XIV

da prevosto a leone
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29 marzo, 2015

Riecco la famigerata Carmen… dantesca

 

Ieri sera terza ed ultima (per ora, in attesa di giugno) recita della Carmen (di Emma Dante, perché di Meilhac-Halévy non c’è proprio nulla!)

E appunto sugli aspetti non legati ai suoni di questa produzione avevo già scritto peste e corna all’indomani dell’uscita originale il SantAmbrogio 2009 (dove per me si erano salvati il divo Kaufmann e il discreto Barenboim) e questa ripresa non poteva certo farmi cambiare idea. Anzi mi fa detestare chi ha avuto quella di riproporre un simile spettacolo in abbonamento, quindi di imporlo anche a chi già ne conosceva i limiti. (Almeno la ripresa del 2010 era stata programmata fuori abbonamento, e così me l’ero fortunatamente risparmiata!) Perciò sulla parte visiva dello spettacolo mi fermo qui.
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In mancanza di un divo (Kaufmann) ed essendo un suo probabile buon sostituto (Meli) relegato alle recite in zona-Expo, il livello della prestazione musicale è stato appena sopra la sufficienza soltanto nel caso di Elīna Garanča. Che ha il fisique du role di… Fricka (stra-smile!) ma almeno canta dignitosamente, ecco. Se poi si facesse prestare qualche decibel (in zona centro-bassa) dalla Rachvelishvili sarebbe ancor meglio.

Invece José Cura canta come Kaufmann… fra una decina d’anni, sempre col fiato in gola e parecchia approssimazione: un amico gli è rimasto, quello che dal loggione gli ha gridato un gran bravo! dopo l’aria del fiore. Pagato con gli interessi (una sonora buata) all’uscita singola. Un isolato buh anche alla fine del second’atto, immagino però indirizzato alla regìa. Per il resto pochi e miseri applausi a scena aperta, compreso quello a sproposito sulla corona puntata che precede l’Andante moderato del Preludio.

Il torero Vito Priante mi ha fatto rimpiangere il pur non irresistibile Schrott dell’allestimento originale. Elena Mosuc è una Micaela… invecchiata precocemente anche nella voce, oltre che nell’orrenda acconciatura affibbiatale dalla regista.

Tutti gli altri sono comprimari che hanno fatto del loro meglio per… non farsi notare. Bene almeno il coro di Casoni.

Massimo Zanetti ha diretto tutto sommato con merito, riuscendo se non altro a tenere sempre basso il volume dell’orchestra, il che è un bene per la resa di un’opera come questa, ed anche per i cantanti in scena, che hanno evitato di far la figura dei pesci in acquario. 

Pubblico abbastanza numeroso e alla fine fin troppo… generoso.

19 maggio, 2010

A Bologna una Carmen havanera


Ieri a Bologna la Carmen con il secondo (?) cast. In realtà la parte del protagonista, come annunciato a inizio-recita, resta sulle spalle del titolare Andrew Richard, invece che su quelle della riserva Raffaele Sepe.
Allestimento proveniente dall'est (Lituania) regìa di Andreys Žagars e ambientazione a Cuba, come lascia intendere da subito il pre-sipario dipinto con gli inconfondibili colori della bandiera di quel Paese. Visto che, a proposito della recente Carmen scaligera, Barenboim aveva richiamato un triangolo (Spagna-Africa-Cuba) viene spontaneo fare della dietrologia e immaginare qui un triangolo rosso: Riga-Bologna-Havana... ai tempi di Brezhnev (?)
Vedremo poi – sembra incredibile – come questa paradossale ambientazione sia assai meno deformante, rispetto all'originale, di quella pretenziosa, cervellotica e incompetente che ci è stata di recente propinata da sua maestà il Teatro alla Scala. E sarei pronto a scommettere che sia costata una piccola frazione del capitale speso da Lissner, fornendo nel complesso un risultato migliore: secondo i sedicenti parametri virtuosi di Bondi, a Bologna dovrebbero andare in proporzione il doppio dei fondi che a Milano! Altra nota positiva: la partecipazione del pubblico. Il Comunale di Bologna sarà pure un teatrino, ma ieri sera era praticamente colmo, proprio come se il pubblico volesse stringersi attorno a chi quel teatro fa vivere per fargli sentire il suo sostegno, in tempi assai grami.
Allora, a Cuba! La manifattura, sullo sfondo, con un gran lider-maximo imbracciante un mitra dipinto sulla facciata, ornata di scritta patriottica (cadente); volantini che scendono con slogan inneggianti il socialismo, gente abbigliata di conseguenza ed anche qualche filo spinato a ricordarci che non è tutto oro ciò che luccica. Micaëla arriva in bicicletta e José, invece che alla sua spilletta, è indaffarato attorno ad un antidiluviano sidecar militare made-in-DDR. Nel secondo atto saremo al Bar-Sevilla (per ricordarci qualcosa?) con foto del Che in bella vista. Nel terzo vedremo in scena un catorcio tipo Buick degli anni di Batista che servirà da mezzo di locomozione (e da alcova, vero Dancaïre?) ai contrabbandieri (e saremo sul molo dell'Avana, invece che sui monti andalusi). Nel quarto atto saremo fuori da un malandato impianto sportivo del regime, dove Escamillo (che è un pugile, datosi che a Cuba la corrida è da tempo proibita, mentre la boxe è sport nazionale) si prepara a trionfare sul ring.
Orbene, se si esclude la bizzarrìa di questa ambientazione, per il resto la regìa è quanto di più rispettoso si possa immaginare dello spirito dell'opera (libretto e musica). A partire dalla scena iniziale, illuminatissima e ben rappresentante l'atmosfera descritta da Meilhac-Halévy e splendidamente musicata da Bizet: una piazza dove regna una sana e ordinaria confusione. La taverna di Pastia del secondo atto è precisamente un bar piuttosto popolare, dove troviamo allegria e gioia di vivere, frammisti ai traffici piuttosto loschi del Dancaïre e soci.
I personaggi si muovono in modo naturale, senza eccessiva affettazione, se si esclude forse la Micaëla, qui presentata all'inizio come un poco sbarazzina e un poco stupidella (ma sempre meglio che bigotta o santarellina) che però si riscatta nel drammatico intervento nel terzo atto. Carmen ha quella giusta dose di volgarità che si addice ad una gitana (che non è certo una professionista di flamenco) e quell'ostinazione viscerale e fatalistica che la portano alla rovina. Ben centrato anche José, un ragazzo apparentemente maturo, che invece passa dall'iniziale serenità dei buoni propostiti alla totale catastrofe determinata dalla sua infatuazione per la gitana. Escamillo è sì un tipo spavaldo, ma che mai eccede in gratuite spacconerie. Gli altri personaggi sono ben calati nei rispettivi ruoli.
Ecco, in definitiva, una regìa affatto propensa ad interpretazioni cervellotiche (Cuba a parte); né ad introdurre elementi estranei all'originale. Insomma, ci presenta (quasi) esattamente ciò che leggiamo sul libretto! Capìta l'antifona, cari Dante&Peduzzi?
La prestazione musicale mi è parsa di livello più che dignitoso. La versione impiegata era quella di Oeser, quindi non la più moderna, ma pur sempre materia prima originale e non adulterata (tipo Guiraud, per intenderci). Recitativi peraltro decimati, forse più del solito, cosa tale da far perdere il senso dell'azione, in un paio di momenti, a chi non ha perfettamente in testa la vicenda. Sul fronte delle note, oltre all'iniziale pantomime, che ormai sembra essere considerata come un refuso, altri tagli più o meno giustificati, come la prima strofa - quella che si sente da lontanissimo - dell'arrivo di José nel secondo atto, con annesso recitativo. E a proposito di Mariotti, per me si merita comunque un bel 7+ per la cura con cui ha sempre condotto l'orchestra in funzione del canto; il modo poi con cui ha affrontato alcuni particolari, oltre che i quattro preludi, testimonia di una grande sensibilità e profondità di lettura. Efficacissimo il suo crescendo nella chanson bohème, dove Bizet prescrive un metronomo accelerante da 100 semiminime (andantino) a 108 (sul primo tra-la-la-la) poi a 126 (animato, sul secondo tra-la-la-la) quindi a 138 (plus vite) e infine a 152 (presto) per l'orgiastica conclusione. Insomma, un Kapellmeister che – a 31 anni – promette assai bene. L'orchestra lo ha seguito benissimo, in specie gli strumentini, che hanno parti fondamentali in quest'opera (perdoneremo un paio di stecchine degli ottoni).
Carmen era Nora Sarouzian (che a dispetto del nome orientaleggiante è franco-canadese): già sentita qui nella Salome, in una parte minore ma non banale (il Paggio) ha mostrato una voce assai potente, anche se come Carmen dovrà ancora crescere (ma avrà occasione di farlo con i suoi prossimi impegni) in specie nell'espressività, oggi ancora così-così, oltre che nella precisione di certi attacchi, dove è parsa talvolta un po' calante.
José, come detto, ancora il titolare Andrew Richards. Voce stentorea, da tenore eroico-verista, che lascia un po' a desiderare nei difficili passaggi del duetto con Micaëla, mentre pare più sicuro ed efficace nei momenti più drammatici. Una prestazione comunque da apprezzare.
Escamillo era il bulgaro Deyan Vatchkov. Fisico e presenza davvero notevoli, gli perdoneremo la pronuncia non impeccabile (vedi toreiador…) a fronte di una prestazione di tutto rispetto. Migliorabile, soprattutto nei suoni alti, un po' forzati, ma insomma, non canta tanto peggio di gente che si vede sulle copertine patinate di riviste glamour!
La Micaëla di Beatriz Diaz è stata, come detto, forse troppo caricaturata dal regista (nel primo atto). Vocalmente se l'è cavata in modo dignitoso, sia nel duetto del primo atto, ma soprattutto nella sua esternazione del terzo.
Frasquita e Mercedes (Anna Marìa Sarra e Giuseppina Bridelli) hanno assolto bene il loro compito: negli interventi del secondo atto e – soprattutto – nella scena delle carte del terzo (dove compare, sui parlez-parlez, una citazione - involontaria? - delle Allegre comari di Nicolai).
Efficaci, vocalmente e senicamente, Mattia Campetti e Antonio Feltraccio nei ruoli del Dancaïre e del Remendado. Bravi, insieme alle tre gitane, nel difficile concertato del secondo atto. Come pure Alexey Yakimov (Zuniga) e Benjamin Werth (Morales) che hanno parti secondarie, ma per nulla irrilevanti.
Bravissimi i piccoli del coro di Silvia Rossi nei due difficili interventi (primo e quarto atto) e sempre all'altezza i grandi di Paolo Vero.
Applausi a scena aperta dopo le principali arie, e gran trionfo per tutti alla fine, col palco invaso anche dagli orchestrali e sul quale è sceso, e da tutti additato, l'articolo della nostra Costituzione che reclama più rispetto da Bondi&C.

19 dicembre, 2009

Hanno ammazzato comare Cammelina! Cu fu?



Non sono state smentite: abbiamo sentito la Carmen di Bizet. Una discreta (selon moi) Carmen di Bizet.
Abbiamo visto? Dipende: per taluni, una trojata underground anni '70; per pochi (mi spiace vi sia incluso anche il mio idolo Daniel, parte in causa, oltretutto) la Carmen del millennio. Per i più: una moscia e bambinesca mistura di deja-vu, senza capo né coda. Io mi colloco di sicuro in quest'ultimo mucchio, poi fornirò qualche dettaglio.
La Dante ieri sera non si è presentata al proscenio. Paura di una nuova salva di buuh? Nel caso, paura ingiustificata: visti gli osanna che il pubblico, loggione in testa, ha riservato anche agli interpreti degni di censura senza appello, forse anche lei avrebbe portato a casa un successo.
Ma qui bisogna prenderla più alla larga…
***
Monsieur Lissner, gran ciambellano del Teatro, ha una sua idea del presente e del futuro del baraccone: la Scala è un oggetto particolare, diverso da ogni altro al mondo. Chiaro per tutti? Anche a Roma, Napoli, Firenze, e Torino? (mi scuso se non nomino gli altri.)
Bene, quindi, per il futuro: assetto ultra-privilegiato, anzi proprio esclusivo, che significa nessun vincolo agli aiuti di Stato, quindi quattrini a volontà (togliendoli a tutti gli altri, quando scarseggiano, come ora). Per fare cosa? E questo riguarda anche il presente.
Per fare qualcosa che vada al di là del puro allestimento di opere. No – pontifica Lissner - la Scala non può e non deve limitarsi a mettere onestamente e professionalmente in scena i capolavori della lirica e dei drammi musicali. No, deve fare molto di più, deve stupire, compreso il dare scandalo, se serve. (Perché solo così si giustifica lo status esclusivo che si pretende di vedersi riconosciuto. Sbaglio, o questo trucco è vecchio quanto il mondo?)
Ora, qual è lo strumento principe per raggiungere un obiettivo quale l'unicità, o l'eccezionalità? Chiunque abbia cognizione di causa della natura del teatro musicale, mescolata ad un minimo di comprendonio, risponderebbe: attirare alla Scala er-meio-der-mejo-der-meyo di strumentisti, cantanti e direttori. Invece a cosa assistiamo noi? Ad una politica che non fa nulla più di un onesto sforzo (sì, nulla più: è ciò che fanno tutti gli altri sovrintendenti, a parità di fondi disponibili) per assicurare al Teatro le risorse fondamentali di cui sopra. Ma allora,come si può pretendere l'eccezionalità? Ecco, cercando di stupire – ah, la diversità! - con allestimenti di rottura; e chi se ne frega se, invece di valorizzarli, involgariscono i capolavori che vengono messi in cartellone? (Tanto il pubblico è bue, e va sorpreso, mica servito o educato!)
Ecco, la Carmen-09 è l'esempio paradigmatico di questa brillante politica. Un'orchestra e un coro più che dignitosi? Certo, ma se fossi un fiorentino, o un napoletano, o un seguace di SantaCecilia mi offenderei a morte, al sentirli definire come di livello superiore. Il Direttore? Uno dei migliori, fuor di dubbio, ma quelli che dirigono al Maggio, al Regio, all'Opera, al Massimo (e resto in Italia!) cosa sono, baluba? I cantanti? Pochi discreti (uno ottimo, per carità) altri promettenti, ma dov'è, caro Lissner, l'eccezionalità?
Intendiamoci, sul piano musicale non sono certo io a fare lo schizzinoso (rilevo solo che chi se ne intende davvero non è propriamente entusiasta): questa Carmen mi è abbastanza piaciuta alla radio il 7 e mi è sufficientemente piaciuta ieri sera al Piermarini. Ma il pretendere che debba fare storia (eh no, caro Daniel!) è un'assurdità, un puro slogan propagandistico, messo in giro da chi ha interesse ad ottenere privilegi che non mostra di meritarsi.
Tanto per chiudere il discorso sul fronte musicale, dirò che Kaufmann è stato superlativo, ma è stato anche l'unico a superare il livello di discreto. Ahinoi l'ascolto dal vivo ha dato responsi peggiori di quello radiofonico per quasi tutti gli altri, a partire da Schrott per finire alla Damato. L'Anitona per radio mi aveva impressionato; non così dal vivo; ha una voce potente, che passa sopra qualunque fracasso orchestrale, ma ciò non basta a farne (ancora) una grande cantante. Avevo sperato che fosse stato l'appiattimento dei suoi della ripresa radio, invece ho dovuto constatare che la ragazza ha un'emissione monotòna, uniforme, ergo senza espressività (non parliamo poi della recitazione, ma qui la regìa non può andare immune da colpe).
Ecco appunto, la regìa. È quell'ingrediente con cui si può surrettiziamente stupire (quando non si riesce a farlo sul piano musicale) come vorrebbe fare Lissner per accaparrarsi tutto il malloppo dei pubblici sussidi. E ci sono due modi per farlo: uno lo chiamerò à la Herheim (vedi il Parsifal in cartellone a Bayreuth) o anche à la Carsen (ad esempio la sua Alcina) dove il regista stravolge totalmente l'originale, ma almeno costruisce attorno alla sua brillante idea una nuova opera d'arte. L'altro è quello à la Bieito (prendere una regìa delle sue a scelta, tanto son tutte uguali) dove si dà gratuitamente scandalo con qualche spruzzata di sesso e volgarità o con invenzioni demenziali. Ecco, la Dante ha mostrato di non saper seguire né l'una, né l'altra strada (né, è pacifico, quella maestra, che consisterebbe nello studiare libretto e partitura e agire di conseguenza).
Nelle Note di Regìa sul programma di sala, la Dante espone il suo Konzept. Una sola frase (Il mondo fanatico e conservatore in cui vivono i protagonisti dell'opera è in totale contrapposizione con quello di Carmen) la dice lunga sull'approccio tenuto dalla regista nei confronti del capolavoro di Bizet. (A proposito del programma di sala, vi compare il classico refuso: bara invece di vara. La nostra non ha neanche rivisto la bozza, evidentemente. Un'altra topica – in un pezzo pregevole - ce la offre anche Rostagno, quando afferma che, in Mérimée, Carmen non appare mai direttamente, ma solo nella descrizione di José: che il nostro abbia letto solo il Capitolo III del racconto?)
E come mette in essere la sua idea, la nostra regista? Portando in scena e in primo piano la religione (come espressione di quel mondo fanatico e conservatore di cui sopra): qualcosa che Bizet e i suoi librettisti avevano accuratamente e deliberatamente ignorato. Questa Carmen è letteralmente infestata da simboli religiosi, materiali (carri funebri, croci, cotte, candelabri e turiboloni) e antropologici (suore, preti, chierici e prefiche nere, bianche, anziane e giovinette). Ora, bisogna sapere che nella Carmen di Bizet la religione non ha alcun posto. Pochi, remotissimi riferimenti: nel dialogo – che del resto viene quasi sempre tagliato, ed è stato tagliato anche in questa edizione – fra José e Zuniga, laddove Josè dichiara di essere cristiano e che la famiglia avrebbe voluto farne un ecclesiastico; nel racconto di Micaëla, che ricorda l'uscita dalla cappella con la madre di José. E nel monologo della stessa ragazza, al momento di affrontare – da sola – il poco rassicurante ambiente dei contrabbandieri.
Non solo. Nel racconto di Mérimée, che la regista deve avere letto e introitato assai più della partitura bizetiana, troviamo soltanto pochi passi che chiamano in causa la religione e la chiesa: le visite dell'autore al Convento dei Domenicani di Cordoba e le due di Josè in anonime chiesette, l'ultima delle quali poco prima del tragico epilogo. Nel racconto, prima di portarla nel bosco dove la ucciderà, Josè si reca in una piccola pieve di campagna e fa dire una messa votiva – a futura memoria – per Carmen. È una scena di grande umanità, non c'è presenza della Chiesa, delle sue liturgìe, dei suoi candelabri e dei suoi turiboli… solo quella della religiosa compassione del solitario prete che accoglie la richiesta di José, senza fargli domande se non proporgli di aprire la sua anima e ascoltare i consigli di un cristiano. E il racconto di José si conclude proprio con un ringraziamento ed un apprezzamento per la pietà e la misericordia di quell'anonimo curato di campagna. Il volto umano, caritatevole, della religione.
In questa Carmen invece la religione, anzi il suo potere temporale, rappresentato dalla burocrazia (più che dalla gerarchia) ecclesiastica, e dalle sue espressioni più vuote (carri e prefiche) la fa da padrone. Due esempi? L'accostamento di potere religioso e potere economico, il cui torbido legame è impersonato dalla divisa conventuale delle sigaraie; e quello fra religione e civiltà, rappresentato dalla presenza dei simboli più frusti della prima in una delle espressioni peculiari – per quanto discutibili - della seconda: il mondo della corrida.

Quanto al resto, troviamo in questa regìa – e nelle scene - delle invenzioni di gusto assai discutibile. Qualche esempio: una donna gravida che partorisce per strada – sotto gli occhi di Moralès e compagni che sghignazzano indifferenti e fanno commenti sui passanti; i battitori ambulanti di tappeti; i vecchi sudati che – a bocca aperta - si fanno aria con i ventagli; i pastrani made-in-DDR di cui sono vestiti i soldati del reggimento di Alcalà; la messa recitata in occasione del duetto José-Micaëla; le due enormi e lunghissime funi che, appese in alto, trattengono Carmen (e Josè) al momento del suo arresto; gli ascensori che conducono alla taverna di Pastia (lasciamoli ai simpatici della Fura, please); i contrabbandieri del terzo atto, avvolti di stracci e cartapesta in modo da sembrare alberi; l'enorme letto in cui viene sepolta Micaëla; i macabri ex-voto che vediamo fuori dalla plaza-de-toros. E mi fermo qui, per non annoiare anche chi non ha avuto la possibilità di farlo, non essendo presente in teatro.
I riferimenti a Mérimée sono parecchi e sempre e regolarmente finiscono col degradare il livello estetico (non parliamo di quello artistico…) della messa in scena. Ad esempio, il bagno delle suorine-sigaraie proprio sotto gli occhi dei maschi concupiscenti, nel primo atto, non è mica una geniale idea della regista, ma viene dal racconto. Perchè è lì, proprio nella prima pagina del capitolo II, che la Dante ha trovato – non a Siviglia, ma a Cordoba – la sua brillante ispirazione. Peccato che il raffinato Mérimée paragoni le fanciulle che si spogliano e si bagnano nel Guadalquivir – nella serotina penombra dopo l'Angelus e osservate da lontano, in modo solo immaginifico, da una moltitudine di uomini – a Diana con le Ninfe! La scena della fuga di Carmen, finale Atto I, non è quella di Bizet, ma di Mérimée, laddove José, rialzandosi dopo la spinta della gitana, blocca di fatto i commilitoni accorsi per catturarla: cosicchè ciò che vediamo ha semplicemente del comico, o dell'incomprensibile.
Ci sono poi forzature indebite, rispetto all'originale, che nascondono forse, o senza forse, messaggi di ribellione politica. Ad esempio il cambio della guardia. Una scena in cui Bizet (e i suoi librettisti) hanno mirabilmente inventato la presenza dei bimbi che marciano e cantano imitando i militari, per colorire in maniera brillante, originale, leggera, simpatica e musicalmente deliziosa un momento dell'Opera che altrimenti sarebbe da Operetta. Cosa vediamo invece? Arrivare dei bimbi vestiti da militari e, con loro, altri vopos mediterranei, che si portano in spalla altri bimbi, che sarebbero poi loro stessi prima di asservirsi per due piastre al lurido potere! Manco a dirlo, la straordinaria freschezza dell'originale bizetiano va a farsi benedire, insieme con il piacere che dovrebbe creare nello spettatore: un grazie di cuore alla regista.
Poi la scena della lite nella manifattura. Attenzione: nell'originale, la zuffa semi-cruenta coinvolge esclusivamente Carmen e Manuela; le altre sigaraie, divise in due fazioni (pro-Carmencita e pro-Manuelita) si limitano ad urlarsi addosso, e ad imprecare contro i militari. Nessun cenno, neanche minimo, a zuffe e accapigliamenti fra loro (neanche in Mérimée, attenzione!) Il libretto effettivamente recita, a proposito delle sigaraie: Elles sont malmenées par les soldats, quindi un poco di violenza qui ci deve essere, sono i soldati che cercano di allontanare le sigaraie che premono su di loro. La Dante, inventandosi un realismo degno di miglior causa, ci propina invece una indisponente gazzarra fra le ragazze, con tiramenti di capelli, scazzottature, calcioni e colpi di karatè e poi ci mostra una carica di polizia assai violenta e disumana da esser degna di quelle del famigerato – suo conterraneo - Mario Scelba, anni '50 (mancano solo le camionette usate come testuggini). Un accanimento davvero morboso, del tutto sopra le righe (anzi, i righi di Bizet) gratuito e quanto mai fuori luogo.
Nel finale dell'Atto II tutti cantano la liberté. Ma sappiamo, da ciò che abbiamo sentito prima, che trattasi della libertà esistenziale e comportamentale di Carmen, oltretutto usata qui strumentalmente e subdolamente dalla gitana per convincere Josè ad arruolarsi fra i briganti del Dancaïre. Invece in scena vediamo una specie di parata, di dimostrazione di un gruppo anarchico che inneggia alla libertà contro un fantomatico potere, coltellacci librati in aria.
I personaggi si muovono o poco o male. Intanto c'è troppo spesso troppa gente in scena, che vaga qua e là solo per movimentare l'atmosfera, con effetto distraente. Carmen è spesso e volentieri piantata come una cariatide (con le mani sui fianchi, vedi Habanera) oppure assume atteggiamenti volgari, fuori luogo e soprattutto infedeli rispetto all'originale: ad esempio nel terzo atto, quando fa le moine a Josè, prima di mandarlo a quel paese, oppure - caso eclatante - nell'ultima scena, dove lei dovrebbe sempre sdegnosamente tenere a distanza Josè, mentre invece sembra addirittura adularlo, per poi stenderlo al suolo con mosse di karatè. Lo stesso mezzo stupro a cui assistiamo è di quelli – il gentil sesso non me ne abbia – che in tribunale vedrebbero lo stupratore assolto perché la stuprata era consenziente!
Micaëla, oltre a tirarsi dietro il codazzo liturgico, fa sempre la parte della donnicciola insignificante, che ha un solo obiettivo: accasarsi. Nulla di più lontano dall'originale bizetiano. Non vorrei fare sotterranee insinuazioni, ma a me pare che sia, nell'Atto I, la Dante a 17 anni e, nell'Atto III, la Dante di oggi, con tanto di mèches bianche…
Le scene? Lo scenografo Peduzzi non è da meno, presentandoci sempre e puntualmente e immancabilmente e pervicacemente l'esatto contrario di ciò che il libretto prescrive (vecchio vizio questo, che si porta dietro dal lontano 1976, Ring del centenario a Bayreuth, e di cui non è andato immune col recente Tristan scaligero). Per la scena che apre l'Opera è stato – dal nostro – riciclato un pezzo dell'orrendo e tetro muraglione dell'altrettanto orrendo Tristan, tuttora custodito all'Ansaldo (così il sovrintendente ha potuto risparmiare qualcosa). Già questo dovrebbe far nascere dei sospetti. Dopodichè, se chiediamo a 100 persone come si immaginano la scena, avendo letto il libretto ed ascoltato la musica (un leggero allegretto in SIb, sul quale i militari se la spassano a guardare l'andirivieni dei passanti) 99 diranno che Peduzzi deve aver capito male, convinto di dover inscenare Il Castello di Barbablu. Oppure ancora che la scena debba essere stata estratta a sorte, pigliando un bigliettino dal cappello, fra altre 150-200 possibili, ma nessuna che avesse minimamente a che fare con l'oggetto del lucroso contratto con Lissner. Poteva uscirne indifferentemente una palestra di body-building, una stradina di Nieuwmarkt (ai tempi…) o il mercatino di Touggourt, una favela di SaoPaulo, o anche una delle banlieue tanto care a Sarkozy. I muri che troviamo nella Carmen di Bizet sono quelli della Siviglia del 1820 che – per l'epoca – dovevano essere di sicuro della massima modernità. Quelli di Peduzzi sono invece ciò che resta e si vede (o si vedrebbe oggi) di quei muri, dopo 200 anni! E ciò dicasi per tutte le scene dell'Opera. Una pura e semplice idiozìa. L'idea dei contrabbandieri-albero sarà di Dante o di Peduzzi? Di Duzzi o di Pedante? Fatto sta che è una ridicola parodia della foresta di Birnam (che qualcuno pensasse di dover inscenare Macbeth? chissà…)
***
Conclusioni e morali?
Il recente scandalo di Zeffirelli, che contemporaneamente insulta la Dante ma fa ancor peggio di lei, decretando l'ostracismo contro cantanti pur graditi al Kapellmeister e ad una folla di ammiratori, è solo l'ultima dimostrazione dell'effetto deleterio indotto dal potere che da anni i sovrintendenti (e Lissner è solo un follower, in ciò) hanno assegnato a chi – invece di serviresi serve dei capolavori del teatro musicale per arricchirsi e/o ottenere notorietà, realizzando a buon mercato le proprie opere d'arte, o le proprie stronzate: i registi.
È ciò che abbiamo vissuto con questa Carmen: ci è stata propinata un'accozzaglia di banalità infantili, luoghi comuni, stupide allusioni, imbecillità travestite da intellettualismo. Un ciarpame che purtroppo il nostro infernale sistema farà immeritatamente sopravvivere in DVD, che apporteranno ulteriore miseria alla nostra già declinante cultura.
C'è solo da augurarsi che i giovani, i nostri figli - magari solo per ignoranza, beata, santa e benedetta, in questo caso! - scarichino in una cloaca tutta questa fuffa. E che i boiardi che siedono sulle sovrintendenze delle Fondazioni abbiano un sussulto di dignità.

07 dicembre, 2009

Radioascolto di Carmen a SantAmbrogio


Premessa noiosa, scontata, ma doverosa. L'ascolto meccanico permette giudizi molto precisi su alcuni aspetti, mentre ne esclude categoricamente su altri dell'esecuzione.

Quindi, nessun commento sulla penetrazione delle voci, né sul dosaggio orchestra-canto. Menchemeno sulla regìa, che – a volte per fortuna – in radio non conta.
Detto ciò, mi dichiaro molto, ma molto (non estremizzo mai, per naturale costituzione) soddisfatto.
Barenboim ha diretto da par suo: in tre ore gli dovrei fare un piccolissimo appunto, riguardo a tempi ed agogica. E sul Kapellmeister non aggiungo altro.
Qualche dettaglio tecnico su ciò che è stato tagliato, rispetto alla partitura in versione Didion, che personalmente mi è parsa di gran lunga la migliore di quelle precedentemente in circolazione (Guiraud e Oeser).
Non cito le righe di dialogo, poiché i nostri gusti moderni ce lo rendono indigesto (ne avremo sentito forse il 10%). Invece il taglio – consueto, del resto – della Pantomime (N°2 dell'Atto I) rimane per me discutibile. La scusa che non sia grande musica non regge, chè allora sarebbe da tagliare anche la scena precedente. Invece il taglio rende ridicoli i tempi dell'azione: Micaëla si è appena allontanata, visto che manca ancora tempo per il cambio della guardia. Ecco, la Pantomime serve a far passare quel tempo. Senza di essa, abbiamo l'incongruenza del cambio della guardia che avviene mentre la ragazza sta ancora uscendo dietro le quinte.
Poi è eliminato l'intermezzo della scena dei bambini, dove c'è il dialogo Moralés-José (e questo non crea particolari problemi).
Nel secondo atto è tagliata l'uscita di Escamillo dalla taverna (indicata in partitura come N°14 bis): qui ci sarebbe da discutere, sono solo 20 battute, con una bella cadenza sul tema del toreador. Forse c'entra anche la regìa, chi lo sa.
Infine: espunte le 32 battute del preparativo del duello fra Escamillo e Josè (qui si potrebbe discutere sull'efficacia del taglio).
Le voci (sempre col beneficio d'inventario). Anitona davvero sorprendente, se in teatro si sente come in radio, direi superba: farà strada, la cenerentola georgiana! Kaufmann rende bene quando deve affrontare impervie difficoltà, forse è meno appariscente nella zona centrale, ma in complesso mi è parso un gran Josè. Meno entusiasmante Schrott, che forse ha esagerato nell'applicare le indicazioni di Bizet (cantare con fatuità…) La Damato non mi è dispiaciuta (salvo qualche tendenza ad urlettare in alto) in specie nel terzo atto. Gli altri han fatto la loro onesta parte, con una citazione per Frasquita-Losier e Mercédès-Kučerová nella scena delle carte.
Della regìa si son sentiti …i buuh, ma sarà oggetto di tomografia assiale computerizzata il 18 prossimo venturo.

06 dicembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 7


In attesa di scoprire l'acqua calda (il Kaufmann immaginario) continuiamo a girare attorno a questa Carmen che – oltre ai congeniti problemi legati alla sua gestazione, parto e svezzamento – presenta curiosità ed interrogativi più o meno rilevanti: soprattutto per la regìa e le scene. Parliamo dell'ambientazione, in particolare dell'atto iniziale.
Intanto, sappiamo per certo di essere a Siviglia, verso il 1820. Notare: l'opera viene rappresentata nel 1875, quindi narra fatti (autentici o inventati da Mérimée poco importa) abbastanza recenti, per l'epoca, ed ambientati in un posto perfettamente determinato e conosciuto. Insomma, non è la Siviglia di cartapesta di Rossini o di Mozart, è proprio la Siviglia reale, con i bastioni e il Guadalquivir; è come se oggi si presentasse una nuova opera che prende lo spunto, che so, dal giallo del caso Montesi. Orbene, sembrerebbe intelligente ambientarla (luoghi, personaggi, tipo di vita, società, usi-e-costumi) a Roma e dintorni, e non in Sicilia o in Africa.
In quale periodo dell'anno? Non si sa, né dal libretto, né da Mérimée. Possiamo immaginare, ma solo ipotizzare, che sia una stagione calda, dato l'abbigliamento di Carmen, ma soprattutto la dovizia di fiori con cui essa è acconciata. Peraltro, nel sud della Spagna anche l'inverno è relativamente mite…
Quanto dura, in tutto, la Carmen? Nel racconto di Mérimée dura presumibilmente parecchi mesi, come minimo, stando alla catena di fatti, imprese, crimini, incontri, omicidi e amori che vi sono descritti. Nell'Opera? Di sicuro passa un mesetto fra il primo ed il secondo atto (la prigionìa di José); un tempo indeterminato (la vita presso la base dei contrabbandieri, in montagna) separa secondo e terzo atto, quindi passa ancora un po' di tempo – sempre indeterminato - fra il terzo e il quarto (il soggiorno di Josè, latitante, presso la madre).
In quale ora della giornata si apre l'Opera? Non lo sappiamo, è un'ora in cui la piazza è affollata da ogni genere di persone più o meno indaffarate o bighellonanti; ma questo ci dice ancora assai poco: si potrebbe tranquillamente andare dalle 10 del mattino alle 10 di sera… Sappiamo poi che si è in prossimità di due eventi: il cambio della guardia e il rientro in fabbrica delle sigaraie, dopo la pausa-pranzo. Quando cambia la guardia? A mezzogiorno, alle tre del pomeriggio, alle sei di sera, a mezzanotte? Nessun indizio, salvo il fatto però che ci sono molti bambini per strada, il che lascerebbe escludere la tarda serata e la notte.
Quanto alla pausa-pranzo, stanti le usanze ispaniche, potremmo collocarla al massimo attorno alle 3-4 del pomeriggio. A proposito, sia nel libretto di Meilhac-Halévy, che nel racconto di Mérimée (o meglio, nel racconto che Josè fa allo scrittore, dove aggiunge un altro particolare, che ci aiuta poco, peraltro: si è di venerdì) leggiamo che le sigaraie tornano in fabbrica après leur dîner. Che oggi significherebbe dopo la loro cena, non dopo il pranzo (o colazione di mezzodì) che in francese sarebbe déjeuner. Fosse così, avremmo tutto il primo atto ambientato di notte. Ma non è così (basta avere un/a francesista in famiglia per arrivarci): la distinzione fra déjeuner e dîner è subentrata nella lingua dei simpatici gallinacei molto dopo il 1800; ai tempi di Mérimée, Meilhac-Halévy e Bizet, il sostantivo dîner era indifferentemente usato per indicare tutti i pasti della giornata).
Un altro (labile) indizio sull'ora ci viene anche da Micaëla, che dice a José che lei tornerà al paesello la sera stessa (ma non prima di aver fatto compere ed essere tornata al posto di guardia per raccogliere la risposta del – non ancora ex - brigadier Lizzarabengoa alla madre) il che farebbe escludere che sia molto tardi.
In ogni caso, se chiedessimo a 100 persone di leggere il libretto e poi suggerire l'ora dell'inizio dell'Opera, 99 direbbero che siamo in tarda mattinata, primo pomeriggio al massimo, in una bella giornata di sole.
Una sola, anzi due (Emma Dante e Richard Peduzzi) sono invece convinte che si sia in una giornata tetra e plumbea. I pochi secondi di prova generale messi in onda chèz-Fazio ci mostrano infatti una scena assai scura, ulteriormente rabbuiata dai pastrani made-in-DDR (a proposito di profondo sud) di Moralès&C. Giusto così, altrimenti non si spiegherebbe come mai la regìa e le scene siano affidate al duo Dante-Peduzzi, e non ad una qualunque delle altre 99 persone del sondaggio di cui sopra.
Why so? ci si chiede: forse perché noi dobbiamo convincerci che il mondo è brutto, tetro e soprattutto ingiusto; che la Spagna, calda e tutta joie-de-vivre, con annesse passioni ed accoltellamenti, è solo un'invenzione da cartolina (chiedere conferma agli aficionados di Ibiza&Formentera, please) e Carmen deve da subito portarsi la sua fatale croce, senza aspettare quasi tre ore facendo finta di nulla.
Domani sera il grande circo barnum (inclusi i protagonisti del parallelo caravanserraglio transitante nel foyer) si mette in moto sul serio, dopo improbabili anteprime. La (recente) tradizione prevede che qualcuno venga pesantemente contestato. Aspettiamo di sapere chi – su Radio3 - dalla seducente voce della simpatica Gaia.

05 dicembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 6


aperta parente
Se fossi un under-30, con cognizione di causa, oggi mi sentirei francamente preso per il culo. Dico, l'anno scorso il tenore titolare viene all'anteprima-giovani e canta come fosse sotto la doccia, così la sera stessa viene protestato e promosso a coprire il ruolo di buatore del suo sferico sostituto. Quest'anno il tenore titolare, forse un po' superstizioso, pensa bene di darsi malato mezz'ora prima della recita, e così viene sostituito da uno che questa Carmen non potrà mai ammazzarla, visto che ci va a letto una sera sì e l'altra pure.
Intendiamoci, a me monsieur Lissner piace assai, come tutti i francesi quando parlano italiano, inglese o tedesco (o qualunque altra lingua diversa dal loro chicchirichì) ma adesso mi sembra proprio troppo.
Ora, datosi che personalmente sono un under-30 moltiplicato per due virgola qualcosa, a me di tutto ciò, come dicono i miei amici su a Brixen, nun me ne po' ffregà dde meno. Mi accontenterò, modestissimamente, che il 18 corrente mese, quando mi scomoderò su una poltroncina di loggione, mi venga servito un menu appena commestibile. Né ho da rivendicare alcunché a nome delle figlie, loro sì – beate loro – under-30, ma che considerano una serata al Piermarini alla stregua della tortura cinese. Tutto OK!
Però, se qualcuno mi obiettasse che il biglietto per l'anteprima-giovani costava solo 10 euri, gli risponderei con una massima che un mio vecchio amico, autentico maestro di vita, era solito pronunciare 35-40 anni fa: "io, una Trabant, e anche una Skoda (la Trabant dal volto umano, ndr) non la voglio neanche regalata!"
chiusa parente

04 dicembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 5


Visto che la tecnologia moderna ci conferisce il dono dell'ubiquità – basta disporre di un video-recorder – posso fare anche qualche commento alla trasmissione di ieri sera di Fazio, andata in onda mentre mi godevo il concerto di Largo Mahler.
Sensazioni contrastanti, fra l'esultante e il tetro.

L'esultanza deriva dalla constatazione che si è trattato di una straordinaria trasmissione: dico, avere insieme Barenboim, Abbado e Pollini deve essere un record mondiale; poi ospitare la Filarmonica a pochi minuti dall'inizio della generale è comunque un'impresa storica; infine perché i contenuti – grazie all'abilità del conduttore ed all'amabilità degli ospiti (perdoneremo qualche proclama ideologico del grande Pollini…) – sono stati, credo io, dosati al punto giusto per la circostanza e rispetto all'audience.
Tristezza perché si è trattato, temo, di una trasmissione straordinaria, che ahinoi avrà un seguito, se tutto va bene, non prima di una ventina d'anni.
Commoventi le immagini del concerto di Ramallah della Divan (l'alternativa violino-violenza evocata da Barenboim è davvero fulminante) una cosa che si fatica a prendere per vera (non credo sia stata una coincidenza che il filmato si sia concluso sulle note di Nimrod, dalle Enigma di Elgar).
Più coinvolgenti ancora le immagini venezuelane dei bambini di Abreu che cantano, suonano e sollevano i violini in segno di giubilo, con Abbado in lacrime!
Barenboim, da uomo che non simula, né le manda a dire, ha fatto alcune semplici affermazioni: una sul concetto che siamo noi ad aver bisogno della musica e non viceversa; dietro c'era una frecciatina che anche un bambino avrebbe potuto cogliere: bersaglio uno che ha il cognome che comincia con Al e finisce con levi.
Baricco ha fatto pochi danni (ma lui non è quello che propone di azzerare i fondi FUS e di lasciar fare al mercato? Evidentemente non gli fa schifo mandare una parcella alla RAI per un intervento tutto interno e funzionale al sistema vigente).
Sui problemi della regìa, Barenboim ha usato molta realpolitik, mostrando di comprendere le necessità di modernizzare le rappresentazioni, ma stigmatizzando allo stesso tempo certe abitudini (tipiche del Regietheater) dove il regista estrapola dai contenuti originali dell'Opera un particolare e lo mette al centro del suo proprio Konzept, a cui poi asservire l'Opera medesima.
A proposito di regìa, le brevissime immagini che ci sono state mostrate della generale (l'incipit della prima scena) non sono troppo incoraggianti. Il brigadiere Morales e i suoi soldati stanno cazzeggiando, osservando la gente che, sulla piazza, viene e va. Persone aggettivate nel testo come drôles, strane, curiose, divertenti. Orbene, che fra queste ci sia chi porta in giro tappeti da sbattere con scope, chissà, può darsi sia un'usanza del profondo sud, e passi. Ma che subito ci venga mostrata una donna al nono mese di gravidanza (le immagini non sono chiare, ma è forse la stessa Carmen?) che si accascia per strada in preda alle doglie, soccorsa poi alla meglio da altri passanti, io - povero pirla - non riesco proprio a comprenderne il recondito significato. Che, non ho dubbi, deve pur esserci: spero nella compassione di qualche amico che me lo venga a spiegare… altrimenti mi sforzerò di arrivarci da solo in teatro, purtroppo non prima del 18 prossimo venturo.
Da ultimo, amici che hanno assistito alla generale mi assicurano di un livello di esecutori (maestro, orchestra, coro e – soprattutto – cantanti) di altissima qualità. Se è così, non c'è regìa che possa rovinare la Carmen.

01 dicembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 4


Sulle possibili dissacrazioni o scandalose interpretazioni di cui potrebbe essere oggetto la prossima Carmen alla Scala si è scritto e letto parecchio. Va da sé che solo le rappresentazioni si potranno giudicare, nel bene e/o nel male.
Intanto però – a mo' di passatempo - è possibile stabilire che cosa non dovrebbe essere un'interpretazione dell'opera, che non voglia smaccatamente stravolgerne le caratteristiche fondanti. Vediamo quindi quali sono queste caratteristiche.
Intanto una considerazione generale: potrebbe sembrare un'ovvietà, ma va tenuto presente che la Carmen in cartellone è quella di Meilhac-Halévy (libretto) e di Bizet (musica). Non è quella di Mérimée, tanto per essere chiari. Anche se quest'ultima fornì l'ispirazione a Bizet e ai suoi librettisti e - paradossalmente – fu amatissima dal compositore. Ma quella che Meilhac-Halévy scrissero e che Bizet mise in musica è totalmente altro dalla novella di Mérimée. Per usare un linguaggio chimico, o gastronomico, la Carmen di Mérimée è composta per il 20% di leggerezza ed esteriorità e per l'80% di vicende della mala, drammi, psicopatie e tragedia; quella di Bizet ha ingredienti in proporzioni esattamente ribaltate: 80% commedia e 20% tragedia e dramma. E poco ci debbono interessare le ragioni di questa diversità; che risiedano nella sensibilità del musicista e dei suoi librettisti, o nella bigotteria e nel conformismo dei responsabili del Teatro che aveva commissionato l'opera, o nei divieti della censura, o in tutte queste cose messe insieme e in altre ancora, resta un fatto: la Carmen di Bizet è fatta così e non cosà. E al pubblico – o almeno a quella parte di esso che paga il biglietto per vedere e sentire la Carmen di Bizet – non dovrebbe essere propinata una sua versione adulterata, per quanto rifacentesi alle remote fonti che la ispirarono. Sarebbe come se, dovendo inscenare Die Walküre, invece dei testi e dell'intreccio di Wagner, si impiegassero quelli della Völsungasaga, alla quale Wagner pur vagamente si ispirò: sarebbe una stupidaggine, pura e semplice (ahinoi, la realtà ci dice che di simili stupidaggini se ne sono viste già fin troppe, e ciò dovrebbe essere un buon motivo per non perpetrarne di nuove).
A proposito di commedia, subito il primo atto dell'opera ci introduce nella vita di tutti i giorni di una città, con "gente che viene, gente che va", e persino con un siparietto (la Pantomime, sempre in bilico fra l'essere eseguita o espunta) una specie di gag, di scenetta davvero degna di Totò: un attempato signore che passeggia con una bella e giovane donna e si imbatte nell'amante di lei che lo buggera indicandogli l'uccellino, mentre lui passa furtivamente un biglietto d'amore alla donna. Essendo ambientato a Siviglia, potrebbe persino essere una specie di citazione rossiniana, protagonisti Bartolo, Rosina e Lindoro. Insomma, un fatto che nulla ha a che fare con la vita - menchemeno con il dramma – di Carmen, ma che rende bene l'idea della generale ambientazione leggera dell'Opera. La vita quotidiana continua a scorrervi, dall'inizio alla fine, senza che nulla cambi o mostri di cambiare, fra gente che fa il suo lavoro e si diverte e altra che sbarca il lunario con attività più o meno clandestine. È in questo quadro che si inserisce la storia a fine tragico di Carmen e José, come fosse una vicenda di cronaca nera, di quelle che occupano forse la prima pagina della locale gazzetta per un paio di giorni, dopodiché tutti riprendono le loro attività o – come i soldati - il loro passatempo di osservare la gente che viene e che va. Ciò ovviamente non significa che si debba inscenare un banale stereotipo di Spagna vista con occhi francesi; ma qualunque forzatura, in senso socio-politico, di questo quadro sarebbe del tutto ingiustificata e fuori luogo.
Mentre nel racconto di Mérimée la tragedia ci viene annunciata assai presto, e il seguito altro non è se non un lungo, dettagliato e mediamente tetro resoconto dei fatti, avvenimenti e sentimenti che l'hanno determinata, nella Carmen di Bizet il finale drammatico non è per nulla prevedibile fin dall'inizio: l'opera – e questa è la sua caratteristica peculiare, che ne fa un capolavoro - si muove attorno ad un progressivo cambiamento di atmosfera, che va dal fatuo clima da operetta (all'inizio ci sembra di essere al Paese dei campanelli…) che nulla di tragico lascia presagire, a quello equivoco, ma anche sanguignamente pomposo, che comunque comincia a preoccupare (Pastia) a quello notturno e tenebroso presso la base dei contrabbandieri, al presentimento di morte (le carte) di Carmen e finalmente sfocia nella catastrofe (anche questa peraltro incastonata in una festa di popolo). E questo è anche il percorso che - grazie alla musica di Bizet - lo stato d'animo dello spettatore dovrebbe seguire. Se invece – fin da subito – la scena fosse occupata da segnali, o simboli, o riferimenti al tragico finale cui Carmen e José sono predestinati, sarebbe come se – in un film poliziesco – già alla sua prima apparizione il colpevole venisse identificato e poi perennemente seguito da un simbolo, una freccia o una didascalia! Daremmo subito del matto a quel regista, credo!
Ora passiamo al paesaggio. Siviglia non è più vincolante per Carmen, José, Escamillo e Micaëla di quanto lo sia per Figaro, Rosina, Lindoro e Bartolo. Manifatture di tabacco, locande equivoche e contrabbandieri sono sparsi sull'intero pianeta; e ogni paesotto ha il suo presidio di militari, polizia o carabinieri. Attenzione però: uno dei personaggi di Carmen fa di professione il torero, tutti cantano a squarciagola Toreador, e il finale dell'opera è precisamente ambientato nei pressi di una plaza-de-toros. Allora, tanto per dirne una, domandiamoci quale senso avrebbe un'ambientazione messa in un impianto sportivo diverso (ad esempio un autodromo dove corresse un campione di Formula1 a nome Escamillo, oppure un palazzo dello sport dove si tengono incontri di pugilato) ma dal quale arrivassero le note del coro che canta: "Viva! è bella la gara! Viva! Sanguinante sulla sabbia, il toro si slancia! Guardate! Guardate! Il toro punzecchiato a balzi si slancia!" Ma anche la corrida ambientata in un posto tipo Ghardaia sarebbe difficile da giustificare, non meno di quella ambientata a Cinisello Balsamo. Insomma, da Siviglia si potrebbe anche traslocare, ma per ragioni che andrebbero ben dimostrate, e non per il solo gusto - preteso innovatore - di ambientare la vicenda da qualche altra parte, o in nessun luogo preciso. E poi comunque Carmen canta "Près des remparts de Séville"… o cambiamo anche il testo in "Près des remparts de Ciniselle"?
Veniamo ai personaggi. Le sigaraie entrano in scena facendo le civettuole con i ragazzi e cantando in uno spensierato MI maggiore, leggero come il fumo che espirano! Se hanno dei problemi, come si vedrà nella scena della lite, questi non sono certo di tipo sindacale né politico, ma trattasi solo di stupidi screzi basati su altrettanto futili sottintesi e doppisensi. Finchè sono in scena non fanno che mostrare allegria e gioia di vivere, nessuna si lamenta più di tanto per via del lavoro faticoso e alienante. Insomma, qui non c'è nemmeno l'ombra di problematiche socio-politico-rivendicative, non c'è ombra di femminismo; c'è solo femminilità - magari vuota e stupidella – ma null'altro! Infilarci dell'altro sarebbe operazione arbitraria, ingiustificata e, in fin dei conti, falsificatoria.
Carmen – basta leggere il libretto e ascoltare la musica – è un personaggio che non cambia mai. Lei è sempre la stessa: da quando la si vede entrare in scena – anzi da prima ancora, quando solo se ne avverte la presenza – a quando finisce ammazzata all'ultimo. Assolutamente nessun mutamento nel suo approccio esistenziale, nelle sue idee, nei suoi convincimenti. E nelle sue superstizioni. Lei è già – è stata da sempre – una donna libera ("Libera è nata, e libera morrà") ed è matura alla sua maniera, compresi gli aspetti patologici di questa sua maturità; dalla vita non ha nulla da imparare, nulla vuol imparare e nulla infatti impara. Anzi, è pervasa da un fatalismo che le impedisce di fermarsi un solo secondo a ragionare. Ecco: se ci venisse propinata una Carmen che, in qualche modo, fa tesoro di esperienze, matura convinzioni, insomma si emancipa, questo sarebbe un autentico tradimento del capolavoro di Bizet (e nemmeno sarebbe fedele a Mérimée, per la verità).
Qualcuno ha voluto fare paralleli fra Carmen e Violetta: forse epidermicamente ve ne possono essere, ma nella vera sostanza le due donne sono agli antipodi. Perché, a differenza di Carmen, Violetta cambia, matura, scopre che la vita le può offrire un'altra, insperata e meravigliosa alternativa. Carmen, di amore – vuoto, effimero? forse, ma certamente suo - ne ha quanto ne vuole, decide lei come prenderselo. Violetta l'amore non lo conosce, ma quando lo scopre quasi se ne stupisce e decide di mutare radicalmente la sua vita. Carmen non segue i contrabbandieri per amore della vita clandestina e della libertà (la sua libertà lei la vive da sempre) e menchemeno per amore di José, ma solo perché la gratifica il ruolo che lei sostiene nell'organizzazione della banda del Dancaïre, dove le viene affidato un compito che è pienamente affine alla sua natura: circuire con le sue moine qualche doganiere per distoglierne l'attenzione dal Dancaïre medesimo e dai suoi soci. Vissuta l'esperienza, torna subito in città, dove la aspetta la nuova, ennesima avventura, con Escamillo stavolta. Il trasferimento di Violetta in campagna, con Alfredo, è invece una decisione definitiva, esistenziale, duratura, che verrà vanificata solo dall'intervento prevaricatore del vecchio Germont. Carmen non esita a dire in faccia a Josè una verità nuda e cruda: lei non lo ama più (perchè il suo nuovo amore è il torero). Violetta invece, dopo il ritorno nella vita parigina, addirittura simula il suo comportamento leggero per indurre Alfredo a disprezzarla e quindi dimenticarla, e lo fa al solo scopo di compiacere il padre di quello stesso uomo che lei continua ancora e sempre ad amare.
Ora, ci venisse proposta una Carmen Violetta-like, ci sarebbe da sporgere denuncia…
Anche José, al contrario di Carmen, è uno che cambia, e parecchio! Ma come e perché cambia? Cambia perché è immaturo, debole e psicologicamente indifeso. Cambia perché si fa trascinare dalla pura e semplice (e per di più devastante) passione. E, attenzione, lui cambia, ma non matura! Se c'è qualcosa che manca totalmente nei suoi comportamenti, è la coscienza della sua situazione. Lui resterà fino alla fine un povero bamboccio ingenuo, in balìa di tempeste psichiche, col cervello atrofizzato. Quando decide di seguire i contrabbandieri, non lo fa certo per aver maturato convinzioni politiche rivoluzionarie, ma solo per sfuggire ad una punizione e – soprattutto – perché attirato dall'idea di poter stare – per tutta la vita, povero illuso! – con la bella gitana. Lui è vittima inconsapevole e beota del tranello (la libertà!) tesogli da Carmen, che sarà pure invaghita di lui – temporaneamente – ma che sta di fatto eseguendo gli ordini del Dancaïre, che ha bisogno di reclutare forza fresca per le sue criminose imprese. Ecco: se ci venisse proposto un Josè che matura, che scopre le ingiustizie e i mali del sistema, a cui decide di ribellarsi, questo sarebbe un disastro, una totale adulterazione dell'essenza del personaggio.
Escamillo è l'altra metà di Carmen. Anche lui si innamora della bella gitana, come Josè, ma lui, come Carmen, è maturo, è un uomo di mondo, abituato a giudicare ogni situazione con grande freddezza (come potrebbe altrimenti affrontare il toro nell'arena?) E sa infatti aspettare pazientemente il suo turno, fin dal primo approccio presso Pastia e anche dopo l'infruttuoso sopralluogo in montagna (dove del resto arriva quasi per caso) e dove canta sì (di Carmen) "io l'amo alla follia", ma senza alcun particolare pathos, con calma e sicurezza, in un tranquillo e per nulla passionale REb maggiore. Tant'è vero che subito se ne torna a Siviglia, dando appuntamento "a chi mi ama" per festeggiare, dopo la corrida. Insomma, è un Dominguin (che molti di noi ricorderanno, e di cui ancora vediamo i figli Bosè in giro): gloria e belle donne; un tipo che molti invidiano e altrettanti compatiscono, fine. È però dotato pure lui di cuore e di sentimenti, è un buono (altrimenti farebbe secco Josè come nulla, nel duello, mentre invece "Io ammazzo tori, non certo esseri umani" gli dice). Il suo tema suonato e cantato sguaiatamente nel secondo atto non tragga in inganno; basterà ascoltare come viene esposto – da violoncelli e clarinetti - nell'atto terzo. Ora, se Escamillo ci venisse invece presentato come un truce, un tipo volgare, becero, prepotente e assetato di sangue, significherebbe non aver capito proprio nulla di lui.
Infine, Micaëla. Lo stereotipo della donnicciola bigotta, tutta casa-e-chiesa, inesperta di mondo e con la mente obnubilata dall'ossessione di accasarsi con Josè, è quanto di più falso e bugiardo si potrebbe costruire attorno al personaggio. Anche qui, basta leggere il libretto e studiare la musica per convincersi che lei sarà sì poco più di una ragazzina, ma sa cavarsela benissimo nella vita (sulle montagne, è più coraggiosa lei della sua guida, e il fatto che il coraggio le venga dalla fede non ne intacca il valore); è insomma una persona matura, pur se con princìpi assai conservatori, ma assolutamente da rispettare. Che poi sia innamorata di Josè sarà pur vero, ma mai lei glielo fa pesare, nemmeno con una parola, perché sempre mette al centro delle sue azioni le cure per la vecchia madre dell'ex-brigadiere, cui deve perenne riconoscenza per essere stata allevata – lei orfanella - come una figlia.
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Ecco, ciò che uno spettatore normale – ma che ne conosce testo e musica - si attende è di godersi l'opera per quello che è, con pregi e difetti, ma con le sue peculiari caratteristiche. Non certo una cervellotica e intellettualoide interpretazione in chiave psico-socio-politico-tragico-esistenzial-verista, con dosatura di ingredienti selon Mérimée. Dateci semplicemente – e sarà già molto, moltissimo - la Carmen di Bizet.
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Visto che siamo in piena vigilia carmenense, mi fa piacere segnalare due blog che trattano dell'argomento in modo simpatico e distensivo: Amfortas, che ci guida nel mondo delle altre Carmen (in attesa di quella che interessa ai melomani) e Milady de Winter, che ha iniziato a proporci una travolgente sinossi dell'opera (c'è da stare davvero in ansia per il finale!)

24 novembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 3

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Due presentazioni intorno alla nuova Carmen si sono tenute ieri e oggi a Milano.

Lunedi, nell’ambito del programma di Conferenze Prima delle Prime, presso il Ridotto Toscanini del Teatro, Quirino Principe ha tenuto una concione dal titolo: “La Distruttrice distrutta, ovvero l'essenza drammatica e musicale di Carmen”.

Il professor Quirino è grande, lo sappiamo tutti, e certo non ci si può aspettare che lui accetti di fare una conferenza su Carmen per raccontarcene l’intreccio, o le fonti, o le versioni circolanti. Il nostro però la prende davvero alla lontana, partendo dall’ostilità di Solone per il teatro e dal disprezzo di Hegel per la musica; poi passa ai significati reconditi dei fiori, ricordandoci che Carmen ne offre uno a Josè (ma tacendo di dire che in realtà glielo tira violentemente in mezzo agli occhi, ndr); poi risale alla fonte-della-fonte di Bizet (la futura moglie di Napoleone III, ispiratrice di Merimée in quel di Granada); quindi passa per le opere dello zio del librettista Halévy (nonché suocero di Bizet); accenna ai tritoni (=diavoli, =inferno, =fuoco) che accompagnano Carmen; spazia sui tre piani dell’amore: libido, eros e agape (sempre visti dalla prospettiva di Josè, dove l’agape peraltro scarseggia). Visto che l’oggetto è Carmen, non tralascia di citare Leonore e lo squillo della trombetta liberatrice di Don Fernando (che in realtà sappiamo essere quella dello scherano di Pizarro, ndr). Chiude poi proponendo un ardito parallelo fra Carmencita e Violetta.

Insomma, un volo talmente alto e pindarico che si è totalmente perso di vista l’oggetto – concreto e immanente - del titolo della conferenza e di ciò che verrà rappresentato a SantAmbrogio. A noi, comuni mortali, sono cadute in testa un po’ di briciole, come quelle che si gettano ai piccioni della vicina piazza Duomo. Ma va bene lo stesso, è tutta cultura!

Un poco più stimolante, appunto in vista della prima, l’incontro tenutosi oggi pomeriggio presso l’Università Cattolica, che ha ospitato i due principali artefici della Carmen 2009, Daniel Barenboim ed Emma Dante. Annessa un’esposizione di documenti (per lo più… contabili!) relativi a due storiche rappresentazioni scaligere: Toscanini del 1906 e Serafin del 1913.

Si può cominciare a farsi un’idea di cosa ci aspetta? (le conclusioni e i giudizi matureranno dopo aver toccato con… occhio e orecchio). Direi di , nel senso che non abbiamo ascoltato clamorose rivelazioni o anticipazioni.

La parte del leone l’ha fatta il Maestro scaligero, che si è esibito, oltre che in un rapido esercizio di Habanera al pianoforte, anche in un meno riuscito numero da giocoliere con bottiglia e bicchiere, finito quest’ultimo a pezzi… A parte ciò, Barenboim ci ha spiegato che Carmen non è un’opera spagnoleggiante, perché contiene appunto la Habanera, ergo ha radici cubane, ergo africane: il triangolo africa-cuba-spagna visto da un francese. Speriamo non sia quello delle Bermude, dove ogni cosa finisce in vacca!
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Interessante la sua difesa dei dialoghi contro i recitativi (pochi saranno in disaccordo, penso): si legge che dirigerà (come già a Berlino) usando l’edizione di Robert Didion, e questo è assai confortante, poiché significa che ci possiamo aspettare una Carmen il più fedele possibile alle intenzioni di Bizet (per quanto il 100% sia escluso matematicamente, date le travagliate circostanze di cui l’Opera fu vittima).

In sostanza dovremmo sentire ciò che l’Autore aveva deciso di proporre al pubblico dopo le prove in vista della prima (e non ciò che altri, dopo la sua scomparsa, decisero di propinarci, per più di un secolo!) Dopodichè Barenboim ci metterà la sua sensibilità e il suo approccio interpretativo, e lo si giudicherà dal risultato, ma insomma, intanto la materia prima impiegata appare come la più genuina, o la meno adulterata. Ed è già un punto a favore del Kapellmeister. Che ha poi spiegato – ma era cosa risaputa - la circostanza in cui ha scelto la nuova Carmen, scherzosamente definendosi – a proposito di scoperte – come un tale del 1492. Rispondendo ad una domanda, ha spiegato che la differenza fra il suono di un clarinetto della Unter den Linden e un clarinetto della Scala dipende dal fatto che il berlinese suona Schwester, mentre il milanese suona sorella!
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Al termine, in riconoscimento della preziosa opera di civiltà che il Maestro porta avanti con la Divan, l’Università gli ha consegnato una nuova Borsa di Studio che permetterà ad un altro giovane di laggiù di emanciparsi.

Vengo ora alla più attesa protagonista dell’incontro: Emma Dante. Devo dire che, forse oscurata dall’esuberante personalità del Maestro, la bella sicula dalle bianche mèches ha parlato poco, e quel poco è stato piuttosto scontato, non dico banale: grande onore essere alla Scala, grande emozione alla prima visita al Teatro, Carmen grande opera, da interpretare guardando avanti (!?) ed altre frasi di circostanza. Per me però è stata sorprendente una sua promessa, fatta subito, di botto, quasi una excusatio-non-petita: nella mia Carmen non ci saranno né vare, né suore.

Ecco, per oggi è la notizia più confortante, poiché della Habanera cantata da una suora davvero non si sentiva la mancanza.
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17 novembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 2

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Le vicissitudini di Carmen sono ampiamente note, ma anche tremendamente ingarbugliate, per cui ogni nuovo allestimento suscita immancabilmente la domanda: ma quale Carmen ci verrà propinata?

La versione originalmente fatta rappresentare – con scarso successo, peraltro - da Bizet, leggera e piena di humor, a dispetto del finale tragico? Se sì, infarcita di quanti dialoghi? (saranno anche raffinati, ma il Singspiel a noi moderni sta abbastanza sullo stomaco…)

Oppure si darà quella – più pesante, predisposta per il mercato tedesco, tutta spostata sul lato drammatico - di Ernest Guiraud, che è stata la più eseguita in assoluto, fin dagli anni immediatamente successivi alla prima del 1875, con i recitativi da lui musicati (essendo nel frattempo scomparso Bizet) al posto dei dialoghi originali?

Oppure si eseguirà la versione critica di Fritz Oeser (1964) che in sostanza riprende il manoscritto originale, senza però tener conto del fatto che Bizet lo aveva subito rimaneggiato, soprattutto alleggerendolo, durante le prove in preparazione della prima?

Un’edizione più recente della partitura – Schott, 1992 - è opera di Robert Didion (scomparso nel 2001): rifiuta in blocco (come Oeser) gli interventi di Guiraud, ma tiene conto di quelli – determinanti – che Bizet effettuò in vista della prima, e che riportò sull’edizione per voce e pianoforte.

Da ultimo, Richard Langham Smith ha prodotto una nuova edizione per Peters - sempre sconfessando Guiraud - utilizzata anche di recente a Parigi.

C’è poi da qualche parte anche una versione Guiraud, ma senza la musica di Guiraud, sostituita da un’altra appositamente commissionata dall’Opera di Baltimore a …nientedopodomanichè Giovanni Allevi! (il nostro è già arrivato in Senato, non scordiamocelo, quindi attenti a non sottovalutarlo…)

Viene infine da tremare al pensiero (leggere il secondo paragrafo dell’articolo link-ato) che venga rappresentata una Carmen di Ravel! (con un bolero per ciascun atto?)

Nello scorso giugno Barenboim ha anticipato che la sua sarà una Carmen drammatica e tragica, forse sulla scia di quell’altra messa in scena da Kusej, che Barenboim ha diretto tempo fa nella sua Berlino. Speriamo che non sia una cosa come questa… ma con i registi non si sa mai.

E a proposito della regista: Emma Dante, da siciliana verace e sanguigna come certe arance di laggiù, sembra lì apposta per dare il tocco di fatalismo verista, con tanto di vara e prefiche. (Mia moglie, milanese ma con robuste radici in quel di Ficarazzi, mi ha guardato con aria di compatimento - tempo fa avrebbe messo mano ad un mattarello - sentendomi dire che a me la prefica - chissà perchè l’accento mi scivola inevitabilmente sulla ì - fa pensare a tutto, no, anzi, ad una cosa ben precisa, tranne che ai lamenti funerari).

Qualcosa mi dice – spero proprio di essere cattivo profeta – che non vedremo la Carmen di Bizet.
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06 novembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 1

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Una delle curiosità principali della prima scaligera 2009 – insieme alla regìa di Emma Dante – è rappresentata dal debutto nel ruolo principale di Anita Rachvelishvili, 25enne georgiana cresciuta proprio all’Accademia della Scala. Per Barenboim è stata una specie di colpo di fulmine: l’ha sentita per il ruolo secondario di Mercedes e subito ha pensato invece a lei per Carmen!

Ricordiamo che – esattamente due anni fa – il Maestro scaligero fece un analogo blitz ingaggiando a sorpresa tale Ian Storey quale Tristan. Con risultati non disprezzabili, ma certo nemmeno trascendentali. Auguriamoci che con l’Anitona vada meglio!

A proposito della quale, da un servizio del TGR-Lombardia veniamo informati che la (davvero bellissima!) georgiana, oltre ad avere un legame sentimentale col tenore Riccardo Massi, pare volesse assumere – ma Barenboim l’ha categoricamente sconsigliata - un cognome d’arte (Ravel…) al posto del suo autentico, che è effettivamente quasi impronunciabile, e poi a noi italiani, con quella desinenza in -vili, fa in genere un effetto sgradevole.

Da una sommaria ricerca sul web si scopre che in realtà la desinenza -shvili significherebbe figlio, un po’ come il -son svedese e il -sen danese. Fin qui, tutto bene. Ma poi altrove si trova una sorpresa: il termine significherebbe anche bullo, manesco, prepotente, il che apparirà appropriato a chi ricorda le non raccomandabili imprese di un tale Dzhugashvili, meglio noto col nome d’arte di Stalin. Si va di male in peggio con un’altra accezione: figlio di p…

Insomma, forse la bella Anita non aveva tutti i torti a volersi cambiar nome! Intanto staremo a vedere come se la caverà nei panni di Carmencita
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