XIV

da prevosto a leone
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02 febbraio, 2024

Un nuovo doge alla Scala

Simon Boccanegra: opera di vecchi, per vecchi? Certo persino un adulto (non dico poi un adolescente) può faticare ad emozionarsi per le vicissitudini di un padre e di un nonno! Roba giurassica. E per di più quando i due sono genero e suocero!

Ah, Verdi aveva 44 anni quando compose la prima versione del Simone, e sulle spalle portava già da tempo i pesanti segni delle sventure che la vita (magari più prima che poi, come nel suo caso) immancabilmente riserva a tutti.

E quindi la tinta (Verdi’s copyright) dell’opera è ammantata di cupezza e pessimismo, se ai problemi personali e privati dei protagonisti si aggiungono anche gli intrighi di palazzo e le smanie di potere in un ambiente ancora medievale e oscurantista.

Dopodichè Verdi non sarebbe stato Verdi se non fosse mirabilmente riuscito a nobilitare questo scenario con le sue note!
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Ebbene, ieri abbiamo incontrato un poco più che ragazzo (ancora non ha compiuto 34 anni) che ha stupito per la profondità con la quale ha illustrato questa musica: Lorenzo Viotti!

Certo, i suoni poi li devono materialmente emettere gli strumenti cui danno anima gli strumentisti… e l’Orchestra scaligera ha magnificamente assolto il suo compito con una prestazione impeccabile. Faccio un unico esempio per tutti: la grande cavata in FA maggiore dei violini che accompagna l’epilogo del duetto Simone-Amelia del primo atto. Una cosa a dir poco sbudellante… [A proposito, Meyer in apertura ha voluto ringraziare gli strumentisti in buca e pure quelli non presenti ieri per il premio ricevuto nei giorni scorsi: la miglior orchestra d’opera oggi sul pianeta!]

Dato poi a Malazzi ciò che è… suo (il Coro in grande quanto solito spolvero) vengo alle voci.

Luca Salsi è ormai quasi stabilmente il baritono di riferimento per la Scala: qui vi ha portato il ruolo di Simone, non nuovo per lui, nel quale si è destreggiato con la consueta maestria. Nella tragicità del suo animo tormentato, come negli slanci di amor paterno e nelle colossali perorazioni pubbliche: insomma, un Simone più che positivo… ma forse non il Simone di riferimento.  

Ain Anger è stato un (non aspirante, nel libretto, ma alla fine convinto) suocero per me non disprezzabile (salvo qualche acuto vociferante). Però ha preso esclusivamente su di sé le rimostranze di qualche purista che lo ha sonoramente buato alla fine.    

L’Amelia-Maria di Eleonora Buratto ha ben meritato, calandosi alla perfezione nella parte di questa bistrattata orfanella: brava nel passare dall’ingenuità e timorosità della ragazza cresciuta senza una famiglia, al coraggio di rivendicare il suo amore fino a diventare il catalizzatore della finale e generale riconciliazione. Il tutto supportato dalla sua voce pura sì come angelo, si potrebbe dire... 

Adorno è Charles Castronovo, figlio di emigrati italiani in USA, già interprete del ruolo a Salzbug (2018) insieme a Salsi e sotto la bacchetta di Gergiev: definirei la sua un’interpretazione più che dignitosa, ecco, ma… non molto di più, almeno sul piano strettamente vocale (la voce è squillante, ma negli acuti si ingola pericolosamente). Bene invece ha fatto come attore, interprete di questo ruolo per nulla semplice, perchè caratterizzato da slanci amorosi e da furenti rancori.

Buone notizie da Roberto De Candia, che ci restituisce efficacemente lo sbifido Paolo Albiani, assatanato per il potere e per il possesso (della… gnocca!) Da ricordare i suoi ripetuti sfoghi contro Simone.

Su standard onorevoli il Pietro di Andrea Pellegrini e gli altri due comprimari: Laura Lolita Perešivana (ancella di Amelia) e Haiyang Guo (Capitano dei balestrieri).
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Daniele Abbado. Mi è parso che – magari come ricordo del padre – abbia preso come riferimento Giorgio Strehler, che con Claudio firmò la splendida produzione degli anni ’70. Ambientazione cupa e buia, con pochi e luminosi squarci… nautici (scene e costumi però impoveriti delle preziosità che oggi non sono più di moda).

Ma anche piccoli dettagli, fra i quali ne segnalo uno: l’avvelenamento. Come in Strehler, anche qui Paolo versa il veleno nella tazza di Simone facendosi… aiutare da un inserviente (là femmina, qui maschio) che gliela reca su un vassoio…

Efficace mi è parsa la recitazione suggerita ai personaggi. Complessivamente una regìa onesta e corretta, senza invenzioni ardite o discutibili ri-ambientazioni. Alla fine lui e il suo team (Angelo Linzalata per le scene, Nanà Cecci ai costumi, Alessandro Carletti alle luci e Simona Bucci per la coreografia delle sommosse) sono stati accolti da moderati consensi.

A parte il malcapitato Anger, per tutti applausi calorosi (ma non proprio un tifo da stadio, ecco). Personalmente la definirei nel complesso una proposta seria e onesta, meritevole di ampia sufficienza.

08 novembre, 2017

Il Nabucco di Abbado (D.) recidivo alla Scala


A quasi 5 anni dalla sua prima apparizione, è tornato in Scala a far danni - mia convinzione - il Nabucco firmato da Daniele Abbado. Per quanto riguarda i danni, confermo ogni mio rilievo alla regìa, mosso in quella occasione: una regìa che sa di documentario rievocante la sofferenza del popolo ebraico vittima della Shoah, ma che poi, per non cadere nel grottesco (poichè coerentemente Nabucco dovrebbe allora vestire i panni di Hitler) si sposta su scenari di conflitti di natura sindacale (Nabucco = padrone delle ferriere) che con le vicende dell’Olocausto (e con il soggetto originale) ci stanno come i cavoli a merenda: caso più unico che raro di incoerenza al quadrato!

Insomma: un pessimo servizio fatto a Verdi e al pubblico, ecco. Un po’ come quel Mosè di Rossini che Vick anni orsono impiegò al ROF come colonna sonora per la sua lecture sulla storia della nascita dello Stato di Israele. Con la differenza che la storia presentata da Vick era, almeno, rispettosa fino in fondo delle vicende passate in Palestina nella prima metà del secolo scorso. 
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Ieri sera era la quinta delle otto recite in programma ed ha visto l’arrivo, nel ruolo di Abigaille, della partenopea Anna Pirozzi, a dare il cambio alla viennese Martina Serafin: dico subito che si è trattato, per me, di un discreto ritorno al Piermarini dopo i Foscari della stagione scorsa; in un ruolo che lei d’altronde conosce ormai come le proprie tasche, essendo stato il suo trampolino di lancio anni fa con Muti. Ma la dimestichezza con la parte è condizione necessaria, purtroppo non sufficiente per raggiungere l’eccellenza: e la parte di Abigaille, che Verdi magistralmente ricolma di spettacolari quanto enormi intervalli (con cadute di una e persino di due ottave!) mette purtroppo in difficoltà la Pirozzi sulle note gravi, per cui da acuti sicuri e squillanti si piomba spesso nel... vuoto. Comunque una prestazione, la sua, meritevole di ampia sufficienza.

Più che dignitosa la prova di Annalisa Stroppa, voce morbida e penetrante, espressione sempre adeguata al personaggio della principessa assira che l'amore per il giovane ebreo porta alla repentina conversione. E Ismaele è stato degnamente impersonato da Stefano La Colla, che ha mostrato timbro squillante e buona intonazione. A cavallo fra sufficienza e insufficienza Mikhail Petrenko, uno Zaccaria che sarebbe perfetto nella presenza fisica e scenica, ma la cui voce ahilui manca di ogni caratteristica necessaria al ruolo: profondità, potenza e autorevolezza. Onorevoli le prove dei tre comprimari, Giovanni Furlanetto in testa. Il Coro di Casoni non si discute di certo, però mi pare non abbia toccato i vertici che gli conosciamo.                    

Di questi tempi è di attualità discettare di aspettativa di vita e di età pensionabile: ebbene, oltre al recidivo Leo Nucci (che già era in età da pensione 5 anni orsono) questa produzione vede sul podio un tale che ha 11 anni più del Nabucco! Evidentemente il mestiere di Kapellmeister (come quello di baritono verdiano) non è fra quelli definiti usuranti (!) A parte le facili battute, a me che sono appena appena meno maturo di Nucci la cosa non può che far piacere, soprattutto quando posso constatare che a 75 e 86 anni ancora si può essere autorevoli interpreti di Verdi alla Scala, invece che ospiti di Verdi in piazza Buonarroti...

Il baritono di Castiglione dei Pepoli sciorina ancora una delle sue penetranti e coinvolgenti interpretazioni, facendosi perdonare le inevitabili pecche legate all’anagrafe (acuti un filino urlati...) ma rendendo al meglio (parlo ovviamente della parte musicale, quella del personaggio di Daniele Abbado lasciamola perdere) le mutazioni che intervengono nella mente e nella personalità del condottiero assiro.

Quanto a Nello Santi, lui poveretto fatica persino a reggersi in piedi, e la salita sul podio così gli diventa la scalata del K2... Però, una volta installato al suo posto, guida orchestra e voci con l’autorità che gli viene da un’intera vita di studio e lavoro. I suoi tempi sono sempre sostenuti, ma mai sfociano nel greve o peggio nell’esasperante; il suono che ottiene dall’orchestra (compresa quella dietro le quinte) è nitido, tagliente, senza mai sconfinare in tratti bandistici o vuotamente retorici. La concertazione delle voci sempre pulita, gli attacchi precisi, dati con semplici ma evidentemente efficaci gesti della mano sinistra. Insomma, non siamo in presenza di una mummia ambulante, come ingenerosamente qualcuno lo ha voluto dipingere, tutt’altro!

Piermarini non esaurito, ma neanche semivuoto, e ben disposto all’applauso per l’intera compagnia. Una serata (parlo dei suoni) per me complessivamente positiva.

28 gennaio, 2016

Un baldanzoso Attila invade Bologna

 

Ieri al Comunale di Bologna quarta rappresentazione di Attila. Si ratta di un nuovo allestimento di Daniele Abbado, che verrà successivamente riproposto a Palermo e Venezia (co-sponsor della produzione). Insieme al sottoscritto, i più (cioè il solito 1,2-1,6% dell’italica popolazione) avranno già sentito/visto (in diretta o differita, su Radio3 e RAI5) la prima del 24.

Ciò che penso dell’opera lo avevo già esternato quasi 5 anni orsono, in occasione d una recita alla Scala. Ieri era la seconda con il cosiddetto secondo cast. Devo dire subito che non mi ha fatto rimpiangere il primo: forse l’unico interprete di cui ho sentito la mancanza è stato Simone Piazzola, il cui vice, Gezim Myshketa (Ezio) mi è parso impiegare poco proficuamente il suo pur naturalmente dotato strumento: voce artatamente scurita soprattutto nelle note alte, dove invece andrebbe esibito uno squillo penetrante, e non cavernosi schiamazzi.

Tutti gli alti interpreti non hanno affatto demeritato. A partire dal protagonista, un solidissimo Riccardo Zanellato, che ha esibito grande sicurezza e profondità di accenti, oltre che autorità e portamento scenico.

Bene anche Stefanna Kybalova, cui potrei rimproverare qualche acuto troppo tirato-via (ma non il DO di ingresso, più che dignitoso). Giuseppe Gipali ha pure ben meritato come Foresto, mostrando acuti squillanti ma anche buona espressività nei passaggi più introspettivi.

Gianluca Floris e Antonio Di Matteo come da minimo sindacale. Il coro di Andrea Faidutti ha ben sopportato le asprezze imposte da Verdi, sia nelle scene più cupe e opprimenti che in quelle dove si sprecano i fortissimo.

Da ultimo lascio Michele Mariotti per tributargli un doveroso omaggio: non aver avuto tema nell’impiegare in modo persino protervo quella tanto famigerata vanga che molti schizzinosi da sempre rimproverano a questo Verdi. Dico, Attila, se suonato così, ti porta semplicemente all’entusiasmo, ecco. E comunque, come dimenticare l’alba su RioAlto, evocata con pochi tratti, ma con grandissima efficacia... Quanto alle troppe cabalette, chiunque (credo) ne vorrebbe ancora di più...

Poche note sull’allestimento della coppia Daniele Abbado – Gianni Carluccio. Eccessiva insistenza su ambienti cupi ed opprimenti, quando invece ci dovrebbero essere anche squarci di luminosità e di sereno. Suppellettili in scena piuttosto insignificanti, o forse dal significato troppo criptico, non saprei; personaggi simbolici (un cristo seminudo e un rabdomante o domatore di serpenti) che potevano esserci risparmiati.

Costumi più o meno appropriati al fine di farci ben distinguere tra gli straccioni e malnutriti invasori e le truppe scelte di Roma (rancio ottimo e abbondante, divise appena uscite dalla stireria e stivali lucidati a specchio).

La regìa dei personaggi: l’impressione che si sia lasciato a ciascun interprete di recitare a soggetto, secondo la propria personale ispirazione. Insomma, nulla di indimenticabile. 

Ma, ripeto, ciò che conta è, nella fattispecie, l’accoppiata Verdi-Mariotti: e questa ha risposto davvero alla grande!

22 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze (3)

 

Ieri all’OF seconda recita del Pelléas dei due Danieli. Nota davvero stonata i larghissimi vuoti in sala, testimonianza fin troppo lampante, oltre che desolante, del degrado della cultura musicale del pubblico italiano, a dispetto delle risorse pubbliche impiegate per costruire strutture che diventano le classiche cattedrali nel deserto, il deserto delle sale…  

Spettacolo complessivamente di buon livello, soprattutto sul fronte dei suoni (che poi è ciò che conta di più).

Daniele Gatti è alla sua prima esperienza con Pelléas (non certo con Debussy): per essere un esordio, diciamo che è stato… promettente, ecco. Ha tenuto mediamente tempi abbastanza serrati (tipo Abbado o Karajan) che privilegiano il lato più onirico che non quello drammatico (paura e crudeltà, come ebbe a sentenziare Boulez) dell’opera. Ma il Pelléas ha tali e tante sfaccettature che un Direttore vi potrà sempre trovare qualcosa di nuovo da mettere in luce: se ci tornerà sopra, non ho dubbi che anche Gatti (come accadde proprio a Boulez, per dire) ripenserà in qualche modo l’interpretazione, quanto meno in molti dettagli. L’orchestra del Maggio mi è parsa a sua volta all’altezza del compito, avendo prodotto sempre un suono pulito e trasparente, cosa certo da accreditare anche alla consuetudine di Gatti con le opere strumentali di Debussy (il quale sprezzava il magma sonoro wagneriano, dove secondo lui un violino non si distingue più da un corno). E che fra Gatti e l’Orchestra si sia instaurato un feeling particolare lo dimostra il calore dell’accoglienza che i Professori hanno riservato al Maestro all’uscita finale, in un tripudio di archetti agitati in aria al suo indirizzo!    

Gatti ha scelto un cast tutto italiano: scelta legittima, anche se forse un po’… provocatoria, o bizzarra, come la si voglia giudicare. Ma prima di parlare delle voci, bisognerebbe ricordare come le tessiture dei protagonisti siano influenzate non solo dalle rispettive caratteristiche antropologiche (giovane, vecchio, mite, ombroso) ma anche e soprattutto dall’idiosincrasia di Debussy (in questo davvero seguace di Wagner) per gli stereotipi dell’opera tradizionale, con conseguente abbandono non solo di ogni forma chiusa, ma anche di ogni forma di affettazione, così tipica del melodramma classico, dove i personaggi mai e poi mai (né nei recitativi né tanto meno nei numeri) cantano come si parla normalmente. Per Debussy valeva la massima prima le parole, poi la musica, e la musica doveva servire il testo del dramma, non viceversa: insomma, l’antico recitar cantando di bardiana memoria. Una delle tante conseguenze di questo approccio è la relativa intercambiabilità (tenore-baritono e soprano-mezzosoprano) delle voci dei due protagonisti del titolo. 

Il personaggio di Pelléas – notato da Debussy in chiave di SOL, cioè di tenore - ha una tessitura che va dal DO sotto il rigo al LA sopra, nemmeno due ottave: certo una tessitura ardua, sugli acuti, per un baritono, ma che ha frequenti (e difficoltose, per un tenore leggero) escursioni in zona grave (penso ad esempio alla scena della grotta dell’atto II, dove si tocca eccezionalmente un SOLb sopra il rigo, ma dove per il resto la declamazione si muove tutta sull’ottava bassa). Non a caso alla prima del 1902 fu interpretato da Jean Périer, che era un bari-tenore (o baryton-Martin come usano definirlo i francesi) e Debussy stesso scrisse appositamente degli ossia sullo spartito in occasione di recite affidate a tenori, ma discusse addirittura la proposta di affidare la parte ad un mezzosoprano (alla prima del dramma di Maeterlinck Pelléas era impersonato da un’attrice, Marie Aubry). Ebbene, Paolo Fanale, tenore dalla voce brunita e robusta, si è dimostrato una scelta assai azzeccata per il ruolo, che ha diverse sfaccettature, dall’efebico all’eroico. Purtroppo proprio alla fine (la scena d’amore del quart’atto) mi è parso che la sua voce abbia perso un po’ di smalto e incisività, con la conseguenza che le bordate sonore scagliate da Gatti dalla buca lo abbiano travolto e coperto.

Quanto a Mélisande, la tessitura è ancora più corta di quella di Pelléas, andando dal DO sotto il rigo al LAb sopra (tanto per esemplificare, all’acuto è solo un tono pieno sopra quella di Geneviève): e infatti anche qui la parte può essere sostenuta da soprani (quale fu la prima interprete, Mary Garden) ma altrettanto bene da un mezzosoprano, come qui Firenze dove troviamo Monica Bacelli. Che mi è parsa ben calata nel ruolo, proponendoci una Mélisande dalla cangiante personalità, celestiale ma allo stesso tempo anche ombrosa e scabrosa. La sua voce non è delle più… pure e qualche acuto è stato un po’ maltrattato, ma in complesso si merita un’ampia sufficienza.

Su Golaud non ci son dubbi che debba essere un baritono, ma un baritono di voce abbastanza chiara, poiché il personaggio sarà pure sbifido, ma non è certo uno Scarpia. Ecco, Roberto Frontali se l’è cavata assai bene, proponendoci un personaggio divorato dai dubbi, ma mai sopra le righe: convincenti soprattutto le due scene-madre con Mélisande (quarto e quinto atto).

Roberto Scandiuzzi ha ben meritato, nel difficile ruolo di Arkël: sempre autorevole e mai macchiettistico come a volte viene presentato questo personaggio.

Geneviève è l’inossidabile Sonia Ganassi: una parte limitata (al solo primo atto) quasi esclusivamente declamata recto-tono, che lei ha però sostenuto con  appropriata sensibilità.

Il personaggio del piccolo Yniold è affidato ad un soprano (devo dire che personalmente gradirei di più, anche dal punto di vista attoriale, una voce bianca, pur riconoscendo che per un fanciullo la parte è davvero ostica…): qui ad impersonarlo è Silvia Frigato, che ha effettivamente un fisico da fanciullo. Il canto però mi è parso eccessivamente forzato, proprio a simulare una voce bianca, con risultati francamente non eccelsi. 

Andrea Mastroni si è ben disimpegnato, sdoppiandosi nei ruoli del pastore e del medico.

Il coro (A-T-B) ha qui una parte limitatissima verso la fine del prim’atto (mutuata dal Tristan e poi… miscroscopizzata) che la compagine di Lorenzo Fratini ha svolto con diligenza.

In complesso questo cast autarchico (e… sciovinista alla rovescia) non ha affatto demeritato e anche la pronuncia (bisognerebbe però verificare con un francofono autentico) mi è parsa sufficientemente credibile.
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La messinscena do Daniele Abbado mi è parsa invece eccessivamente fredda: della Natura, che pure è presente, e come, nel testo di Maeterlinck, qui proprio non v’è traccia. Per carità, nessuno pretende i boschi finti e lo stormire di foglie di cartavelina, ma nemmeno convince l’argomento secondo cui basta la musica di Debussy ad evocare la Natura: perché se la musica evoca fiori e prati ma ciò che si vede è un’impalcatura di tubi-Innocenti, il rischio che si corre è che pure la musica ne venga penalizzata. La scenografia di Giovanni Carluccio prevede, alla base, due grandi semi-ellissi (a volte raddoppiate) che possono apparire in combinazioni diverse: una sola, concava verso l’alto, che fa da unico ambiente in alcune scene; oppure due contrapposte e separate (contenenti all’interno strutture orizzontali in cui si muovono i personaggi); oppure ancora congiunte, a formare una specie di occhio o il bordo di un pozzo (la fontana dei ciechi). Oltre a queste abbiamo una passerella (scena 3 dell’atto I e scena 1 dell’atto IV) e poi dei ponteggi con scale, impiegati in particolare nelle prime tre scene dell’atto III. La scena finale è invece totalmente spoglia e bianca, il letto di Mélisande è un tavolaccio posto quasi in verticale (il che di sicuro aiuta l’interprete a cantare in posizione quasi eretta).

Abbado ha poi inventato (anzi… copiato da altri) qualche gratuito particolare, come ad esempio il fendente che Golaud si auto-infligge con la spada dopo aver infilzato il fratellastro: ciò si desume solo dalla parte del testo di Maeterlinck che Debussy ha soppresso (!) e la cosa avviene oltretutto in tempi successivi alla chiusura dell’atto IV, dove Golaud si dovrebbe limitare a seguire Mélisande che scappa via inorridita. Pure gratuita, anche se consente all’interprete di rifarsi viva dopo la fine del primo atto, è la presenza di Geneviève nella scena finale, a recare la neonata al capezzale della mamma. Il testo ci parla per l’ultima volta, e indirettamente, di Geneviève nell’atto IV, quando Pelléas riferisce a Mélisande della gioia della madre per la guarigione del padre. Ma cosa sia stato di lei dopo il fattaccio intercorso fra i suoi due figli non ci è dato sapere: potrebbe pure esser morta di crepacuore!

Quanto ai movimenti dei personaggi e alla recitazione, si sa che la staticità del testo offre al regista pochissimi spunti per sbizzarrire la propria fantasia: Abbado non è andato al di là di un onesto lavoro di scavo psicologico. Da questo punto di vista mi son sembrati ben centrati i personaggi di Golaud e dei due vecchi (Arkël e Geneviève). Pelléas è personaggio indecifrabile di per sé, e Abbado come tale ce lo mostra, senza prendere decisamente posizione (a mio avviso) né per un giovane debole e complessato, né per un amante fiero e deciso a tutto.

Quanto a Mélisande, mi pare che il regista ne abbia voluto enfatizzare il lato schizofrenico: alludo in particolare alla scena dove lei mente spudoratamente a Golaud (a proposito dell’anello) dove ci viene mostrata una donna in atteggiamento propriamente carognesco.

Insomma, un allestimento dignitoso, ecco. Il pubblico selezionato ha comunque mostrato di apprezzare assai, a giudicare dal calore dell’accoglienza riservata indistintamente a tutti i protagonisti.

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Allego per l’occasione un’interessante monografia su Debussy, a cura di François Lesure, con particolari riferimenti al Pelléas, apparsa su Musica&Dossier nel maggio 1989. 

06 aprile, 2013

Stupro albionico in quel di Reggio E.


Oltre ai due sommi bi-centenari, il 2013 è anche il centenario dalla nascita di Benjamin Britten, e così molti cartelloni ospitano opere del compositore britannico. The rape of Lucretia – nella co-produzione ReggioEmilia-Ravenna-Firenze – dopo aver esordito all’Alighieri transita in questi giorni dal ValliL’orchestra (meglio, il complesso cameristico) è quella del Maggio, la regìa è… reggiana (Daniele Abbado, che riprende, rivedendolo, un suo allestimento ultra-decennale) e il cast è multi-nazionale.

Con l’occasione allego qui una monografia sul Britten teatrale curata da Carlo Maria Cella e apparsa nel numero di maggio-giugno 1993 della rivista Musica&Dossier.

Come meritoriamente puntualizza il libero pensatore Amfortas (a proposito, non vedo l’ora che torni fra noi più… semiserio che mai!) sarebbe ora di finirla con le penose ipocrisie (superate solo da quelle del Berlusconi che si offre per fare un governo nientemeno che con i comunisti!) che traducono rape con ratto, alle quali si potrebbe obiettare che – trattandosi di vicenda coinvolgente parti intime femminili – allora sarebbe più appropriato il termine ratta, aulica versione di topa…
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Ecco, sistemata la ginecologia, qualche considerazione a margine del soggetto, che Ronald Duncan derivò da Le viol de Lucrèce di André Obey, ma che si basa su una vicenda (più o meno) storicamente accertata, trovandosi descritta in Ab Urbe condita libri di Tito Livio, e poi ripresa da Shakespeare nel dramma omonimo.

Lo scenario storico-politico generale è quello dell’assedio che i romani (guidati da quello che sarebbe stato l’ultimo dei sette Re, l’etrusco Tarquinio il Superbo) stavano ponendo nel 509 a.C. alla città di Ardea, che si trova a circa 40 Km a sud-ovest di Roma, sul mare. Ciò si evince dalle fonti storiche o letterarie, mentre il libretto di Duncan parla genericamente di nemici greci, probabilmente riferendosi alle presunte, mitologiche origini greche di Ardea (sappiamo che invece a quei tempi la città era abitata dai Rutuli, di incerta origine, ma sicuramente non greca).

Nella partitura di Bosey&Hawkes (nella pagina di descrizione in tedesco di personaggi e scene) si accenna all’accampamento romano situato al di là del Tevere. Nel libretto si fa anche cenno alle luci di Roma che dall’accampamento si vedono riflettersi nel fiume e poi si descrive l’attraversamento dello stesso da parte di Tarquinio (Sestio, figlio del Superbo e protagonista dell’opera, insomma: lo stupratore di Lucrezia) per raggiungere la città nella notte del misfatto.

Orbene, queste circostanze (che non si trovano assolutamente in Livio, quindi tanto meno in Shakespeare) appaiono in verità assai poco plausibili, proprio per ragioni… geografiche: ai tempi la città di Roma sorgeva quasi interamente ad est del Tevere (che sappiamo va a sfociare ad ovest) quindi il percorso Roma-Ardea, oltre ad essere del tutto divergente rispetto a quello del fiume (rendendo inverosimile che l’accampamento romano fosse nei suoi pressi) non doveva contemplarne di certo alcun attraversamento. Peggio ancora se la destinazione di Tarquinio non fosse stata Roma ma, come scrive Livio, Collazia (la città dove Lucrezia e Collatino avevano la loro dimora) che era situata ancor più ad est di Roma.

Il fiume compare nel libretto di Duncan anche nel second’atto, seconda scena, quando Bianca saluta il sorgere del nuovo giorno ammirando la nebbiolina che si disperde lungo il Tevere argenteo. Ciò a conferma che nell’opera la casa di Lucrezia sia in piena Roma, e non a Collazia (come sappiamo da Livio) da dove il Tevere di certo non si poteva vedere.

Tuttavia diamo atto al librettista (e alla sua fonte diretta) di aver sì falsificato la geografia, oltre che la storia, ma contemporaneamente di aver dato a Britten ottimi spunti per comporre musica mirabile.
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La partitura è del 1946, a guerra appena finita, ed è dedicata ad Erwin Stein, famoso musicologo austriaco, che Britten aveva conosciuto a Vienna nel 1934 e che poi era sfuggito al nazismo rifugiandosi a Londra, dove collaborò con Bosey&Hawkes, la casa editrice musicale che già aveva a contratto le opere del compositore albionico.

L’organico è di piccola orchestra, soltanto 12 strumentisti (più il maestro cui è affidata la parte del pianoforte, che accompagna i recitativi): uno al flauto (più ottavino e flauto contralto); uno all’oboe (più corno inglese); uno al clarinetto in SIb (più clarinetto basso); uno al fagotto; uno al corno in FA; uno alle percussioni (triangolo, frusta, tamburo, timpani, tamburo militare, tamburo tenore, tamburo basso, piatti sospesi e gong); uno all’arpa; cinque agli archi (vl1-2, vla, vc, cb). È un organico da camera che Britten userà, con piccole divergenze, anche in altre due opere successive: la poco eseguita Albert Herring e la famosissima The Turn of the Screw.

La struttura dell’opera è assai semplice e simmetrica: due atti (della durata di circa 50 e 60 minuti) costituiti ciascuno da due macro-scene divise da un interludio e precedute da un’introduzione. Nel primo atto, dopo l’introduzione, la prima scena raffigura l’accampamento dei romani (con le discussioni fra i tre generali sulla fedeltà di mogli e compagne); l’interludio ci racconta del forsennato galoppo notturno di Tarquinio dal campo alla casa di Lucrezia, incluso il guado del Tevere; la seconda scena è all’interno della casa di Lucrezia a Roma, dove troviamo la moglie di Collatino con le due donne che vivono con lei, che ricevono in piena notte l’inaspettata visita del principe etrusco. Nel secondo atto, dopo l’introduzione, siamo dapprima nella camera da letto di Lucrezia, che è la scena dello stupro; segue l’interludio in cui i cori piangono la sorte della donna; e infine restiamo nella stessa casa di Lucrezia, che sarà teatro del tragico epilogo con il suicidio della donna.  

La presenza dei Cori (in realtà solo due voci: un tenore e un soprano) serve a raccontare antefatti storico-antropologici (lo scenario dell’azione piuttosto che le origini della fallace fortuna etrusca) e anche a spiegare ciò che si vede in scena, sostituendosi o sovrapponendosi alle voci dei protagonisti. Ma soprattutto si incarica di trarre dalle vicende una morale cristiana: sì, poiché il coro vive di fatto in mezzo a noi, millenni dopo quel 509 a.C. in cui si svolsero i fatti, e li racconta leggendoli su libri di storia (come il citato Ab Urbe condita) commentandoli però alla luce del messaggio cristiano. Il che ha attirato sull’opera e su Britten qualche critica magari non proprio ingiustificata.

Quanto ai personaggi, sono tre maschi ed altrettante femmine: Tarquinio Sestio, figlio del re il Superbo, Lucio Giunio Bruto (che spodesterà i re etruschi - facendo sollevare contro di loro i romani, proprio a seguito dello stupro - per fondare la Repubblica) e Lucio Tarquinio Collatino, sposo di Lucrezia; la quale Lucrezia è affiancata dalla nutrice Bianca e dall’ancella Lucia.

La figura del cattivone Tarquinio emerge dal libretto e dalla musica assai meno categoricamente collocata nel regno del male di quanto non sia nelle fonti storiche, ed anche in Shakespeare. Lì l’etrusco arriva al livello massimo di abiezione, allorquando ricatta Lucrezia minacciando di ucciderla, dopo lo stupro, e di uccidere quindi un suo servo gettandone poi il cadavere nudo sopra di lei per rovinarle, anche da morta, la reputazione, e salvando la propria presentandosi come il giustiziere di una fedifraga e del suo abietto stallone.

Questo particolare invero disgustoso non è per nulla ripreso nel libretto, dove invece il principe sembra quasi genuinamente apprezzare e lodare le virtù di Lucrezia, allorquando cade nella trappola tesagli da Giunio – geloso non tanto della donna ma di Collatino, che dall’onestà della moglie poteva trarre vantaggi politici su di lui – che ne stuzzica l’orgoglio sostenendo che quella donna è casta solo perché nessuno attenta alla sua virtù. Ben sa, Giunio, che le lodi di Tarquinio a Lucrezia nascondono il suo inconscio desiderio di possedere – finalmente, dopo una moltitudine di puttane, professioniste o dilettanti! – una donna vera, sana, forte, oltre che avvenente, che vive ispirandosi a - e praticando - princìpi di onestà e fedeltà… insomma, un essere quasi introvabile in quel mondo piuttosto depravato, e quindi preda massimamente appetibile.

Ma anche quando Tarquinio penetra nella stanza da letto di Lucrezia e la sveglia con un bacio, cerca dapprima di conquistarla con le antiche e in fin dei conti naturali e persino legittime armi della seduzione, blandendo la donna con frasi poetiche ed ammalianti,  che farebbero cascare qualunque altra ai suoi piedi.

È certo il suo smisurato ego che lo spinge ad immaginare di poter raggiungere l’obiettivo in forza delle sue virili qualità positive, e non in forza della… forza. Ma poi, di fronte alla fermezza e alle resistenze di Lucrezia, nel suo animo di superbo subentra l’inevitabile senso di frustrazione da fallimento e da respingimento, e lo stupro è l’atto estremo e disperato che rimane da compiere ad un uomo irreparabilmente sconfitto, umiliato e distrutto precisamente sul terreno dell’orgoglio e dell’amor proprio.

Qui in Duncan-Britten i cori commentano la scena dello stupro con cristiana compassione, invocando la Vergine perché aiuti l’umanità a ritrovare Dio, anzi le tre distinte persone della Trinità. Ma insuperabile, nel suo lucido, laico e crudo realismo, è il commento di Shakespeare, che coglie in pieno il tragico senso dell’odioso atto, un atto che umilia la vittima e, letteralmente, impoverisce il carnefice:

But she hath lost a dearer thing than life,
And he hath won what he would lose again:
This forced league doth force a further strife;
This momentary joy breeds months of pain;
This hot desire converts to cold disdain:
Pure Chastity is rifled of her store,
And Lust, the thief, far poorer than before.

Quanto a Giunio (che Duncan-Britten accreditano come romano doc, mentre era in realtà etrusco, nipote del Superbo…) qui ci appare come un cinico e ambiguo arrampicatore: geloso di Collatino (per via di Lucrezia) ordisce una trama che gli farà prendere due piccioni con una fava: creare difficoltà per il rivale (mettendone in cattiva luce la moglie) e contemporaneamente avere il pretesto (lo stupro da parte di Tarquinio) per guidare Roma alla sollevazione contro l’etrusco e divenire di tale sollevazione il principale beneficiario.

Il povero Collatino è quello che ci fa la figura più grama, come capita a tutte le persone normali, oneste e con la testa sulle spalle: perchè verrà alla fine tradito persino dalla sua stessa moglie che, pur di attestare pubblicamente e orgogliosamente la sua rettitudine, si toglierà la vita, lasciando lui, che l’aveva già magnanimamente compresa e assolta da ogni colpa, in brache di tela.  
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Della musica si può dire che – se non proprio un capolavoro – è comunque di altissimo pregio e profondità. A partire dal motto di sei pesanti accordi – di durata decrescente - di tutta l’orchestra, che aprono l’opera, sulla triade di DO minore, ma che sono resi atrocemente dissonanti dal REb che si aggiunge in viola, violini, arpa e oboe:


È proprio l’annuncio di una tragedia, e questo motto si ripete, diversamente armonizzato, per altre cinque volte nel corso dell’introduzione, ad intercalare i racconti dei cori, che ci informano della situazione politica di Roma, passata sotto il potere etrusco con Tarquinio il Superbo. Particolarmente cruda la quarta apparizione, caratterizzata dalla presenza di un tritono (DO-SOLb) sul racconto delle malefatte dell’etrusco ai danni della famiglia di Re Servio, di cui Tarquinio sposò due figlie, ammazzando la prima e facendo della seconda la sua complice nel regicidio, che portò all’instaurazione del suo governo del terrore. La quinta apparizione (sul LAb) introduce la chiosa filosofica del coro femminile: È un assioma tra i re usare una minaccia straniera per nascondere il male interno (allude alle guerre inventate da Tarquinio per consolidare il suo potere… nulla di nuovo sotto il sole!)

Altro tema ricorrente è quello esposto nell’introduzione del primo atto, in un Solenne DO maggiore (con venature di minore) da entrambi i cori che ci giustificano la loro presenza: Mentre noi staremo qui come due osservatori tra quella scena e il pubblico presente, guarderemo queste umane passioni e questi anni con occhi che un tempo hanno pianto con le lacrime di Cristo.


Queste stesse identiche parole le riascolteremo nell’introduzione del secondo atto, cantate sulle stesse note, semplicemente trasposte in LA maggiore. Note che ritorneranno proprio all’epilogo, e nuovamente in DO, allorquando i due cori si congederanno così: Da quando Tempo e Vita hanno avuto inizio, il grande amore è sempre stato profanato dal fato o dall’uomo. Ora, con parole stanche e con queste scarne note tentiamo di decorare di canto la tragedia umana.

Meticolosa la cura di Britten nell’evocare suoni di natura: l’arpa che simula i grilli, il contrabbasso a imitare i rospi, nell’afa serotina che opprime l’accampamento romano.

Peculiare il breve motivo con cui viene inizialmente dipinta Lucrezia. È Tarquinio ad esporlo, mostrando un interesse sospetto per la virtuosa moglie di Collatino, allorquando raccoglie l’invito di quest’ultimo a brindare per chiudere il battibecco sorto fra i tre generali riguardo la fedeltà delle donne (la sera precedente alcuni di loro avevano fatto una visita a Roma per sincerarsi del comportamento delle mogli, con risultati invero sconfortanti, Lucrezia esclusa):


La melodia ondeggiante (una specie di gruppetto dilatato) esprime efficacemente la nobiltà e la bellezza austera della figura della donna casta e fedele, ma anche il brivido di concupiscenza che ha invaso l’animo dell’etrusco! 

E qui nasce un motivo che ricorrerà precisamente altre tre volte nell’opera, il cui incipit è inconfondibile: FA-SOLb/RE-SI). Lo si ode ora nel canto del coro maschile, che sottolinea come la gelosia si stia impadronendo dell’anima di Giunio: Oh, my God, with what agility does jealousy jump into a small heart and fit till it fills it, then breaks that heart (Oh mio Dio, con quale agilità la gelosia si tuffa in un piccolo cuore e lo pervade e lo riempie fino a spezzarlo). Qui il motivo, contrappuntato dall’arpa che storpia il tema di Lucrezia, è seguito dall’imprecazione di Giunio sul nome e sul tema della donna. 

Analoga sequenza troviamo verso la fine dell’Interludio del primo atto (un brano davvero straordinario, che accompagna la corsa sfrenata di Tarquinio verso Roma) al momento in cui il principe etrusco, che sta galoppando a briglia sciolta, si trova la strada sbarrata dal Tevere e decide finalmente di guadarlo: Now stallion and rider wake the sleep of water disturbing its cool dream with hot flank and shoulder. Tarquinius knows no fear! He is across! He’s heading here! (Il principe arde di desiderio e quindi osa! Ora stallone e cavaliere destano le acque dormienti, disturbandone i freddi sogni con i fianchi e le spalle palpitanti. Tarquinio non conosce la paura! Ha attraversato il fiume! Si sta dirigendo qui!) È quello stesso motivo che si ripresenta, sovrapponendosi allo sciacquìo dei flutti attraverso i quali cavallo e cavaliere si slanciano, che invece è evocato dal tema di Lucrezia, che ribolle in tutta l’orchestra, prima che il coro maschile invochi drammaticamente il nome della donna:


Tanto agitata e a volte scomposta era la musica nel campo romano, quanto è serena e quasi eterea quella che si ode in casa di Lucrezia, come nell’introduzione della seconda scena, atto primo, affidata all’arpa:


E tale rimane per la prima parte della scena, eccezion fatta per una comprensibile agitazione che subentra allorquando Lucrezia crede di sentire un rumore alla porta… Mirabile il momento della piegatura delle lenzuola, con la voce del coro femminile che la descrive mentre Bianca e Lucia cantano dolci frasi musicali sull’unica sillaba Ah! Infine torna un’atmosfera agitata quando i cori annunciano l’approssimarsi di Tarquinio (il cui passaggio attraverso la città è accompagnato da mute di cani abbaianti e fa svegliare anzitempo i galli!)

L’arrivo di Tarquinio crea peraltro in casa di Lucrezia un disagio solo momentaneo, presto dissipato dall’atteggiamento (apparentemente) innocente del principe che riceve (e restituisce) la buonanotte dalle donne (su una cullante melodia) e poi ne porge una speciale a Lucrezia, sussurrandone il nome sul suo inconfondibile tema:


Anche l’introduzione al second’atto è una specie di lezione di storia, che ci ragguaglia su ragioni e circostanze antropologiche e politiche che portarono gli etruschi a conquistare Roma. Violoncello e clarinetto basso espongono subito un tema cupo, ripreso poi e sviluppato da tutti gli strumenti e seguito da un martellante motivo caratterizzato da una terzina seguita da un inciso giambico.

Il primo tema comparirà poco dopo – sulle parole Now the she-wolf sleeps at night (Ora la lupa dorme di notte) - in bocca a Collatino, Giunio e alle due donne di casa:


Il motivo martellante invece supporterà la parola d’ordine Down with the Etruscans! (Abbasso gli Etruschi!) con cui i romani auspicheranno la fine del potere etrusco su Roma e il ritorno del governo della città ai suoi legittimi abitanti, cosa che avverrà precisamente poco dopo i fatti qui narrati e proprio ad opera dei due generali romani protagonisti del dramma:


La scena dello stupro è introdotta da una cullante melodia (Allegretto comodo, 3/4) che sottolinea il sonno sereno di Lucrezia, descrittoci dal coro femminile, e poi da un brano più mosso e misterioso, dove il coro maschile segue i passi furtivi di Tarquinio che si avvicina alla camera da letto della sua preda, concludendo il suo racconto con un accorato quanto inascoltato Back, Tarquinius! (Indietro, Tarquinio!)

Il quale Tarquinio ora è ai piedi del letto di Lucrezia e lì rimane per un po’, colpito dalla sua innocente bellezza e canta, in un celestiale MI maggiore, tutta la sua stupefatta ammirazione per la donna:


Mirabile l’intervento del coro femminile, che invita Lucrezia a continuare a dormire, mentre l’etrusco si prepara a svegliarla con un bacio. Bacio che lei contraccambia, convinta com’è, nel sonno, di essere fra le braccia del suo Collatino…

Qui subentra, al risveglio della donna, la scena (Allegro agitato) che si concluderà con lo stupro. Essa raggiunge un climax sulle parole di Tarquinio che paragona la furia del proprio sangue ad una piena del Tevere, che ribolle nelle quartine di semicrome degli archi. Al che Lucrezia domanda, enfaticamente: Is this the Prince of Rome?  Al che Tarquinio risponde: Io … sono il tuo Principe!


Tarquinio afferra Lucrezia fra le sue braccia e i cori si intromettono, cercando disperatamente di dissuaderlo dal suo proposito, ma l’inevitabile sta ormai arrivando, quando l’etrusco strappa le lenzuola dal letto e minaccia Lucrezia con la spada. Qui abbiamo una mirabile sospensione dell’azione, realizzata nientemeno che con un coro a cappella, dove Tarquinio, Lucrezia e i due cori sembrano accettare, estasiati quanto impotenti, l’ineluttabile epilogo che sta ormai per compiersi: Guardate come il centauro rampante ascende al cielo e serve il sole con tutto il suo seme di stelle. Ora il grande fiume sotterraneo scorre attraverso Lucrezia e Tarquinio ne è sommerso. 

Il motivo che lo sostiene è la terza apparizione di quello udito già due volte nel primo atto (FA-FA#/RE-SI):


L’Interludio che segue è macroscopicamente suddiviso in due parti: dapprima l’agitatissima evocazione dello stupro (La virtù assalita dal peccato…)  e poi la pietosa (e già ricordata) invocazione dei cori alla misericordia cristiana.

Nella prima parte della seconda scena (il mattino su Roma) incontriamo eteree atmosfere musicali (che Britten aveva già introdotto nel Peter Grimes) che contrastano fortemente con quelle della scena precedente e dell’interludio: il lungo duetto fra Bianca e Lucia, rallegrato ulteriormente dall’arrivo dei fiori in gran quantità, rappresenta uno squarcio di serenità e quasi di beatitudine - portate dalla Natura – che presto lascerà il posto nuovamente allo sconforto e all’agitazione, al momento dell’arrivo di Lucrezia, uscita dalla sua camera.

La quale, dopo aver ordinato di spedire un messaggero a richiamare a casa il marito, esplode in un violento monologo, che culmina nella disperata esternazione incentrata sul proprio nome, cantato precisamente sul motivo esposto nel primo atto dal suo stupratore (qui un semitono più alto):


Ecco poi il lungo lamento della donna, che contempla con amarezza i fiori (solo loro sono casti…) prima di tornare nelle sue stanze.

Dopo l’intermezzo dedicato ai ricordi che Bianca esterna dei tempi della fanciullezza di Lucrezia si arriva alla scena finale del dramma, con il ritorno a casa di Collatino, accompagnato da Giunio, che aveva sospettato tutto fin dalla sera precedente. Efficacissimo il Poco adagio e dolente che sostiene l’amaro incontro dei due sposi, tutto pervaso dal suono mesto del corno inglese, una parte che non sfigura rispetto a quella del Tristan.

Ora abbiamo la confessione di Lucrezia (sì, confessione, perché lei si sente in qualche modo colpevole…) in un’atmosfera greve, illuminata dalla quarta ed ultima apparizione di quel motivo (FA-SOLb/RE-SI) già udito in precedenza, sulle parole Oh, my love, our love was too rare for life to tolerate or fate forbear from soiling. For me this shame, for you this sorrow (Oh, amore mio, il nostro amore era troppo prezioso perché la vita lo tollerasse o il fato gli impedisse di insozzarsi. A me questa vergogna, a te questo dolore).

Dopo il magnanimo perdono di Collatino (propenso a riconoscere alla moglie tutte le attenuanti) ecco il  momento drammatico del suicidio della donna, che pronuncia, dopo essersi piantata un pugnale in petto, le parole della sua liberazione: Ora sarò casta per sempre: solo la morte potrà stuprarmi. Guarda come il mio sangue lascivo lava via la mia vergogna!

L’orchestra ne sottolinea così gli ultimi rantoli:



Ora le voci di Collatino e Giunio cantano insieme, ma concetti diversi: il marito piange la sposa perduta, l’altro generale comincia subito ad approfittare delle circostanze, aizzando i romani contro gli stupratori etruschi.

Si aggiungono poi le voci delle due donne e infine quelle dei cori, a formare un sestetto che piange sulle pene e il dolore che gli uomini si danno per inseguire chimere.

Alla fine sono i cori che traggono la morale cristiana, prima del loro definitivo commiato dal pubblico.  
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Lo spettacolo di ieri sera - in un teatro con molti, davvero troppi posti vuoti – si merita un incondizionato elogio. Praticamente perfetto in tutte le sue componenti, a cominciare dall’allestimento di Abbado, dove l’austerità di scene e costumi si coniuga perfettamente con il sapiente impiego di luci (tutto di Gianni Carluccio) e con le immagini di Luca Scarzella.

I due cori interagiscono anche fisicamente con l’azione, e ciò è fatto sempre in modo appropriato e nel pieno rispetto del testo. I movimenti dei personaggi sono sempre misurati, proprio da tragedia greca, ed assecondano alla perfezione lo spirito, oltre che la lettera, della partitura.

Le otto voci sono tutte da lodare, a partire dalla Lucretia di Kirstin Chavez, vero contralto di grande potenza ed espressività; per continuare con Gordon Gietz che ha cantato assai efficacemente la parte del Coro maschile. Un filino debole, a tratti, la voce di Susannah Glanville (Coro femminile); bravissime le due donne di casa, in particolare Gabriella Sborgi (Bianca) mentre Laura Catrani (Lucia) ha forse ecceduto in qualche forzatura, sulle note alte. Anche i tre maschi mi son parsi all’altezza, in particolare il Tarquinius di Jacques Imbrailo; ma Joshua Bloom (Collatinus) e Philip Smith (Junius) non hanno affatto demeritato.

Gli strumentisti (in pratica le prime parti, guidate da Yehezkel Yerushalmi) del Maggio (erano 13 anziché 12, avendo separato, e posto ai due estremi della buca, la parte dei timpani dal resto delle percussioni) hanno confermato il loro altissimo livello, dovendo in pratica suonare tutte parti solistiche.      

Jonathan Webb (che ha anche accompagnato al pianoforte i recitativi) ha diretto da par suo e con grande sensibilità questa difficile partitura, di cui ha saputo rendere con precisione e cura ogni singolo dettaglio.

Alla fine grandi manifestazioni di consenso da parte del pur ristretto pubblico (pochi ma buoni, vien da dire…). Personalmente consiglio gli appassionati di approfittare della recita di domenica 7 a Reggio e di quelle prossime a Firenze per godersi uno spettacolo davvero eccellente.