositore in residenza, che risponde al nome di Nicola Campogrande, intitolata per l’appunto Cinque modi per aprire un concerto. Opera del 2021 (in piena era-Covid) eseguita per la prima volta in Spagna al Festival Diacronias, che l’aveva commissionata.

Qui lo stesso Aurore ce ne descrive l’origine e il contenuto. Come ci anticipa il titolo della composizione, si tratta di cinque piccoli pezzi (meno di 8 minuti) dalle caratteristiche contrastanti, per evocare altrettanti scenari psicologici e/o naturalistici. Un pezzo assolutamente godibile (chiude con un walzer in piena regola!) che il pubblico (ieri abbastanza folto) ha mostrato di apprezzare.

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Ecco poi la sempre bella (e brava, ovviamente!) Francesca Dego proporci il monumentale Concerto per violino op.61 di Beethoven. La sua è una prestazione davvero eccellente, dal lunghissimo primo movimento, con la massacrante e difficilissima cadenza (dove Kreisler sviluppa i temi incastrandoli mirabilmente) al sognante Larghetto, una vera perla preziosa, al danzante Rondo finale, con vorticosa cadenza.

Ceretta la accompagna con discrezione, salvo lasciare (per me) troppa briglia sciolta all’orchestra nei passaggi di insieme, esagerando con i decibel (forse anticipando il successivo Ciajkovski…)

Gran festa per la neo-mamma, che ringrazia per l’accoglienza (27 volte!) e ci offre un bis mai suonato prima, il Capriccio polacco di Grażyna Bacewicz. Ma non si ferma qui: visto che il pubblico continua ad acclamarla, fa altri due encore di puro virtuosismo, con Bach (Giga dalla Partita in Re minore) e Paganini (Capriccio 16).

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Ha chiuso la serata Ciajkovski con la Prima Sinfonia, cui lo stesso compositore affibbiò il nickname di Sogni d’inverno. Opera ancora piuttosto acerba (come ho scritto a suo tempo…) anche se non priva di spunti interessanti ed apprezzabili.

Ceretta l’ha mandata a memoria (buon segno, indice di studio approfondito) e l’affronta con il giusto equilibrio (necessario di fronte a questa partitura piuttosto farraginosa…) Gesto sobrio, mai stucchevole o inutilmente enfatico, attacchi precisi e (qui ci sta tutto), libero sfogo ai momenti roboanti (in particolare il Finale) di questo giovanile lavoro. Ma assai bene anche il Trio dello Scherzo, per me la cosa migliore di tutta la sinfonia.

Convinti applausi per lui, per le prime parti e le sezioni dei fiati (molto impegnati da questo Ciajkovski piuttosto velleitario) e infine per tutta l’orchestra. 


08 ottobre, 2022

laVerdi 22-23. 2

Ancora un programma ultra-tradizionale (nell’impaginazione) per il secondo appuntamento della stagione dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio il 28enne londinese Joel Sandelson, uno dei tanti astri nascenti (ma proprio… in fasce) della direzione d‘orchestra, dopo esser venuto alla luce come cellista.

Ma è l’attualità ad irrompere in scena prima delle note: la Presidente Ambra Redaelli si aggiunge alla schiera di donne illustri nel testimoniare solidarietà per Mahsa, recidendosi pubblicamente una bella ciocca di capelli.

E a proposito di attualità, il brano di apertura, invece della classica Ouverture (o cose simili) è una Sinfonia-con-voce di Nicola Campogrande (testo di Piero Bodrato) che reca un titolo allusivo: Un mondo nuovo. Opera commissionata all’attuale Direttore del MITO dall’Orchestra milanese e da altre istituzioni musicali internazionali. Opera composta di getto nella scorsa estate sotto l’impressione e l’incubo della guerra che ancora (e sempre più minacciosamente, anche per noi) insanguina quel lembo orientale dell’Europa. Questa di Milano è la seconda assoluta, la prima essendo stata data a Roma lo scorso 30 settembre con l’Orchestra di Roma Tre e la stessa interprete vocale, la 43enne di Wùrzburg Theresa Kronthaler.

Strumentazione con i fiati – senza tromboni e tuba - rigorosamente a coppie, poi archi e nutrita batteria di percussioni. Quattro movimenti, come in ogni Sinfonia classica che si rispetti, con l’unica (mahleriana peraltro) eccezione del movimento finale lento e cantato:

Allegro, 4/4 (87 battute). Beh, non pretenderemo di trovarci la classica forma-sonata… però almeno vi compaiono due temi ben riconoscibili, il primo dei quali chiude il movimento.

Adagio espressivo, 4/4 (37 battute). Questo è il tradizionale movimento lento, con flauto e clarinetto che staccano pochi melismi sul tappeto degli archi.

Allegro spiritoso, 3/4 (85 battute, di cui 73 da ripetersi). Nell’800 si sarebbe chiamato Scherzo… in realtà pare più un comodo Ländler.

Adagio cantabile, 4/4 (Canto nel canto, il canto. 114 battute). Non saprei dire se Mahler (oltre alla forma) abbia anche ispirato il testo e la musica: tuttavia la presenza del canto ci ricorda la Cäcilia del Wunderhorn e la sua ottimistica chiusa.

Campogrande resta saldamente ancorato alla tonalità, solo un poco increspata, ecco, e ciò garantisce comprensibilità alla sua musica e calore all’accoglienza del pubblico.
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La parte centrale del programma è occupata da un monumento della civiltà musicale occidentale: il Quinto Concerto per pianoforte di Beethoven, universalmente noto come Imperatore. A proporcelo è il pianista volante Roberto Cominati, che ormai da anni è diventato un abitué dell’Auditorium.

Lui non si vergogna ad inforcare gli occhiali per sbirciare ogni tanto lo spartito che tiene dentro la cassa del pianoforte, l’importante è che ci delizi con la sua tecnica e la sua sensibilità (da incorniciare l’Adagio un poco mosso). Sandelson da parte sua aizza l’orchestra per calcare al massimo i contrasti del dialogo con il solista e così ne esce un’esecuzione davvero da ricordare!

Poi, come bis, Cominati ci propone un breve lamento, quanto mai appropriato per i tempi grami che ci aspettano…
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Per farci dimenticare, almeno per mezz'ora, tutti i mali del mondo, è la Prima Sinfonia di Brahms a chiudere solennemente la serata. Sandelson qui stupisce davvero, per rigore, maturità e chiarezza di interpretazione (non risparmia nemmeno il da-capo nel movimento iniziale): pochi dubbi che ne sentiremo sempre più parlare in futuro. I ragazzi da parte loro hanno dato il massimo, per illustrare al meglio questa serata davvero particolare. 
   

10 giugno, 2021

Ancora nuova musica da laVerdi

Alpesh Chauhan sta ormai diventando ospite abituale dell’Auditorium: è infatti al suo terzo appuntamento in tre anni con laVerdi. Per l’occasione dirige un concerto ben assortito, con musica che va dall’oggi a ieri all’altroieri!    

Dopo quella recente di Colasanti, ecco una nuova primizia a testimonianza della vitalità dei nostri compositori: Hello, World, uscito dalla penna di quella vecchia voce di Radio3 che risponde al nome di Nicola Campogrande.  

L’aquilana Vittoriana De Amicis ha prestato la sua bella voce sopranile a questo ciclo di 4 Lieder che ci racconta qualche arcano dell’informatica: come far dire (o comparire sullo schermo) al computer il messaggio Hello, World impiegando quattro diversi linguaggi di programmazione!

1. Linguaggio B

main( ) {

extrn a, b, c;

putchar(a); putchar(b); putchar(c); putchar(’!*n’);

}

a ’hell’;

b ’o, w’;

c ’orld’;

2. Linguaggio Unix Shell

#!/bin/sh

echo “Hello world”

3. Linguaggio Delphi

program Project1;

uses

qdialogs;

const

s = ‘Hello World’;

begin

showmessage(s);

end

4. Linguaggio Malbolge

(=<`#9]~6ZY32Vx/4Rs+0No-&Jk)”Fh}|Bcy?`=*z]Kw%oG4UUS0/@-ejc(:’8dc

Va da sè che i simboli - che nei linguaggi di programmazione abbondano, rispetto alla normale lingua scritta - non siano musicabili, quindi (in italiano, visto che l’Autore è italiano) ne viene musicata la pronuncia, tipo chiuse le virgolette o anche chiocciola o parentesi aperta, cancelletto, e così via. Insomma, un moderno... divertimento. Tutto sommato gradevole, poichè Campogrande è un esponente di quella che chiamerei corrente nostalgica (in senso assolutamente buono!) della musica contemporanea. Tanto per dire, il primo brano attacca in RE maggiore à-la-Korngold e poi presenta un cantabile in LA (!) Proprio sull’ultima nota la De Amicis sfoggia un MIb sovracuto degno di...Violetta!

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Due fratelli tulipani, rispondenti ai nomi di Lucas e Arthur Jussen (di 28 e 25 anni rispettivamente) si cimentano poi con il Concerto per due pianoforti di Poulenc. Eccoli qui in una prestazione di pochi anni fa. Invece qui qualche mia nota in proposito, scritta più di 8 anni orsono in occasione di un’esecuzione in Auditorium di Lupo & Pedroni.

Brano di tutta gradevolezza, che i due giovani interpretano quasi (o senza quasi) divertendosi, e così raccolgono un meritato trionfo, che ci ripagano con un Mozart in salsa italo-svizzera... e poi con il sommo Bach.  

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Infine si retrocede in pieno ottocento con il 15enne Mendelssohn e la sua Prima Sinfonia in DO minore per orchestra a ranghi completi, sfornata precisamente fra il 3 e il 31 marzo del 1824 (prima ne aveva composte, in soli due anni e tanto per farsi le ossa... ben 12 per orchestra d’archi!)  

È un frutto ancora piuttosto acerbo e velleitario, se lo si confronta con capolavori quali l’Ottetto e l’Ouverture del Sogno che arriveranno nel giro di nemmeno 3 anni. Qui il ragazzo sembra ancora affetto da eccessiva carica Sturm-und-Drang, per dire: se si esclude l’Andante, un’oasi di pace e tranquillità, ricca di spunti degni di nota, la Sinfonia è tutto un succedersi di motivi dal piglio asfissiante e da dinamiche che raramente scendono sotto il forte, con rari momenti meditativi; insomma, una narrativa piuttosto... aggressiva, ecco. E non è escluso che l’Autore stesso fosse cosciente di ciò, se per le esecuzioni londinesi del 1829 rimpiazzò il concitato Menuetto con l’etereo Scherzo del suo recentissimo Ottetto! 

L’Allegro molto di apertura (4/4) presenta subito il primo tema nervoso in DO minore, che sfocia poi verso la relativa MIb maggiore, dove ospita dapprima un inciso di sapore beethoveniano (Imperatore) e un motivo di transizione verso il secondo tema. Che a prima vista sembrerebbe più cantabile, quindi efficacemente contrastante con il primo. Ma (purtroppo?) solo per poco, poichè anch’esso si fa ben presto contagiare dalla veemenza dell’altro. Dopo la canonica ri-esposizione, ecco lo sviluppo, dove Mendelssohn mostra una certa fantasia nell’intrecciare i motivi e nel divagare su tonalità, come il SIb maggiore e il RE, poi il FA minore. La ricapitolazione vede il secondo tema portato a LAb maggiore. Segue una lunga coda basata sul primo tema che transita temporaneamente a DO maggiore. Nella concitazione permanente viene inserita una breve oasi di calma, 8 battute dove due corni suonano un SIb in ottava, seguite da lamenti di legni e archi. Pian piano riprende il primo tema che va a chiudere pesantemente - ricordando il Mozart della K550 -  sul DO minore di impianto.

L’Andante (3/4, MIb maggiore) è come detto il movimento più ispirato dei quattro. È sostanzialmente bitematico, ma con i due temi che hanno grande affinità. Dopo che il primo ha aperto, scendendo nei violini dalla dominante SIb sulla tonica, il secondo subentra imprevedibilmente, nel flauto, in DOb maggiore, salendo dalla dominante SOLb alla mediante MIb per poi degradare lentamente verso SIb. Dopo breve transizione è su questa tonalità che l’oboe ripropone il primo tema, che viene ripetuto dai legni. Violini contrappuntati dall’oboe, poi raggiunto dal flauto, espongono per due volte un motivo che sale di una settima, da dominante a sottodominante, per poi ripiombare velocemente sulla mediante (RE).

Un ostinato sforzato degli archi modula provvisoriamente a FA# maggiore dove i violoncelli ripropongono il secondo tema, poi ripreso dai violini e dai flauti in SI maggiore. Una transizione ci riporta al Sib e da qui al MIb dove torna il primo tema nei violini, poi nell’oboe, con il flauto ad accompagnare con veloci volate in semicroma. Ancora nei violini contrappuntati da flauto e oboe riappare per due volte il motivo che scala una settima per calare sulla mediante. Una coda di 12 battute chiude mirabilmente questo piccolo gioiello.

Ecco ora il Menuetto, Allegro molto, 6/4, DO minore. Ha una struttura e il piglio di uno Scherzo indiavolato. Come di prammatica presenta due sezioni (da ripetersi) di cui la seconda è un’estensione della prima. Quest’ultima inizia con il tema energico esposto dai violini, tema che ben presto sfocia sulla relativa MIb maggiore. La seconda sezione, più vasta, ripresenta il trema con diverse modulazioni: dapprima a REb e poi a DO maggiore. Il ritorno a DO minore sopraggiunge per chiudere questo pseudo-minuetto.

Il Trio - due sezioni da ripetersi più una terza - scende plagalmente alla sottodominante LAb maggiore, con un specie di corale di clarinetti e fagotti, che i flauti chiudono tornando a MIb. La seconda sezione riprende il motivo in REb per poi chiudere sul LAb. La terza sezione inizia (fagotti e flauti) degradando dalla settima abbassata (SOLb) alla dominante MIb. Qui arriva una sommessa transizione, protagonisti archi e... timpani (secondo molti osservatori: Beethoven Quinta) che ci riporta a DO minore: sono gli archi ad introdurre - a mo’ di rincorsa - il ritmo che prepara il ritorno al Menuetto (senza ripetizioni).

Il conclusivo Allegro con fuoco (4/4, DO minore) prosegue e conclude quest’opera in modo davvero ossessionante, esasperando se possibile l’atmosfera mozartiana del finale della K550. È in forma-sonata, quindi l’esposizione presenta due temi contrapposti: il primo è composto da due frasi, una concisa, da ripetersi, che riprende veloci discese degli archi già comparse nell’Allegro iniziale (e richiamate anche nel Menuetto) e chiude sul SOL; l’altra caratterizzata da tre lamenti dei clarinetti e chiusa dagli archi sul DO. Dopo la reiterazione, questa seconda frase viene sviluppata assai, riproponendo le discese negli archi e virando appropriatamente verso la tonalità di MIb minore. Chiude una melodrammatica discesa di clarinetto e fagotto verso il MIb maggiore, dove si presenta il secondo tema.

Tema curiosamente abbordato dai soli archi con un lungo pizzicato di 28 battute, dalla 13ma delle quali si modula a SIb maggiore, dove il clarinetto espone il suo tema; che poi, sul terminare del pizzicato degli archi, modula al MIb maggiore. E qui abbiamo - in luogo di un canonico sviluppo - un lungo passaggio dal cipiglio marziale, pare una pesante cadenza di fine opera, preannuncia il finale del futuro celebre concerto per violino, chiude su 5 trilli del flauto ma... vira repentinamente e sommessamente a DO minore, dove gli subentra sorprendentemente una fuga in piena regola! Evidentemente Bach era già ben presente nel mondo estetico del ragazzo, che 5 anni più tardi a Berlino riesumerà in modo spettacolare la Matthäus-Passion.

La fuga (in due sezioni) esplora principalmente le tonalità di SOL minore e poi MIb maggiore, chiudendo sul DO minore e sulla seconda parte della prima frase del primo tema, per preparare la ricapitolazione. Il primo tema viene ripresentato senza le due ripetizioni (11 battute in meno) e con un piccolo ulteriore taglio di 6 battute. Questa volta non modula a MIb, ma chiude sulla settima di dominante di DO minore dove riudiamo in clarinetto e fagotto, più il flauto, la caduta dalla sottodominante FA alla tonica DO. Riudiamo le battute in pizzicato degli archi che introducono il secondo tema, esposto ora in DO minore dal flauto, partendo dalla dominante SOL. Dopo una rapida escursione a LAb maggiore si torna a DO minore, con il passaggio marziale che porta alla ricomparsa della fuga, sempre nella tonalità di impianto, ma qui accorciata alla sola prima sezione.

Subitaneamente si passa da DO minore a DO maggiore (Più stretto) per la perorazione finale, 30 battute assai retoriche, tutte in ff (ma solo perchè ancora fff e ffff non erano stati inventati...)  

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Maiuscola la prova dell’Orchestra, che Chauhan ha impegnato allo spasimo, tenendo tempi serratissimi, come da copione. In compenso, dall’Andante ha saputo cavar fuori tutto il lirismo e la poesia che lo caratterizzano.

Anche lui ormai è un beniamino del pubblico e dell’Orchestra, che gli ha riservato un applauso ritmato, cui il giovane maestro ha risposto con parole di ammirazione e ringraziamento.

16 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°3 (anteprima)


Il terzo appuntamento stagionale de laVerdi (in programma venerdi e domenica) ha avuto nel pomeriggio una speciale anteprima (una specie di seconda prova generale) nel bellissimo Auditorium della IULM, la giovane quanto già affermata Università milanese (operante anche a Roma) che ha la sua modernissima sede a 2-3 tiri di schioppo dall’Auditorium di Largo Mahler. E anche (soltanto un tiro in più...) dall’Università Luigi Bocconi, nella quale Facoltà di lingue straniere (inopinatamente chiusa nel 1968) operavano i due fondatori della IULM: Silvio Baridon e Carlo Bo, i quali risposero alla chiusura della Facoltà bocconiana con la creazione di un’Università specializzata in lingue moderne, poi allargatasi al più vasto mondo delle arti e della cultura.

E proprio in nome di questi nuovi orizzonti, e per festeggiare la conclusione di un importante progetto di ricerca sulla produzione artistica degli ultimi 50 anni, è nata la commissione che l’Università ha fatto a Nicola Campogrande (vecchia voce - e pure sexy - di Radio3) per la composizione di una nuova opera musicale, intitolata Le sette mogli di Barbablù. Il coinvolgimento de laVerdi è legato agli stretti rapporti culturali esistenti con l’Università e all’ormai consolidata consuetudine del compositore con l’Orchestra, che ebbe il suo culmine in occasione della stagione dell’EXPO, prima che Campogrande approdasse al prestigioso incarico di Direttore Musicale del MITO.

Adesso però arrivano le cattive notizie... Presumibilmente a causa di carenze nella pubblicizzazione dell’iniziativa, è accaduto che nella sala dell’Auditorium principale dello IULM-6 di via Carlo Bo (600+ posti) fossero sedute meno persone di quante gremivano il palchetto sul quale era sistemata l’Orchestra! Ahi ahi... spettacolo assai desolante, devo dire, soprattutto perchè nei paraggi era tutto un pullulare di giovani studenti che avevano appena terminato le attività della loro giornata in ateneo e ai quali avrebbe fatto un gran bene assistere all’evento. Così l’inossidabile Ottavia Piccolo (voce narrante nell’opera), il Direttore Principale Ospite Patrick Fournillier, tutti i ragazzi dell’Orchestra e naturalmente il compositore hanno potuto ricevere l’applauso di soli pochi intimi (sono certo che le cose andranno diversamente venerdi e domenica in Largo Mahler).
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Il soggetto è tratto da Les sept femmes de la Barbe-Bleue di Anatole France (1886), una simpatica, fantasiosa e (dall’apparenza) scientifica ricostruzione della leggenda del famoso personaggio creato attorno al 1660 da Charles Perrault, volta a smentire tutte le dicerie (incluse altre opere letterarie e teatrali) sorte su di lui come serial-killer di giovani mogli. Innanzitutto Barbablù viene identificato in tale Bernard de Montragoux, signorotto proprietario di un castello (les Guillettes) ubicato nella foresta fra Compiègne e Pierrefonds (un centinaio di Km a nord di Parigi).

In sostanza, il tanto vituperato Barbablù era - secondo France, e a dispetto della sua figura imponente e dello sguardo spiritato - una persona mite e sensibile, che non ebbe alcuna responsabilità per la scomparsa delle sei mogli ed anzi fu vittima della macchinazione della settima e della di lei famiglia, amante compreso. In questa fiction - un vero scoop ante-litteram, con tanto di citazioni di fonti, testimonianze e documenti - France ricostruisce le identità di tutte le mogli di Barbablù e le vicende che portarono alla morte (o alla scomparsa) delle prime sei e poi all’assassinio di Barbablù da parte della settima. Spiega anche ciò che si trovava nella famosa stanza proibita (la stanzetta delle principesse sfortunate) del castello delle Guillettes: affreschi e dipinti fiorentini raffiguranti appunto donne sfortunate della mitologia, vittime di vicende cruente, e il pavimento di porfido che dava all’ambiente un colore rossiccio, facendolo sembrare imbrattato di sangue. 
   
Prima moglie: Colette Passage, ammaestratrice di orsi, si stancò presto del ménage familiare e si dedicò sempre più spesso alla sua bestia preferita. Scomparve misteriosamente dopo aver visitato la stanza segreta, e non fu mai più ritrovata.

Seconda moglie: Jeanne de la Cloche, una donna alcolizzata che Barbablù cercò invano di riportare ad una vita più sobria. Un giorno, dopo aver accoltellato il marito credendolo intenzionato ad avvelenarla, lei entrò ubriaca nella stanza segreta, scambiò i dipinti per donne in carne e ossa, assassinate, fuggì invano rincorsa dal marito ferito che cercava di salvarla e si gettò in uno stagno, affogando.  

Terza moglie: Gigonne Traignel, figlia di un fattore di Barbablù, guardiana d’oche, sempre calzante zoccoli e puzzolente di cipolla. Diventata con il matrimonio donna ricca e nobile, le sue pretese di lusso divennero smodate, così come il desiderio insoddisfatto di essere ricevuta a Corte per diventare la favorita del Re. Delusa, si prese un’itterizia che la portò alla tomba. E Barbablù ne fece costruire per lei una davvero sontuosa.

Quarta moglie: Blanche de Gibeaumex, figlia di un militare ferito-di-guerra (ad un orecchio!) che convinse un riluttante Barbablù a sposarla. Poi lei si mise a tradirlo con diversi amanti, finchè un giorno un amante abbandonato non la trovò nella stanza segreta in intimità con un nuovo amante, e la infilzò con la sua spada. La scoperta del cadavere non fece che peggiorare la reputazione di quella stanza segreta.

Quinta moglie: furono i medici a consigliare a Barbablù, distrutto dal dolore e in preda a una grave crisi che l’aveva ridotto in pericolo di vita, un nuovo matrimonio. Angèle de la Garandine era una sua cugina nullatenente e così Barbablù era certo che gli sarebbe rimasta fedele e riconoscente. Lei era però talmente ingenua e credulona che un giorno - mentre Barbablù era a caccia di beccacce - si fece convincere da un frate questuante a salire sul suo asino per andare nel bosco dove l’attendeva l’Arcangelo Gabriele per farle indossare delle giarrettiere di perle... Forse se la mangiò un lupo (!) dato che non fu più ritrovata.

Sesta moglie: Alix de Pontalcin, una povera orfanella, spogliata di tutti i suoi averi da uno sbifido tutore, era sul punto di entrare in convento, ma fu convinta da amici a sposare Barbablù. Purtroppo però lei rifiutò pervicacemente di consumare il matrimonio, tanto che il marito chiese al Santo Padre l’annullamento del legame secondo il diritto canonico, ottenendo il divorzio anche grazie a sostanziose donazioni alla Chiesa. Barbablù giurò a se stesso che mai più una femmina avrebbe messo piede in casa sua!

E veniamo al clou della storia, la settima moglie: dopo alcuni anni, durante i quali erano cresciute in paese le più fantasiose ed anche orripilanti supposizioni sulla fine che avevano fatto le mogli di Barbablù, prese dimora nel maniero di Motte-Giron, a poca distanza dal castello del sei-volte-vedovo (o divorziato...) una certa signora Sidonie de Lespoisse, vedova con quattro figli, due femmine e due maschi. Il suo passato e l’identità del defunto marito restarono sempre un mistero: chi diceva che lui avesse trafficato in Spagna e Savoia, chi sosteneva fosse morto in India; alcuni giuravano che la vedova avesse immensi possedimenti, altri ne dubitavano assai.

Sta di fatto che lei faceva gran sfoggio di opulenza, invitando tutta la nobiltà del circondario alle feste nel suo maniero. La sua figlia maggiore, Anne, era diventata una donna assai abile (dopo aver pettinato Santa Caterina!); quella minore, Jeanne, era in età da marito, ma nascondeva dietro un’apparente ingenuità una precoce esperienza del mondo. I due maschi erano militari: Cosme, arruolato nei Dragoni, era un poco di buono, gran briccone e abile cornificatore. Il fratello Pierre, Moschettiere, al confronto era una brava persona, anche se era a sua volta un donnaiolo e si manteneva con le vincite al gioco delle carte. La signora Lespoisse era in realtà povera in canna e tutto ciò che possedeva erano prestiti ricevuti da usurai parigini, che pretendevano che lei sposasse una delle sue figlie a qualche facoltoso signorotto, minacciando in caso contrario di toglierle tutto: ormai si vedeva nuda in una casa vuota...

Fu allora che mise gli occhi su Barbablù e gli fece visita con la prole in pompa magna e per ben 15 giorni, insieme ad un certo cavaliere de la Merlus, che organizzava battute di caccia e scherzi notturni, vinceva regolarmente al gioco e soprattutto non toglieva mai gli occhi dalla bella Jeanne (senza che Barbablù sospettasse di nulla... lui si era bevuto che i due fossero fratelli di latte) con la quale si appartava nottetempo, finite le feste e i giochi.

Finalmente Barbablù si decise e chiese la mano proprio della più giovane delle due sorelle. Il matrimonio fu celebrato con gran sfarzo a Motte-Giron, anche se gran parte delle preziose suppellettili e dei lussuosi abiti della padrona di casa e dei suoi congiunti erano stati affittati da ebrei parigini, che se li riportarono via subito dopo il termine della cerimonia.

Fu così che, sotto la sapiente regìa della madre - la più gran filibustiera di Francia - l’intera famiglia di Jeanne si installò presso Barbablù, incluso l’intraprendente de la Merlus, che non si staccava un attimo dalla sposa. Un bel giorno Barbablù dovette fare un viaggio di sei settimane per gestire l’eredità di un cugino, morto in battaglia come un eroe, ehm... colpito da una palla vagante di colubrina mentre giocava a dadi su un tamburo! Prima di partire invitò la moglie a trascorrere i giorni in sua assenza invitando amici e avendo un buon tempo; le diede anche tutte le chiavi del castello (appartamenti, dispense, casseforti) compresa quella della stanza segreta.

Ma mentre Perrault narra che le proibì severamente di accedere a quel luogo, in realtà Barbablù si limitò a metterla in guardia dal visitarlo, a causa della sua cattiva fama (dalla quale le precedenti mogli avevano tratto parecchio nocumento). Invece la disinvolta Jeanne non esitava ad abbandonare la compagnia degli amici che le rendevano visita per correre proprio nella stanza segreta. Ma non - come scrive sempre Perrault - per morbosa curiosità, bensì per... interesse sessuale: laggiù l’attendeva regolarmente il brillante (e ben dotato, evidentemente) de la Merlus! 

Ma se si fosse trattato solo di corna, la cosa avrebbe fatto in fin dei conti poco scandalo: anche il più severo dei moralisti avrebbe trovato qualche vaga ragione per giustificare quei comportamenti, abbastanza usuali. No no, la cosa grave è che Jeanne progettò a mente fredda l’assassinio del marito! In combutta con la sorella Marie (artefice del complotto); con i fratelli (dietro la promessa di una brillante carriera miliare); con la madre e - ça va sans dire - con il suo amante de la Merlus.

Barbablù ritornò a casa un po’ prima del previsto, ma non per cogliere la moglie in flagrante, bensì convinto di farle una bella sorpresa. Lei gli restituì le chiavi, ma Barbablù si accorse che quella della stanza segreta doveva essere stata usata: così si disse dispiaciuto, augurandosi che quella visita non dovesse portare qualche disgrazia a tutti. In quel momento Jeanne gridò che la stavano ammazzando, richiamando l’amante e i fratelli. De la Merlus balzò fuori da un armadio ma, da solo, fu presto immobilizzato dal corpulento Barbablù. Allora Anne, accorsa sul posto, chiamò finalmente i fratelli che fecero irruzione nella stanza e trafissero alle spalle il padrone di casa.

Jeanne rimase unica ereditiera di tutte le sostanze del marito: diede una dote alla sorella, acquistò i gradi di capitano per i fratelli e sposò felicemente de la Merlus, che divenne istantaneamente un uomo di specchiata onestà!
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Il melologo di Campogrande (tre quarti d’ora o poco più) prevede una voce narrante, la splendida 70enne (più una settimana!) Ottavia Piccolo, che espone il racconto, una libera riduzione del testo di Anatole France tradotto da Paola Verdecchia, mentre l’Orchestra ne sottolinea i passi salienti, un po’ come accade alle musiche di scena di buona memoria. Sono in tutto 20 numeri musicali con agogica prevalentemente di Andante e Largo (una sola punta di Allegro) che normalmente si intercalano con le parti del racconto, raramente sovrapponendosi alla voce.

Campogrande non ha mancato, introducendo la recita, di lanciare pesanti frecciate ai movimenti che caratterizzarono la musica del ‘900 come fenomeno di totale rottura con ogni tradizione (la musica andò da una parte, il pubblico dall’altra...) e ha rivendicato il ritorno a quella tradizione, di cui lui è interprete convinto. La sua è musica assolutamente diatonica, apparentabile a quella delle grandi colonne sonore dei film (l’attacco pare proprio Korngold!) Devo dire che i vari brani evocano con una certa efficacia le diverse atmosfere e anche le diverse personalità che si incontrano nel soggetto di France: sono di ascolto piacevole e tutto il melologo scorre via con buon ritmo e senza cadute di tensione, godibile e scevro da astruse cerebralità. Il che non è poco; e avrebbe meritato più... audience!

12 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°63


Il concerto di questa settimana è davvero particolare, per contenuti e… brevità quasi aforistica. Sul podio John Neschling, la cui sospetta combinazione nome-cognome ne tradisce la nazionalità: brasiliana. Pubblico limitato agli irriducibili intimi: fra le numerose assenze, notata quella di Nicola Campogrande, che ormai da mesi saliva regolarmente sul podio per ricevere gli applausi di prammatica per i suoi divertimenti targati EXPO.  

Abbiamo quindi tre poemi sinfonici (o affini): due di Respighi ad incastonarne uno di Sibelius. Questo però secondo la locandina ufficiale, chè la voce di Ruben Jais ci ha avvertito che la sequenza di esecuzione avrebbe più strettamente rispecchiato la cronologia di composizione: che va dalla fine ‘800 (per il finlandese) al 1930, passando per il 1920 (per l’italiano).

Si apre quindi con Il Cigno di Tuonela, la cui prima stesura, seguita da qualche aggiustamento, causa cambi di destinazione del brano, risale al 1893. È il secondo (o terzo, a seconda della collocazione) dei quattro numeri della suite titolata Lemminkäinen, dal nome di un personaggio della principale mitologia finnica, la Kalevala (alter-ego delle Edda norrene).  

Il cignone nero protagonista del brano è quello che maestosamente circumnaviga l’isola di morti di Tuonela, e che il prode quanto incallito sciupafemmine Lemminkäinen dovrebbe far secco per ottenere la mano di una principessa. Invece è lui che fa la fine del cigno del Parsifal, trafitto con una freccia avvelenata da un pastore cieco che poi lo riduce pure a spezzatino. Però sua madre recupera i pezzettini galleggianti sull’acqua (prima che il cigno se li ingoi) e li re-incolla con l’attak, rimettendolo in sesto meglio di prima (!? evabbè… i miti.)

Sono meno di 10 minuti di musica proprio… nordica, in cui ha una parte di spicco il corno inglese, che Paola Scotti mostra di saper suonare divinamente. A lei vanno i meritati applausi di pubblico e colleghi.
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Ecco poi Ballata delle gnomidi (1920). Il testo letterario che Respighi musicò è un poemetto di 13 strofe in settenari a rima incrociata, vergato dall’avvocato-musicomane partenopeo Carlo Clausetti, un dirigente della Ricordi. Il soggetto è assai curioso e un tantino macabro, con risvolti hardcore. Siamo in una comunità di gnomi, dove si svolge una specie di rituale sadico-erotico: due gnocche gnome scelgono un maschietto sfigato e lo trascinano in camera da letto per un triangolo erotico, culminante nello schiattamento del malcapitato. Il mattino successivo lo portano in corteo funebre, con seguito di gnomi smoccolanti, fino ad una roccia a strapiombo sul mare turchino, nel quale lo scaraventano senza tanti complimenti. Poi si danno, insieme agli gnometti superstiti, ad una danza sfrenata (Salome docet).

Mah, forse Respighi doveva pagare un debito all’editore, o magari dovette sottostare ad una qualche forma di ricatto da parte del Clausetti, chissà: non altrimenti si spiega un’iniziativa così bizzarra. Che però fa il paio con il bartokiano Mandarino, composto 7 anni più tardi.

Che la musica evochi puntualmente le improbabili vicende uscite dalla fervida fantasia di Clausetti sarebbe tutto da dimostrare: certo ci troviamo una prima sezione rapida (saranno gli gnomi che si agitano quando le due ninfomani sequestrano la vittima?); poi una sezione più lenta che con poca fantasia possiamo immaginare riguardi ciò che accade nell’alcova, dai preliminari di petting alle… ehm, effusioni orgasmiche; un improvviso Allegro con intervento di ottavini, flauti e violini, seguito da un crescendo concluso da alcuni schianti dell’orchestra potrebbe ricordarci il grido selvaggio dello gnomo che tira le cuoia. Ad esso segue l’unica sezione esplicitamente sottotitolata in partitura (la marcia funebre) che potrebbe benissimo evocare un’avanzata di panzer (o, trattandosi di Respighi, di legioni romane sulla via Appia?); quindi un tonfo che magari accompagna il corpo dello gnomo scaraventato in mare, con gli immancabili colpi di timpano a dargli il… colpo di grazia. Infine la danza delle gnome-sado-ninfomani seguita dal sabba selvaggio che chiude la storiella. Possiamo anche riconoscere alcuni temi che tornano a mo’ di Leit-motive, ad evocare i diversi personaggi.

Ma in sostanza non sorprende che il brano – a dispetto del magistero di Respighi in fatto di strumentazione - sia caduto presto nel dimenticatoio, nel quale per quanto mi riguarda (lo considero più fumo che arrosto) potrebbe tornare rapidamente, eccola. Ai ragazzi va l'encomio per l'abnegazione dimostrata.
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Chiude la serata Metamorphoseon (1930) una composizione di circostanza, commissionata dalla Boston Symphony di Koussevitsky per celebrare i 50 anni dalla sua fondazione. Come il successivo bartokiano Concerto per Orchestra, composto 14 anni dopo per la stessa Boston Symphony, è il pretesto per far risaltare le qualità solistiche delle sue prime parti. Il che di conseguenza si ripercuote sugli interpreti ad ogni nuova esecuzione: così anche qui sono i bravissimi ragazzi de laVERDI a mettersi in gran mostra. 

Il titolo tradisce vagamente la struttura dell’opera, che è un tema con (12) variazioni, che Respighi chiama modi, con un’abile ambiguità terminologica, che serve anche a indicare il ricorso a modi musicali antichi (sappiamo della predilezione dell’Autore per il canto gregoriano). Anche questo brano pare più ricco di affettazione e pedanteria scolastica che di genuina ispirazione: insomma, lascia un retrogusto come di vino… maderizzato, cioè invecchiato male.

Però la prestazione dell’Orchestra e dei singoli, chiamati a virtuosismi acrobatici, è come benzina sul fuoco dell’entusiasmo tanto da far sembrare la sala come stracolma di pubblico osannante.

05 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°62


Programma russo questa settimana (più Campogrande, in Thailandia). A dirigerlo non è, come da remoto annuncio, Wayne Marshall, ma Stanislav Kochanovsky, che pare diventato il tappabuchi-principe (devo dire che se la cava sempre assai bene) de laVERDI.

Il primo brano vede protagonista Nicola Benedetti: chi mai direbbe trattarsi di un’avvenente ragazza 28enne? No, tranquilli, non è un maschietto che ha cambiato sesso: il nome – per noi italiani impensabile per una femmina – si spiega col semplice fatto che lei non è italiana, ma scozzese (sia pure di padre toscano). Lassù Nicola è femmina, il maschio è Nicholas, e allo stesso modo Andrea è nome femminile, essendo Andrew il maschile.

Chiarito il piacevole equivoco, parliamo del Concerto per violino di quel simpatico alcolizzato che rispondeva al nome di Aleksandr Konstantinovich Glazunov. Concerto composto nel 1904 ed eseguito nel 1905 a SanPietroburgo, proprio a ruota di quello del suo dirimpettaio di Helsinki, Jean Sibelius, giusto per inquadrarlo storicamente e pure geograficamente. Ma mentre il finlandese (che pure non lesinava corpose libagioni di… spirito) si era attenuto alla struttura più tradizionale, limitandosi a qualche bizzarra trovata in fatto di acrobazie tonali, il russo costruì il suo concerto con un’ardita operazione di incastro. Nel bel mezzo del primo movimento, dopo la canonica esposizione dei due temi, invece di far seguire lo sviluppo e il resto, cosa ci combina? Infila una sezione tematicamente del tutto nuova, quasi fosse un secondo tempo, conclusa la quale riprende lo sviluppo dei primi due temi, poi li ricapitola, ci aggiunge una cadenza e da qui attacca il rondo conclusivo!

Beh, c’è da riconoscere che i fumi dell’alcol a volte danno frutti strani, ma interessanti. Seguiamone una storica esecuzione di David Oistrakh.
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Su terzine ribattute di clarinetti e fagotti (triade di LA minore) il solista apre subito esponendo il primo tema, Moderato, 4/4:


È una lunga e languida melodia con inflessioni orientaleggianti, che a 53” (animato) assume un carattere momentaneamente più brioso (tutto in terzine) per poi sfociare (1’11”) in un ponte a mo’ di cadenza, dove le folate ascendenti del violino si alternano ad interventi più pesanti dei legni e in cui (1’45”) pare di riconoscere Ciajkovski nell’introduzione del suo concerto per violino. È in effetti l’introduzione al secondo tema (2’04”) tranquillo, in FA maggiore (relativa della sottodominante minore della tonalità d’impianto):


Il tema si sviluppa con inflessioni in minore (2’36”) poi torna al maggiore e viene seguito (3’12”) da una coda che si anima con un serrato dialogo fra il solista e l’orchestra, culminante (3’44”) in un secco accordo di FA maggiore, dove possiamo collocare la chiusura dell’esposizione. Ora inizia un progressivo calando, che porta (4’18”) ad un ponte (tranquillo) di 6 battute, che parrebbe proprio essere la preparazione ad una sezione di sviluppo. Ma qualcosa ci dice che non sarà così: la tonalità infatti è passata chissà come a REb maggiore!

(video2)

Ed infatti, sorpresa-sorpresa, ecco apparire un nuovo tema, anzi un’intera sezione in Andante, col tempo che muta a 3/4, quasi fosse un secondo movimento del concerto:

 
Tema invero dolce e sognante, ancora à-la-Ciajkovski, sviluppato anche in corda doppia, che (1’33”) vira, attraverso un’enarmonia LAb-SOL#, al LA maggiore, da cui modula ulteriormente, con il solista impegnato in grandi virtuosismi (da 1’49”) sullo sfondo di ampie folate dell’arpa. Si torna a REb maggiore (2’20”) dove il solista riprende la melodia portandola alla sua conclusione, con un pizzicato sulla dominante LAb.  

Qui ecco la seconda sorpresa, con il ritorno (Tempo I, 4/4) alla fine dell’esposizione dei due primi temi, che ora – 3’53”, la tonalità vira nuovamente a LA - vengono sottoposti a sviluppo, dalla sola orchestra. Così si ascolta il primo tema (fagotto e viole) e subito dopo (4’13”) il secondo, tuttora in FA (in flauto e oboe).

A 4’53” irrompe gagliardamente (più animato) il solista, che si imbarca in una specie di spiritato scherzo, culminante (5’18”, pesante) in quella che possiamo considerare la ricapitolazione: preceduta da un paio di batti-e-ribatti fra intera orchestra e solista in corda doppia sul primo tema (un tono sopra) e con il solista che poi (5’32”) lo ripresenta in LA, ma assai variato ed impreziosito di virtuosismi; poi (6’59”) ecco tornare il secondo, questa volta canonicamente in DO maggiore.

Si arriva ora, sempre come prescrivono le regole non scritte del concerto solistico, alla cadenza, introdotta (8’08”) da due accordi a piena orchestra. La prima parte (dove riconosciamo il secondo tema, poi il primo) viene chiusa a 9’20” da sette accordi in pizzicato.

(video3)

La seconda parte della cadenza (più sostenuto) ripropone il primo tema virtuosisticamente esposto in corda doppia dalla voce superiore, mentre quella inferiore crea un tappeto di velocissime biscrome. A 1’18” la cadenza si conclude con il rientro molto discreto dell’orchestra (archi bassi e corni, poi timpani) e il solista che attacca in DO maggiore con altre biscrome.

La tonalità poi modula fino a sboccare, sul MI sovracuto del violino, al LA maggiore con cui una smaccata fanfara di trombe (1’42”) irrompe come il proverbiale elefante in cristalleria, attaccando l’Allegro conclusivo (un Rondo sui generis, in 6/8) con l’esposizione del ritornello A, subito ripreso dal solista in corda doppia:

Ancora l’orchestra con il controsoggetto del tema, imitata subito dal violino, che poi riesegue soggetto e controsoggetto un’ottava sopra e con piglio squisitamente virtuosistico. A 2’26” è la sola orchestra a riproporre due volte il tema del ritornello.

Ecco poi il primo episodio (B): un bel tema cantabile che il solista espone (2’38”) sulla dominante di MI maggiore:
 
Torna a 3’34” il ritornello A in LA maggiore nella sola orchestra (due ripetizioni senza controsoggetto). A 3’45” abbiamo l’episodio C nel violino, tonalità RE maggiore:

 
È una saltellante melodia di sapore vagamente contadino, interrotta a 4’09” dall’orchestra che ne ripropone una variante, seguita (4’20”) dal ritorno del violino. A 4’30” ecco un cullante motivo di semiminime puntate nel solista, appoggiato da accordi dell’arpa e sul quale si innestano pregevoli interventi di corno e legni, finchè si giunge (4’49”) alla ripresa del ritornello A, ma assai variato e in DO maggiore, nel solista. Lo riprende l’orchestra, poi ancora il violino, ma modulando bruscamente (5’06”) a LA maggiore, quindi ancora a RE maggiore, poi a SI maggiore, fino a tornare al LA, dove (5’22”, più animato) il solista con una serie di quintine prepara il ritorno del ritornello A (5’30”) che viene eseguito poi nella sua interezza dall'ottavino e dai campanelli, col solista che batte il ritmo in pizzicato (quasi guitarra, sic):



Il tutto fa quasi l’effetto dell’incantesimo del fuoco 

A 5’52” riecco il tema A nel violino, sempre in LA, che inizia calmo (tempo mutato in 3/4) per poi presentare una continua accelerazione. A 6’26” si torna a LA maggiore per il gran finale (tempo 6/8): tre scambi di… cortesie fra orchestra e solista, poi (6’40”, sempre animando) il tempo passa a 2/4 (per tutti tranne che per il solista, che continua con le sue terzine in 6/8) e si accelera continuamente fino alla cadenza conclusiva (7’02”) dove anche il solista si allinea al tempo di 2/4 per gli ultimi battibecchi con l’orchestra che concludono il concerto, con il penultimo accordo del solista che impegna tutte le 4 corde del violino (dal basso: LA-MI-DO#-LA).
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La bella McBenedetti – presentatasi in un elegantissimo lungo nero, con ampia vista sul… ehm, lato-b (zona superiore, cosa credete!) – sciorina tutta la sua gran tecnica. Se posso farle un appunto, ma qui è questione di gusti, mi è parsa eccessivamente metronomica, ad esempio nel finale, dove un maggiore stacco dei tempi nei due episodi centrali non avrebbe guastato.

Per lei comunque un gran successo, che ci ricambia con uno dei bis più inflazionati: la sarabanda dalla seconda partita di Bach, che lei esegue con grande ispirazione.
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C’è forse un legame sotterraneo fra Glazunov e la Seconda sinfonia di Rachmaninov: la quale sarebbe probabilmente tutta diversa, se non fosse accaduto che la Prima (assai più innovativa, devo dire) venisse pesantemente contestata al suo esordio (César Cui arrivò a sentenziare che avrebbe potuto trovare gradimento soltanto all’inferno…) riducendo il Rach in uno stato di tale prostrazione da fargli rischiare la salute. E che c’entra con tutto ciò Glazunov? C’entra perché fu lui, salito sul podio verosimilmente inzuppato di vodka, a far fallire miseramente quella prova del giovane e promettente Sergei!

Il quale, ricominciando a vivere e comporre dopo anni di robuste cure di natura psicanalitica, decise verosimilmente di percorrere – sul piano artistico – strade più sicure e meno perigliose di quella imboccata in precedenza. Così la Seconda resta abbondantemente anacronistica, rispetto agli sviluppi coevi (si pensi a Mahler…) Personalmente su di essa mi sono espresso piuttosto negativamente – per usare una formula farmacologica: mi pare contenga 5 minuti di principio attivo e 45 di eccipiente - in occasione di una performance di Pappano alla Scala; il quale Pappano (avrà ragione lui!) si dice invece innamorato di quest’opera (e lo si vede bene qui).
  
Quando ascolto musica di questo genere mi verrebbe voglia di non applaudire (pensando che mi veda l’autore); ma dato che chi mi vede sono i ragazzi, che devono comunque fare una fatica d’inferno (il direttore un po’ meno…) ecco che – loro, non l’autore – meritano un encomio solenne. Però una sinfonia come questa, fossi Jais, la programmerei una volta ogni 20 anni, ecco.