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10 dicembre, 2023

Un DonCarlo d’antan

Oggi pomeriggio un'affollatissima Scala ha ospitato la prima (per gli abbonati) di un vecchio DonCarlo (non scaligero): quello del venerato HvK degli anni’80 (!)

Per carità, questo potrebbe anche essere un complimento (quindi riprendere Abbado-Ponnelle del 1968 sarebbe stato altrettanto plausibile): sempre meglio di qualche ardita attualizzazione che trasponga Filippo II in Juan Carlos I, Don Carlo in Felipe VI, Rodrigo in Carles Puidgemont e l’Inquisitore in Santiago Abascal!

Insomma: siamo proprio nella Spagna del 1560, come ci ricordano anche gli appropriati costumi della Squarciapino, e quindi niente armi automatiche, smartphone e lunghi cappottoni in pelle made-in-DDRE del resto, un testo dove un ragazzo ingenuo di 15 anni chiama madre una sbarbata di soli tre mesi più matura (!) che a sua volta lo chiama figlio, st-riderebbe assai con ambientazioni anche di un solo secolo posteriori…

Quanto al lato cosiddetto attoriale dell’interpretazione, trattandosi di attori che conoscono la loro parte come le loro tasche, mi pare che il regista abbia pensato bene (o male, visti i risultati?) di fidarsi di loro, piuttosto che imporgli posture, atteggiamenti e moine assortite, magari non condivise.

Quindi mi sento di dire: accontentiamoci di questo prudente (pavido?) e conservativo allestimento. 
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Questa musica, in fin dei conti, si fruisce con mente e cuore (e udito, va da sé) più che con la vista. Ebbene, ciò che le mie orecchie hanno udito oggi mi porta a dare un generale voto di ampia sufficienza (ben lontana da un 30cumLaude) che ora cercherò di declinare in maggior dettaglio. Adottando un approccio top-down (dal generale al particolare): quindi partendo dalla concertazione e dal suo responsabile per poi scendere agli interpreti.

Chailly ha – per me – tenuto un approccio (quello che Verdi chiamava la tinta dell’opera) assai cupo e tempi (eccessivamente?) sostenuti. Una direzione che alla prima non era stata unanimemente condivisa, mentre oggi devo dire che ha ricevuto solo consensi. Ma che è del tutto coerente con l’approccio registico, che nulla ha concesso all’esteriorità, come testimonia la soppressione (imposta - sono parole dello stesso Chailly - da Pasqual) dei ballabili de La Pérégrina. Insomma, qui sul francese esprit de finesse ha prevalso l’ispano-italico (e un po’ teutonico) esprit de géometrie!

Il coro di Alberto Malazzi non si smentisce mai e anche oggi ha saputo esprimere al massimo tutte le sue potenzialità, sia nei passaggi più cupi (il mortorio iniziale) che in quelli più sfacciatamente estroversi (Atocha) o drammatici (il popolo del terzo e quarto atto).

La coppia di bassi. Un Pertusi gigantesco (la tachipirina evidentemente ha fatto miracoli…) ha messo in ombra (purtroppo per lui) il malcapitato Jongmin Park, subentrato in extremis all’indisposto Anger a sostenere, oltre che quella iniziale del Frate, anche la parte impervia dell’Inquisitore. Il basso coreano ha messo in mostra un gran vocione, ma il suo Inquisitore ha fatto paura come la farebbe un orco affamato, non un Cardinale del Sant’Uffizio!  

La coppia degli sfortunati amanti. Netrebko sontuosa, come sempre, nella voce, un po’ meno nella recitazione (ma non è colpa dei registi, è una sua perdonabile attitudine). Forse fin troppo musicalmente cattiva con la rivale, quasi una Eboli-2-la-vendetta! Ma dopo le Vanità gli applausi son durati un paio di minuti… Meli tutto l’opposto: fin troppo lezioso e remissivo, nemmeno ad Atocha ha tirato fuori le p… (dicasi gli acuti, che il passare degli anni gli divengono sempre più vietati).

La coppia di outsider. Garanča superlativa (per me, nel complesso, la migliore). E non solo per le due perle (Velo e Don) ma sempre, in particolare nel duetto con Meli. Bene Salsi, ma forse non perfettamente a suo agio in una parte più romantica che truce (dove va a nozze...)

Su livelli standard tutti/e gli/le altri/e.

In definitiva, un’inaugurazione assolutamente dignitosa, ma non certo indimenticabile, della quale si continuerà a parlare più che altro per via della provvidenziale presenza (il 7 dicembre) del protagonista fuori-scena: il convitato di pietra Marco Vizzardelli! 

Applausi a scena aperta dopo le arie principali; alla fine applausi e ovazioni per tutti (compreso Pasqual, intrufolatosi furbescamente in mezzo agli altri, così in pochi l’avranno riconosciuto…) con qualche schiamazzo dai loggioni che ha lasciato del tutto indifferente la Digos (!) 

08 dicembre, 2023

Don Carlo in TV


E così è passato pure questo SantAmbrogio. Direi senza infamia (LaRussa e Salvini a parte) e senza lode (regia) e con qualche lode (Garanča).

 

Al loggionista di Viva l’Italia antifascista suggerirei: Ti guarda dal Grande Inquisitor!


09 febbraio, 2017

Alla Scala ultime recite dell’ibrido Don


Ieri sera al Piermarini una delle ultime recite del nuovo (si fa per dire, essendo un altro auto-imprestito di Pereira da Salzburg) Don Carlo. Si tratta dell’ibrido 5-atti-in-italiano cui Verdi mai diede il suo imprimatur, ma che dalla comparsa originaria (1886, Modena) ha cominciato ad apparire saltuariamente sui vari cartelloni e con ulteriori varianti. Qui in Scala risale al 1977-78 l’ultima produzione di tale ibrido (diretta da Abbado) che però innestò sulla già di per se apocrifa versione-Modena (i quattro atti della versione ufficiale italiana, Scala 1884, a cui fu anteposto l’atto di Fontainebleau della prima parigina) anche parti che Verdi aveva tagliato già prima-della-prima (il preludio e coro dei boscaioli a Fontainebleau e il cordoglio di Filippo per Posa, divenuto in seguito il Lacrymosa del Requiem) e parti della versione francese che Verdi aveva deciso di omettere al momento di approntare quella ufficiale italiana (il Coro e il travestimento Elisabetta-Eboli che aprono il terzo atto – ma non, attenzione, la Peregrina! - il duetto Filippo-Carlo prima del Lacrymosa e il finale dell’opera con il coro dei Frati). Tutte le parti che non erano mai tradotte prima in italiano, lo sono state successivamente ad opera di Piero Faggioni. 

Di queste innovazioni qui Chung ha mantenuto soltanto l’inizio dell’opera e la scena iniziale del terz’atto (travestimento). Sull’opportunità di questi recuperi si discute da sempre, ma a registi e direttori non par vero di poter farsi belli inventando nuove combinazioni fra tutti i pezzi di questo meccano in cui le due versioni autenticate da Verdi (la prima di Parigi del 1867, in francese, e quella in italiano del 1884) sono state smembrate. Così, tanto per dire, nel 2008 il rigoroso Gatti si permise di resuscitare, nel Don in 4 atti, il Lacrymosa, che Verdi aveva ormai da tempo inserito nel Requiem...

Detto questo, aggiungo che trattasi di uno spettacolo complessivamente discreto, cui il pubblico (deprimente lo spettacolo di serie di palchi deserti...) ha tributato un’accoglienza calorosa, ma non entusiasta.

Sul piano musicale, Chung ha confermato la sua grande sensibilità, peccando però di eccessivo bandismo in alcuni momenti, col risultato di coprire irrimediabilmente le voci. Fra le quali voci spicca l’eterno, inossidabile Furlanetto, di gran lunga il più convincente. Benino anche l’Inquisitore di Kares, voce profonda senza essere sgradevolmente cavernosa, così come l’accademico Summer (Frate). Sui suoi standard, ma un poco appannato il Carlo di Meli, la cui voce mi è parsa meno squillante del solito. Una (mezza) delusione il Posa di Piazzola: il baritono veronese ha bella voce e bene impostata, ma ahilui non riesce a farla giungere appropriatamente in sala: così, salvo quando non si esibisca in perfetta solitudine e nel silenzio generale (vedi A me il ferro...) lui resta sepolto dalle altre voci (vedi terzetti e quartetti) e/o dal fracasso orchestrale. Convincente la Stoyanova, voce robusta nei centri e gravi, quasi da drammatico, e sufficientemente limpida negli acuti. Un filino sotto la Eboli di Semenchuk, un poco sfibrata negli acuti, comunque dignitosa in una parte impervia. A tutti gli altri una sufficienza... di gruppo. Benissimo come (quasi) sempre il coro di Casoni.

Regia minimalista (nelle scene, spoglie o... dozzinali) quella di Stein, che gioca con gli occhi di bue per illuminare i personaggi in una generale penombra (Atocha esclusa). Curato il lavoro sugli interpreti, che reagiscono bene (Furlanetto, che non ha bisogno di lezioni...) o benino (le due donne) o così-così (i due giovani). Costumi più o meno appropriati (compresi i pinocchi dell’autodafè, dove peraltro si raccontavano solo bugie...)

In definitiva, una proposta dignitosa e non di più.

17 gennaio, 2017

Alla Scala torna il Don di Verdi (e di Abbado?)

  

Da questa sera torna alla Scala Don Carlo(s). Con la s o senza? Essendo in lingua italiana, senza. Però tradizionalmente Don Carlo fa pensare alla versione in 4 atti, quella stesa con grande cura da Verdi proprio per la Scala in vista delle recite del 1884 ed entrata, insieme all’originale parigino in 5 atti del 1867, nei repertori dei principali teatri.

Invece la versione presentata qui è sì in italiano, ma in 5 atti... ed è quindi diversa sia dall’originale parigino del 1867 che da quello scaligero del 1884, gli unici considerabili come authoritative. Perchè invece, se si censiscono tutte le diverse versioni dell’opera provate o messe in scena Verdi vivente, si arriva addirittura a sette, precisamente:

1. Partitura completata da Verdi nel 1866 in vista della prima parigina. Impiegata nelle prove, ma mai messa in scena.

2. Versione eseguita alla generale del 24/2/1867, che differisce dall’originale per cinque tagli, evidentemente apportati da Verdi dopo le prove. Qui però Verdi aggiunse il balletto del terz’atto La Peregrina (ancora assente nella partitura originale).

3. Prima esecuzione a Parigi (11 marzo, 1867). Vi sono apportati ulteriori tre tagli, fra i quali la soppressione della scena iniziale dei boscaioli e il relativo Preludio.

4. Seconda esecuzione a Parigi (13 marzo): vi viene soppresso (in futuro, nel Requiem, diventerà il Lacrymosa) cordoglio di Filippo. Questa versione, tradotta in italiano, venne poi esportata a Londra, Bologna e Milano.

5. Versione di Napoli del 1872: è sempre la versione della prima parigina, tradotta in italiano, con però due varianti: modifica al duetto Filippo-Rodrigo del second’atto e taglio al duetto Carlo-Elisabetta dell’atto finale.

6. Versione di Milano del 1884. Talmente curata da Verdi che la definì come quella di riferimento. Vi troviamo la soppressione dell’intero primo atto e interventi su quasi tutto il corpo dell’opera. Il libretto fu predisposto (a partire dalla versione 4 di Parigi) in francese da duLocle e poi tradotto in italiano da deLauzières-Zanardini. Le principali varianti sono: Prima scena (Carlo, “Io l’ho perduta” con recupero di parti dell’atto soppresso); rimaneggiamento della scena Filippo-Rodrigo (atto II); soppressione dell’inizio atto III (Coro, travestimento Elisabetta-Eboli e Peregrina) sostituiti da un Preludio; finale rimaneggiato, senza il coro dei Frati.
    
7. Versione di Modena del 1886. Ripristina il primo atto, come nella versione 3 di Parigi cui fa seguire i quattro atti della versione scaligera (6).

Bene, ciò che (probabilmente) si ascolterà da stasera e nei prossimi giorni è qualcosa di diverso ancora dalle sette versioni citate. In omaggio alla tendenza al nuovo, che però nuovo non è, visto che già nel 1977-78 Claudio Abbado (qui con un signor secondo cast, per la teletrasmissione RAI) presentò una versione vicina a quella di Modena (7) ma con la riapertura di alcuni tagli fatti da Verdi rispetto alla partitura originale (la scena iniziale, Preludio incluso, dei boscaioli e il Lacrymosa) e l’impiego di parti della versione francese (il Coro e il travestimento Elisabetta-Eboli che aprono il terzo atto, il duetto Filippo-Carlo prima del Lacrymosa e il finale dell’opera con il coro dei Frati). Invece: per non far notte e risparmiare sui costi delle coreografie... niente Peregrina.

Ecco, Chung ci dovrebbe (meglio usare il condizionale) presentare qualcosa di simile, essendo la produzione quella di Salzburg di qualche anno fa, che seguiva la falsariga di Abbado-77. In fatto di applicazione della tecnica del meccano, non sarà mai peggio della penultima (ormai) comparsa del Carlo al Piermarini (Gatti, 2008).

17 ottobre, 2013

Torna alla Scala il Don fatale

 

Sì sì, questo è un altro equivoco (come il famoso ah l’amor, l’amor è un dardo): lo so che il fatale non è DonCarlo (come però ho creduto per anni e anni… smile!) ma il fascino della Eboli che – secondo lei, modestia suprema! – la costringe a compiere azioni sconvenienti e sconsiderate. Poi, dopo il suo pentimento, canta a proposito del Don (questo sì, il Carlo!): Sia benedetto il ciel!... Lo salverò!... Però tutto quello che sa fare per salvarlo, nel finale dell’atto III (che spesso è pure tagliato!) è gridargli Va’! fuggi! quando la folla inferocita reclama la testa dell’amato (?! potenza dei libretti d’opera…)

 

Ieri sera alla Scala – con  molti… buchi, andati aumentando di numero ad ogni intervallo, lungo o breve che fosse - seconda recita del Don Carlo nella ripresa dell’edizione 2008-9, quella che fu precisamente fatale all’incolpevole Filianoti e che passò alla storia non certo per la qualità dello spettacolo – che fu passabile, ma nulla più - ma soprattutto per le contestazioni alla prima ambrogina a Daniele Gatti…

 

Del quale Gatti il concertatore Fabio Luisi ha evitato gli arbitrari ripescaggi di brani che Verdi aveva autorevolmente escluso dall’edizione da lui personalmente ed espressamente curata e pubblicata in occasione dell’esecuzione dell’opera alla Scala (10 gennaio 1884): edizione impiegata per le recite di questa stagione.

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A proposito di versioni dell’opera, ne riporto qui l’elenco sintetico ma sufficientemente esaustivo pubblicato (a cura di Enrico M. Ferrando, sulla base dell’edizione critica integrale di Ricordi) sul programma di sala del Regio di Torino, in occasione della produzione dell’opera nella stagione 12-13:

1a) Versione completa, utilizzata per le prime prove del lavoro (include 8 brani, poi eliminati per contenere la durata dell’esecuzione nei limiti rigidamente stabiliti dalle convenzioni dell’Opéra, e manca del balletto, terminato nel febbraio 1867).
1b) Versione della prova generale (comprende ancora tre degli otto brani eliminati alla prima, e include il balletto, completato nel febbraio 1867).
1c) Versione della prima esecuzione (11 marzo 1867).
1d) Versione della seconda esecuzione (13 marzo 1867): in questa versione l’atto IV è abbreviato e termina con la morte di Rodrigo.
1e) Versione in italiano (San Carlo, Napoli, 1872): include varianti al duetto Filippo-Rodrigo (due terzi del quale furono composti ex-novo su un nuovo libretto) e al duetto finale Carlo-Elisabetta.

2) Versione in quattro atti, in italiano (Milano, 1882-1883). È un radicale rimaneggiamento che elimina più di metà della musica originaria (tutto l’atto I, duetti Carlo-Rodrigo e Filippo-Rodrigo nell’atto II, scena iniziale e balletto nell’atto III, scena Filippo-Elisabetta nell’atto IV, finale dell’atto IV, finale dell’atto V), sostituendola con sette nuovi brani e ricollocando la romanza “Io la vidi” (che Carlo canta nell’atto I della versione parigina) nel Preludio, introduzione e scena del frate (n.1) del nuovo atto I.

3) Versione in cinque atti in italiano (1886). Rispetto alla precedente reintegra l’atto I originale (la romanza di Carlo è ovviamente ricollocata nell’atto I, e viene quindi ripristinato l’inizio dell’atto II).
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Sulla pertinenza, plausibilità, arbitrarietà, abuso… riguardo i contenuti di un’opera come questa da mettere in scena si potrebbe discutere all’infinito. Alla fine però ci si riduce immancabilmente al quesito: vogliamo rispettare le volontà dell’Autore, così come materializzatesi in suoi atti espliciti, o invece ci prendiamo il diritto di costruire noi lo spettacolo, impiegando di volta in volta i pezzi del meccano che più ci piacciono (o che possono fare più cassetta)?

Nel caso del Don, pochi dubbi esistono che le uniche due versioni che Verdi licenziò espressamente dopo averne meticolosamente curato la preparazione siano: a) quella della prima di Parigi (1867, in francese e poi in traduzione italiana) e b) quella della Scala del 1884.

Purtroppo però non ci si ferma qui, poiché anche grandi direttori (vedi Abbado o Pappano, o il Gatti di qualche anno fa) si inventano la loro personale versione del Don, scegliendone una come base e poi infilandoci o togliendoci altri pezzi a loro piacimento. Prendiamo ad esempio il duetto Filippo-Carlo dell’Atto III (che Gatti riscoprì nel 2008): che sia grande musica non si può negare, e Verdi medesimo lo impiegò nel suo Requiem come Lacrymosa; che però il Maestro lo abbia cassato in via definitiva dal Don lo dimostra proprio la versione preparata (con mesi e mesi di lavoro!) per il nuovo allestimento della Scala del 1884 (nel 1868 e 1878 vi si era rappresentata la versione in 5 atti in italiano, ma non senza modifiche). Dove le ragioni del taglio legate alla lunghezza dell’opera (e agli orari dei treni di Parigi…) non reggevano più, visto che la versione in 4 atti recupera una buona mezz’ora rispetto a quella originale del 1867! Invece no, nessuna riapertura: evidentemente il Maestro aveva concluso da tempo – almeno dal 1874, anno di composizione del Requiem e dell’impiego di quel brano del Don come Lacrymosa  - che la drammaturgia della scena, e quindi il suo valore estetico ed artistico venivano seriamente compromessi da quel siparietto in cui tutto un mondo in fermento si deve fermare in surplace per ascoltare l’epinicio che Filippo e Carlo cantano al povero Rodrigo.

Insomma, personalmente mi sento di dire bravo a Luisi anche solo per non aver voluto fare il diverso… In realtà la sua prestazione di ieri ha avuto, per me, altrettante ombre che luci: poiché alla generale correttezza dello stacco dei tempi ha fatto da contraltare una tendenza ad eccessivo fracasso (penso in particolare all’Atto II, ma non solo) con conseguente copertura delle voci. Certo, anche per colpa delle voci, come dirò. Ma il concertatore dovrebbe venire in soccorso, invece di… seppellire.  

Orchestra meglio del solito e Coro di Casoni sui suoi standard.

Mattatore della serata René Pape, che a distanza di 4 anni è stato ancora un Filippo autorevole, commovente e – per giunta – non acconciato come un vecchio rimbambito (a dispetto del suo crin bianco, non dimentichiamo che il RE storico aveva da poco passato i 30!) Non vorrei sbagliare, ma mi pare che nell’aria-madre dell’Atto III non abbia preso bene il suo primo amor… In ogni caso, una prestazione notevole per emissione e sensibilità interpretativa. Per lui trionfo indiscusso.

Con lui abbastanza bene l’altro basso, Štefan Kocán, nei panni del tremendo Inquisitore: cui ha conferito anche quel che di protervo che ben si addice al personaggio. Certo, quando in altre repliche dovrà indossare i panni del Re, sarà bene che trovi il registro appropriato.

Fabio Sartori è un Infante passabile: la voce è un pochino… sporca, squilla poco, anche se ha una potenza tale da sovrastare persino gli eccessi rumoristici di Luisi! Certo, la sua presenza scenica non è proprio delle più accattivanti, e non solo per la circonferenza… pavarottiana del suo adipe (smile!)   

Rodrigo è Massimo Cavalletti, che mi ha favorevolmente impressionato: voce ben impostata e passante, portamento efficace; mi sembra che il 35enne lucchese (ascoltato qui come Ford nel Falstaff di inizio anno) stia continuamente migliorando.

Le due protagoniste femminili hanno funzionato a corrente alternata. Nel senso che le loro voci si sentono quando devono trovarsi nella cosiddetta ottava alta; in quella bassa faticano a farsi udire (e Luisi purtroppo nulla ha fatto per farcele udire). Meglio la Martina Serafin (Elisabetta) che almeno gli acuti li emette con proprietà… mentre Ekaterina Gubanova (Eboli) tende a spararli al limite dello schiamazzo.

Efficace Fernando Rado nella parte non proprio secondaria né banale del Frate. Su standard da minimo sindacale Barbara Lavarian (il Paggio, en-travesti) e Il Conte di Lerma di Carlos Cardoso.

Efficace la prestazione dei sei Deputati fiamminghi: Ernesto Panariello, Simon Lim, Davide Pelissero, Filippo Polinelli, Federico Sacchi e Luciano Montanaro.

Carlo Bosi e Roberta Salvati (che evidentemente ier sera cantava dal suo camerino…) completano il cast.

Alla fine applausi per tutti e per ciascuno, con punte per Pape e Luisi.
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La regìa di Stéphane Braunschweig è rimasta su per giù quella che era. Ho notato che adesso è meno invasiva la presenza dei due bambinelli a far da controfigura a Carlo&Elisabetta. In particolare ad Atocha, dove il piccolo è relegato in fondo-scena e legato ad un patibolo, anziché sostituirsi (come 5 anni fa) a Posa per la consegna della spada di Carlo al Re.

Un allestimento che non ha fatto e non farà storia, nel bene e nel male. Dove il bene consiste principalmente nel non fare danni all’originale; e di questi tempi, in cui assistiamo a travisamenti e adulterazioni di ogni sorta, è già qualcosa.

In conclusione, un ritorno accettabile: di questi tempi c’è di che accontentarsi.

15 aprile, 2013

DonCarlo festeggia i 40 anni del Regio moderno


Mercoledi 10 aprile si celebravano i 40 anni dalla riapertura (con rocamboleschi Vespri) del teatro torinese (i festeggiamenti proseguiranno sino a fine giugno) e Don Carlo è stato scelto per onorare la ricorrenza (poi per una qualche insondabile ragione la prima è slittata di 24 ore…) Ieri la seconda, in un teatro piacevolmente gremito in ogni ordine di posti. E dove alla fine il pubblico si è accalcato sotto il palco per tributare un autentico trionfo a tutti i protagonisti, non essendosi risparmiato prima applausi a scena aperta al termine di tutte le stazioni di questo meraviglioso calvario che è il Don.

Qui siamo proprio in un teatro-della-città, che i cittadini sentono come loro proprio e di cui giustamente apprezzano la serietà, la professionalità e lo stare-con-i-piedi-per-terra, fornendo prodotti di qualità senza pretendere (non essendolo) di essere i primi al mondo e soprattutto senza pretendere di attribuirsi porzioni sproporzionate dei finanziamenti pubblici. Il riferimento alla Scala è evidente: il quale ormai non è più il teatro dei cittadini milanesi, ma è una meta turistica per stranieri neo-ricchi, dove la maggioranza del pubblico passa di lì per caso e, soprattutto, senza cognizione di causa.
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Lo spettacolo riprende l’allestimento del 2006 di Hugo de Ana, mentre sul podio sale il padrone di casa, Gianandrea Noseda da Sesto San Giovanni.

Regìa che gli snob con la puzza al naso tacceranno di ammuffita musealità (o di zeffirellite rafferma) poiché le scene copiano quasi alla lettera le architetture dell’Escurial e di Valladolid, i costumi sono precisamente quelli che vediamo nei quadri e nelle pitture cinquecentesche e ciò che avviene in palcoscenico è al 100% rispettoso delle didascalie prescritte in partitura. Ah, che noia, che barba, che noia, vuoi mettere qualche bel cappottone ddr e l’ambientazione nella Dallas di JR ?!

Per la verità la regìa, col Don Carlo (o Carlos) un problemino ce l’ha sempre, ed è una faccenda di… taglie: datosi che il povero Infante, all’inizio del secondo atto, deve scambiare la Eboli per la Regina (della quale Regina conosce meglio di chiunque altro, e per evidenti ragioni, le… dimensioni, smile!) è necessario che soprano e mezzosoprano che impersonano le due signore abbiano corporature almeno vagamente compatibili. (La benda che copre l’occhio offeso della Eboli non è un problema, essendo prudentemente nascosta dalla maschera e dal velo da lei indossati.) Ora, la defezione della Frittoli (annunciata dall’altoparlante alle ore 14:29) sostituita dalla Kasyan (che ha due taglie in meno…) qui ha provocato invece un palese… scompenso volumetrico, talchè ha fatto piuttosto sorridere il Carlo che scambiava la giunonica Barcellona per l’esile georgiana (cose che capitano solo in teatro, smile!)  
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Ma a proposito di inverosimiglianze, sappiamo che il dramma di Schiller e il libretto di Méry-DuLocle, mentre presentano uno sfondo storico-politico assolutamente rigoroso, contengono invece una versione ampiamente romanzata e fantasiosa delle relazioni personali intercorrenti fra Carlo, Elisabetta e Filippo.

Per fare un minimo di chiarezza storica, bisogna ricordare alcune date: Filippo II (nato nel 1527) succede al padre Carlo V (tramite abdicazioni successive) nel 1556-58 (Carlo V muore appunto nel ‘58). Ha già all’attivo due matrimoni, dal primo dei quali è nato il Carlo della nostra vicenda, nel 1545. Quindi quando Filippo eredita (parte del) l’impero del padre, ha 29 anni e suo figlio Carlo ne ha 11.

Veniamo ora ai due giovani: ammesso che si siano incontrati a Fontainebleau, la cosa deve essere avvenuta assolutamente prima del 1559 (anno del matrimonio, il terzo, di Filippo con Elisabetta). Ora, a quel tempo DonCarlo ed Elisabetta (che erano coetanei, classe 1545) avevano 12, massimo 13 anni! Praticamente dei bambini insomma, le cui eventuali promesse di matrimonio corrisponderebbero a quelle che oggi si fanno due sbarbati delle scuole medie! (Invece pare verosimile che i due fossero destinati, magari a loro insaputa, ad un qualche matrimonio di Stato).    

È storicamente accertato che Filippo sposò Elisabetta nel 1559, quando lui aveva 32 anni e la francesina ne aveva solo 14, e ancora stava uscendo dalla pubertà (ebbe la prima gravidanza, abortita, 5 anni dopo). Ed è verosimile che i fatti narrati nell’opera siano anteriori al 1564, anno in cui Elisabetta ebbe appunto la prima delle sue 4 gravidanze (successivamente ebbe due femmine - ’66 e ’67 - e un altro aborto nel ’68). In effetti il libretto reca l’indicazione verso il 1560: il che comporta che Carlo ed Elisabetta, ai tempi dello scandalo narrato nell’opera, dovessero avere 15 anni al massimo (!?)

Quanto a Filippo, che spesso viene rappresentato come un ottuagenario decrepito, aveva appunto 32 anni quando sposò Elisabetta, e 33 ai tempi della vicenda dell’opera, il che contrasta abbastanza con il crin bianco da lui stesso citato nella famosissima Ella giammai m’amò… Però qui a Torino Filippo è impersonato nel primo cast dal 36enne Abdrazakov, il che tutto sommato rende giustizia alla… storia!  
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Tornando a bomba, la versione rappresentata al Regio è Don Carlo e non Carlos, dal che si deduce essere quella in italiano (Scala 1884) e in soli (smile!) quattro atti (3 ore nette di musica) avendo abbandonato oltralpe l’idilliaco Fontainebleau. Edizione qui meritoriamente esente anche da pseudo-filologie-a-buon-mercato (tipo riscoperte dell’america di Peregrine o Lacrymose assortite, per intenderci, o di pagine di partitura rifatte di sana pianta da Verdi medesimo in occasione dell’edizione scaligera).

Per gli aficionados di Radio3 allego, dall’archivio di Musica&Dossier, due scritti sull’opera verdiana, apparsi sui numeri di aprile 1988 e di novembre 1992 a firma di due vecchie conoscenze: Stefano Catucci e Guido Barbieri.
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Come detto, ieri gran trionfo per tutti gli interpreti, fra i quali mi sembra spetti di diritto la priorità di menzione a Svetlana Kasyan, che ha dovuto forzatamente anticipare il suo debutto di due giorni, causa l’indisposizione della Frittoli. Bene, questa giovane georgiana, alle prime esperienze forti, è stata davvero una piacevolissima sorpresa, mostrando grande tecnica, una bella voce e soprattutto una sicurezza da cantante navigata: per essere un esordio, davvero splendido.

Accanto a lei un Ramón Vargas abbastanza efficace, senza sbavature, anche se la voce non è abbastanza… eroica (non sempre, ovvio, ma quando ciò sarebbe necessario).

Ildar Abdrazakov è un Filippo convincente (come detto, anche… anagraficamente): voce calda e mai cavernosa, bella espressività e portamento davvero regale, incluse le tremende contraddizioni che animano il personaggio.

Ludovic Tézier per me ha fatto un figurone: un Posa di grande spessore e autorevolezza, cui è difficile trovare lacune.

Molto bravo anche Marco Spotti, che ha restituito con durezza, ma senza esagerazioni macchiettistiche, la figura dello sbifido cerbero Inquisitore.

Roberto Tagliavini ha dignitosamente prestato la sua voce (che arrivava più che altro dalle… profondità della cripta) al Frate-CarloV.

Lascio per ultima Daniela Barcellona: dopo la (tutto sommato) positiva comare Quickly alla Scala, la statuaria mula triestina si cimenta in un altro, e invero impegnativo, ruolo verdiano: quello di Eboli. Ecco, una prestazione di livello non assoluto, stante le caratteristiche… somatiche della sua voce, che non collimano precisamente con quelle del personaggio, soprattutto nelle scalate più ardite. Tuttavia un risultato complessivo più che accettabile, raggiunto anche, se non soprattutto, grazie alla impeccabile capacità di stare in scena.     

I comprimari erano Sonia Ciani (Tebaldo en-travesti) Erika Grimaldi (Voce dal cielo) Dario Prola (Lerma) e Luca Casalin (Araldo).

Fabrizio Beggi, Scott Johnson, Federico Sacchi, Riccardo Mattiotto, Franco Rizzo, Marco Sportelli (gli ultimi tre sono membri stabili del Coro del Regio) hanno ben recitato la parte dei bistrattati Deputati fiamminghi.

Sempre all’altezza il Coro di Claudio Fenoglio, sia nelle parti di canto arcano e sommesso dei frati, che in quelle di grande e smaccata sonorità, davanti ad Atocha.

Il Kapellmeister Noseda si conferma ancora una volta solido ed affidabile concertatore: cava dall’orchestra i suoni più cupi e introversi, come i fracassi più enfatici. Guida le voci da par suo, senza mai metterle in difficoltà e tiene tempi mediamente serrati, senza però andare mai oltre i limiti della correttezza interpretativa. Insomma, un nome, una certezza!
  

21 dicembre, 2008

Don Carlo: buona la sesta?

Per me, direi di sì (essendosi che è l’unica rappresentazione cui ho assistito - live).

Opera perennemente incompresa e guardata con sospetto: dai verdiani ortodossi e conservatori, in quanto non abbastanza verdiana; da quelli progressisti in quanto non ancora abbastanza wagneriana. Fatta oggetto di diatribe e discussioni: fa i sostenitori del Grand’Opera, cinque atti, Fontainebleau, balletti e lingua gallica, e quelli che giudicano tutto ciò un ciarpame da bruciare. In mezzo, direttori che di volta in volta fingono di fare degli scoop, riesumando pagine di musica, pescandole quasi a caso da un cappello, o stabilendo come verità artistiche incontrovertibili i pettegolezzi raccolti da un amico o da una confidente del Maestro.

Si direbbe che questa diffidenza sia stata confermata ieri l'altro dai più di 170 posti (dico: quasi il 10% della capienza scaligera!) offerti in internet ancora a 3 ore dall’alzata del sipario; e comunque dal desolante spettacolo che presentavano, anche alle 19:30, i numerosi palchi semivuoti e i buchi ben visibili in platea. Sarà per via della crisi, e per le conseguenti difficoltà di agenzie e strutture turistiche (leggi: bagarinaggio autorizzato) a sbolognare ai giapponesini i contingenti di biglietti loro concessi, certo si è che il risultato - indipendentemente dal fatto che il Teatro abbia comunque incassato o meno quei 20 o 30 mila euri - è dei meno lusinghieri. Per la cronaca: per le ultime 4 recite, a gennaio, sono tuttora disponibili in web circa o più di cento posti a serata: brutto segno?

Regia, scene e costumi

Per la verità alla contraddittoria fama del Carlo sembra abbia voluto tener bordone anche la regia (in senso lato, includendovi scene e costumi) del pur intelligente Braunschweig (uno di quei simpatici francesi di nome e ascendente tedesco, tipo il ferrarista Jean Todt, per intenderci): che ha impostato la sua vision su basi essenzial-minimaliste delle scene, per poi concedere ampio spazio alla sfarzosità e sontuosità dei costumi (del solo establishment nobiliare, peraltro). Così si vedono gli ampi (fin troppo) spazi del palco scaligero spesso totalmente vuoti, oppure drasticamente limitati al solo proscenio; altre volte vi compaiono alberi finti o fondali riempiti da gigantografie, da far storcere il naso a marpioni tipo Appia; quando ci sono di mezzo le masse e i cori (frati, nobildonne, grandi di Spagna) lo sfarzo dei costumi si spreca, proprio come in un Grand’Opera che si rispetti. Insomma un nè carne, nè pesce che rischia di scontentare tutti.

La trovata dei due bimbi che compaiono a rappresentare Carlo ed Elisabetta ai tempi di Fontainebleau non sarebbe male - per surrogare sinteticamente la vicenda dell’Atto espunto - ma il loro riapparire qua e là finisce per essere stucchevole e spesso fuori dal contesto; un esempio per tutti: nella scena ad Atocha, è il Carlo-mignon a consegnare al Re, ricevutala da Posa, la spada del Carlo-maggiorenne (?!)

Nel Primo Atto, alla fine della prima parte, Braunschweig - per ricordare a tutti che se un regista c’è e lo si paga, deve pur guadagnarsi la pagnotta - si inventa letteralmente un’inversione di traffico sulla scena. La didascalìa non lascia dubbi: il Re e la Regina debbono transitare in corteo, diretti alla cappella, e Carlo deve guardarli passare, inchinarsi al Re sospettoso, lui e la Regina manifestando emozione. Invece noi vediamo i regali apparire quasi all’improvviso, soli, in primo piano, immobili quali statue di cera ed inginocchiati ad una specie di altare (un prisma marmoreo, che alla fine dell’opera assumerà il ruolo - assai più appropriato - di catafalco) mentre sono Carlo e Posa a muoversi ed uscire di scena, prima che cali il sipario.

Il Filippo che vediamo nell’ultima parte del Primo Atto (non direi sia colpa di Furlanetto) sembra muoversi più come un ottantenne possidente di campagna, scontroso e acido e con qualche gesto più degno di Rigoletto che di un Re, che sarà anche preoccupato, ma che ha - nella storia come nell’opera - un profilo ben più alto. Da qui in avanti però il sovrano tornerà ad assumere gesti ed atteggiamenti consoni al suo ruolo. Come nella scena di Atocha, su cui val la pena dir qualcosa. (Intanto sembra destino che a quasi mezzo millennio di distanza, questo nome sia tornato tristemente a rappresentare gli abissi in cui una civiltà possa precipitare, per mano della religione - cattolica o islamica, poco cambia - quando le gerarchie o i proseliti di detta religione pretendono di usarla a fini politici.)

Braunschweig qui ha intuizioni interessanti, come quella di presentarci i prelati, appollaiandoli su scranni esageratamente alti, ai lati della scena, e facendogli assumere atteggiamenti di noia, di sonnolenza e fastidio: cosa che immagino sarebbe molto piaciuta a Verdi. Poi si inventa, in contrapposizione ai costumi sfarzosi della nobiltà, una plebe vestita come oggi, con copricapi che vanno dal borsalino alla coppola, dalla bustina militare al basco; come a dire: la povera gente, 500 anni fa, non se la passava poi tanto diversamente da oggi (e vice-versa). Il Re compare in primo piano quasi subito, il che priva lo spettatore dell’effetto previsto in partitura (Filippo a comparire dopo l’apertura delle porte della chiesa, che Braunschweig sostituisce con l’alzata del sipario-zanzariera che schermava la scena all’inizio).

Veniamo al Terzo Atto, dove Braunschweig forse dà il meglio: la scena è vuota, solo uno scranno su cui siede Filippo, che canta la sua meditazione. (a proposito mi viene in mente che le precise note del passo “se il serto regal a me desse il poter” sono state usate - con tempo e ritmo ovviamente diversi - da un qualche bontempone dentro una zarzuela o qualcosa di simile.) Significativamente, nella scena successiva con l’Inquisitore, Filippo cede a quest’ultimo il posto a sedere sullo scranno, proprio a simbolizzare come stiano le cose, nei rapporti Stato-Chiesa. Salminen è un Inquisitore ideale (stiamo per ora parlando della presenza scenica): enorme, minaccioso, terrificante, con quella calma che gli deriva dalla consapevolezza del suo potere, oltre che dai novant’anni suonati che il personaggio porta sulle spalle, gli occhi e il passo quasi da cieco.

Un’altra idea interessante del regista è legata allo scrigno di Elisabetta, contenente il cammeo di Carlo: noi lo vediamo subito, al momento della meditazione. Filippo lo apre, ne prende il contenuto, stringendolo nervosamente fra le mani mentre canta “Ella giammai m’amò...”; poi riaprirà lo scrigno (invece di infrangerlo) al momento di mostrarlo ad Elisabetta; infine il cammeo, rimasto abbandonato sullo scranno, verrà raccolto da Eboli al momento di cantare il suo “O don fatal”. Qui devo aprire una parentesi di carattere personale, fra il vergognoso e il ridicolo: essendo che io - pregiudizialmente, lo ammetto - ho sempre guardato ai testi del melodramma italiano come a pure giustapposizioni di parole prive di significato compiuto e puri supporti al gorgheggio, e tratto in inganno dalla plausibilità dello scenario, avevo per non so quanto tempo dato per scontato che il don avesse l’accento forte - dòn - e si riferisse quindi all’infante protagonista del dramma. Non ricordo chi o come mi abbia portato a prendere atto che invece il sostantivo ha l’accento debole/stretto ed è una contrazione di dono (di natura). Imperdonabile, lo so; ma vero, ahimè.

Infine, devo proprio segnalare un particolare che testimonia della minuziosità della regia e dell’attenzione posta dagli interpreti ai dettagli più sottili. Dunque: colpito a morte dal colpo di spingarda esploso da un brigatista che ha dato l’impressione di uscir fuori dalla barcaccia, Posa rincula barcollando, fino ad accasciarsi sul seggiolone di Carlo, seguito dall’infante esterrefatto. Il realismo impone che scorra il sangue, ed infatti c’è un piccolo blob di color violaceo che compare per terra, ma dove? Disgraziatamente proprio dove Carlo si deve inginocchiare, accanto a Posa. Ed allora cosa non ti fa il meticoloso Neill? Con il suo piedino sinistro dà un paio di colpetti alla macchia di sangue plastico, spostandola in una zona da cui sia visibile a tutti, e non solo a chi, come il sottoscritto, guarda dal loggione, provvisto di binocolo da marina. Grandioso!

La conclusione del dramma è suggestivamente sottolineata dall’oscuramento totale della scena, incluse le lucine sui leggìi dell’orchestra, ad accompagnare il diminuendo dell’accordo conclusivo. Dopo il quale si sono ascoltati almeno due secondi di silenzio, speriamo dovuti a sensibilità del pubblico e non a ignoranza di come l’opera si chiude... comunque, appropriati.

Direttore e compagnia

Gatti. Lui conosce a memoria la partitura (e così il neon del suo vuoto leggìo resta evidentemente acceso solo per rendere il direttore meglio visibile a professori e cantanti). Io invece ammetto di non ricordare nemmeno il primo verso del 5 maggio, però un’ultima scorsa alla partitura della premiata Casa Ricordi l’ho data proprio prima di uscire per andare a teatro: posso quindi certificare - ad occhio/orecchio e croce - che il Daniele si sia attenuto a tempi ed agogica originali, inclusi gli ff che Verdi sparge in abbondanza sui righi; ergo: chi accusa questo Carlo di eccessivo bandismo in realtà non dovrebbe prendersela con il direttore, ma con l’autore in persona, assumendosi la responsabilità di voler dare lezioni a tale Giuseppe Verdi da Le Roncole di Busseto.

Ciò che è viceversa difficile non contestare al Kapellmeister (in combutta col regista) è l’inclusione proditoria del Lacrymosa: una lungaggine che spezza la drammaticità dell’azione, oltretutto fatta recitare da Braunschweig come se non ci fosse proprio, col Re che ignora totalmente il cadavere di Posa, senza degnarlo di uno sguardo, non dico di un gesto di compianto. Se qualcuno, per quei 5-6 minuti in più, avesse perso l’ultimo tram che va in periferia, avrebbe diritto di essere indennizzato. Insomma, che sia grande musica lo sappiamo, ma a me è francamente parso come il classico mazzolino di prezzemolo che gli ortolani del mercatino rionale ti buttano nel sacchetto, sopra pomodori e patate, come omaggio. Peccato che qui non eravamo al mercato per approvvigionarci di ingredienti, ma a tavola, con davanti il manicaretto - cucinato da Verdi, dico - da gustare... e quel mazzolino di prezzemolo ha rischiato di rovinare tutto.

Neill deve essere così riconoscente a Gatti per averlo preferito a Filianoti, che canta l’intera opera solo per il direttore. Dico: non distoglie mai lo sguardo dal podio, in nessun caso; il che magari a lui provoca qualche principio di strabismo, ma allo spettatore garantisce una performance musicale davvero rimarchevole!

Di Furlanetto ho detto sulla parte attoriale. Musicalmente sarà consunto quanto si vuole, fatto si è che, insieme a quella del sorprendente Neill, la sua è la voce che arriva meglio fin su ai loggioni! Che gli hanno tributato l’applauso a scena aperta e un’ovazione finale, meritati.

Mayer mi è parso un ottimo Rodrigo, ben calato nel personaggio anche come presenza scenica. Musicalmente l’ho trovato a posto, salvo il volume di voce, sufficiente magari in qualche teatrino di provincia (tipo Heidelberg, sia detto senza offesa) e non in un teatrone come il Piermarini.

Salminen sarà anche troppo wagneriano, non pronuncerà bene l’italico idioma, ma in quella parte ci sta bene assai, e non solo scenograficamente. Il buh che gli è stato riservato - non in scena, ma all’inchino finale - mi è parso gratuito.

Carosi mi è piaciuta, devo dire. Non avendo visto (ma solo ascoltato per radio) Cedolins, fatico a fare paragoni mirati fra le due primedonne. I primi piani che mi ha concesso il binocolo testimoniano anche di notevole portamento attoriale.

Smirnova veniva dopo i (mezzi) trionfi di Zajick e - per me - se l’è cavata dignitosamente. Il buh (l’unico a scena aperta) è stato suo, alla fine del terzo atto, ma direi che un usignolo (o una cornacchia, in questo caso) non faccia primavera.

Gli altri, Lindroos in testa, senza pecche, con menzione per i sei fiamminghi, un pacchetto perfettamente affiatato.

Il coro di Casoni - una cosa che funziona come un orologio in Scala c’è ancora, se dio vuole, e speriamo continui - è stato impeccabile, a dir poco.

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Finito il dramma, tutti i protagonisti in fila - da un estremo all’altro del proscenio, a sipario alzato - a raccogliere l’applauso, ciascuno facendo tre passi avanti, al suo (rigorosamente unico) turno. Qui l’incolpevole Matti si è beccato il suo buh, mentre Stuart ha fatto il classico gesto del centravanti che segna un gol (questo Carlo per lui deve essere davvero come vincere un mondiale) e - come gli altri/e - anche Anna è passata indenne (che il buatore del terzo atto avesse nel frattempo apprezzato qualche suo don?) Furlanetto in trionfo e poi, come di prammatica, la primadonna ha prelevato da dietro le quinte il concertatore, che ha avuto la sua dose di quelli che, asetticamente, si definiscono applausi di stima, o poco più. Gatti, come sua consuetudine, ha fatto 5-6 passi avanti, affacciandosi sulla buca per appludire giù di sotto. Il suo podio, i leggìi e le sedie hanno apprezzato. Ah sì, anche la grancassa. I professori? Quelli, erano già in tram... o tempora, o mores!

08 dicembre, 2008

Don Carlo: alcuni responsi a confronto

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Un altro con idee chiarissime...


“...ognuno degl’interpreti, fatta salva la Zajick e in parte il basso Furlanetto, ...canta la sua parte come stesse leggendo l’elenco telefonico”

Un simpatico modo per dire che Neill, la Cedolins e Jenis (si, caro Paolo, Jenus sull’elenco telefonico non si trova, ...ma certo la colpa è del tipografo) hanno dato i numeri?

07 dicembre, 2008

Uno che ha le idee chiare...

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“...l’opera lirica italiana è stata inventata dal nostro Paese

(Ministro Sandro Bondi, intervistato da Oreste Bossini nel 1° intervallo del Don Carlo)
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04 dicembre, 2008

Giuseppe Verdi - DON CARLO

Opera in quattro atti. Libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle. Traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini

Nuova produzione Teatro alla Scala

Dicembre 2008: 07 (18:00), 10 (19:30), 12 (19:30), 14 (15:00), 16 (19:30), 19 (19:30), 21 (19:30)

Gennaio 2009:
04 (15:00 - riservato), 08 (19:30), 11 (19:30), 15 (19:30)

Durata spettacolo: 4 ore e 10 minuti

La Scala ritorna ancora una volta all'edizione italiana in 4 atti, mentre manca ancora una prima esecuzione della versione originale francese in 5 atti, modello grand-opéra, -incisa da Claudio Abbado con i complessi della Scala e Placido Domingo nel ruolo del titolo.
Anche l'edizione inaugurale del bicentenario scaligero, nel 1977, fu diretta da Abbado nella versione italiana in 5 atti "di Modena" del 1887, curata dallo stesso Verdi e integrata con alcuni dei brani tagliati già alla prima parigina, poi ritrovati negli archivi dell'Opéra di Parigi nel corso del Novecento. Anche là ci fu una questione di orari e si sostiene addirittura che il quarto d'ora di musica tagliato già alla prima assoluta fosse dovuto alla partenza dei trenini suburbani che dovevano riportare a casa il pubblico parigino. Verdi poi, in una lettera, lamentò che il taglio del primo atto, fatto per la Scala ma anche per Vienna, fosse stato imposto per non accorciare il tempo della cena ai pacifici viennesi, che andavano a teatro a pancia piena.
La mia opinione è che l'atto iniziale di Fontainebleau sia fondamentale nella struttura drammaturgica dell'opera, anche se molti ritengono che la riduzione a 4 atti l'abbia migliorata.
Mancano poi passaggi essenziali per la comprensione della vicenda, come il duetto Eboli-Elisabetta e lo scambio dei mantelli, per cui non si capisce cosa ci faccia Don Carlo nei giardini della Regina con in mano un biglietto (apocrifo) di Elisabetta e poi si trovi davanti invece la Eboli; è tagliato anche il compianto di Filippo per la morte di Posa, per cui non si sente il tema, che Verdi userà poi nel Lacrymosa della Messa da Requiem.
Nel complesso ritengo che al décalage intervenuto tra il dramma di Schiller e il libretto francese se ne aggiunga un altro nella traduzione italiana. Permane comunque l'inverosimiglianza storica della vicenda, che però nulla toglie all'efficacia del dramma e alla potente magnificenza della musica di Verdi, giunto ormai alla perfezione dello "stile vocale-strumentale" della sua seconda fase, come definita dal fondamentale saggio di Massimo Mila.
Condivido invece il taglio del balletto "La Pellegrina", dedicato a un'enorme perla che all'epoca di Filippo II apparteneva al tesoro della corona di Spagna. Non è un gran che e Abbado lo ha inciso a parte insieme ai brani omessi nella prima parigina e non ripresi da Verdi nella edizione di Modena in italiano: credo che i 5 atti con il balletto supererebbero in lunghezza la Goetterdaemmerung e mi pare giusto lasciare tale primato a Wagner.
A titolo di curiosità aggiungo che la Pellegrina fu portata a Parigi durante l'occupazione napoleonica e poi rivenduta più volte dopo la fine del secondo Impero. Ad un'asta la perla fu acquistata da Richard Burton, come dono a Elizabeth Taylor, che forse ne è ancora la proprietaria.