Ieri sera al Piermarini una delle ultime
recite del nuovo (si fa per dire, essendo un altro auto-imprestito di Pereira da Salzburg) Don Carlo. Si tratta dell’ibrido
5-atti-in-italiano cui Verdi mai diede il suo imprimatur, ma che dalla comparsa originaria (1886, Modena) ha
cominciato ad apparire saltuariamente sui vari cartelloni e con ulteriori
varianti. Qui in Scala risale al 1977-78 l’ultima produzione di tale ibrido
(diretta da Abbado) che però innestò sulla già di per se apocrifa versione-Modena
(i quattro atti della versione ufficiale italiana, Scala 1884, a cui fu
anteposto l’atto di Fontainebleau della prima parigina) anche parti che Verdi
aveva tagliato già prima-della-prima (il preludio e coro dei boscaioli a
Fontainebleau e il cordoglio di Filippo per Posa, divenuto in seguito il Lacrymosa del Requiem) e parti della versione
francese che Verdi aveva deciso di omettere al momento di approntare quella
ufficiale italiana (il Coro e il travestimento Elisabetta-Eboli che aprono il
terzo atto – ma non, attenzione, la Peregrina!
- il duetto Filippo-Carlo prima del Lacrymosa e il finale dell’opera con il
coro dei Frati). Tutte le parti che non erano mai tradotte prima in italiano,
lo sono state successivamente ad opera di Piero Faggioni.
Di queste innovazioni
qui Chung ha mantenuto soltanto l’inizio dell’opera e la scena iniziale del
terz’atto (travestimento). Sull’opportunità di questi recuperi si discute da
sempre, ma a registi e direttori non par vero di poter farsi belli inventando
nuove combinazioni fra tutti i pezzi di questo meccano in cui le due versioni
autenticate da Verdi (la prima di Parigi del 1867, in francese, e quella in
italiano del 1884) sono state smembrate. Così, tanto per dire, nel 2008 il
rigoroso Gatti si permise di resuscitare, nel Don in 4 atti, il Lacrymosa, che
Verdi aveva ormai da tempo inserito nel Requiem...
Detto questo, aggiungo che trattasi di
uno spettacolo complessivamente discreto, cui il pubblico (deprimente lo
spettacolo di serie di palchi deserti...) ha tributato un’accoglienza calorosa,
ma non entusiasta.
Sul piano musicale, Chung ha confermato
la sua grande sensibilità, peccando però di eccessivo bandismo in alcuni
momenti, col risultato di coprire irrimediabilmente le voci. Fra le quali voci
spicca l’eterno, inossidabile Furlanetto,
di gran lunga il più convincente. Benino anche l’Inquisitore di Kares, voce profonda senza essere
sgradevolmente cavernosa, così come l’accademico
Summer (Frate). Sui suoi standard, ma un poco appannato il Carlo di Meli, la cui voce mi è parsa meno
squillante del solito. Una (mezza) delusione il Posa di Piazzola: il baritono veronese ha bella voce e bene impostata, ma
ahilui non riesce a farla giungere appropriatamente in sala: così, salvo quando
non si esibisca in perfetta solitudine e nel silenzio generale (vedi A me il ferro...) lui resta sepolto
dalle altre voci (vedi terzetti e quartetti) e/o dal fracasso orchestrale. Convincente
la Stoyanova, voce robusta nei centri
e gravi, quasi da drammatico, e sufficientemente limpida negli acuti. Un filino
sotto la Eboli di Semenchuk, un poco
sfibrata negli acuti, comunque dignitosa in una parte impervia. A tutti gli
altri una sufficienza... di gruppo. Benissimo come (quasi) sempre il coro di Casoni.
Regia minimalista (nelle scene, spoglie
o... dozzinali) quella di Stein, che
gioca con gli occhi di bue per illuminare i personaggi in una generale penombra
(Atocha esclusa). Curato il lavoro sugli interpreti, che reagiscono bene
(Furlanetto, che non ha bisogno di lezioni...) o benino (le due donne) o
così-così (i due giovani). Costumi più o meno appropriati (compresi i pinocchi
dell’autodafè, dove peraltro si
raccontavano solo bugie...)
In definitiva, una proposta dignitosa e
non di più.
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