Oltre ai due sommi bi-centenari, il
2013 è anche il centenario dalla nascita di Benjamin
Britten, e così molti cartelloni ospitano opere del compositore britannico.
The
rape of Lucretia – nella co-produzione ReggioEmilia-Ravenna-Firenze – dopo
aver esordito all’Alighieri transita
in questi giorni dal Valli. L’orchestra (meglio, il complesso cameristico) è quella del Maggio, la regìa è… reggiana (Daniele
Abbado, che riprende,
rivedendolo, un suo allestimento ultra-decennale) e il cast è
multi-nazionale.
Con l’occasione allego qui una
monografia sul Britten teatrale
curata da Carlo Maria Cella e apparsa
nel numero di maggio-giugno 1993 della rivista Musica&Dossier.
Come meritoriamente puntualizza il libero
pensatore Amfortas (a proposito,
non vedo l’ora che torni fra
noi più… semiserio che mai!) sarebbe ora di finirla con le penose ipocrisie (superate solo da quelle del
Berlusconi che si offre per fare un governo nientemeno che con i comunisti!)
che traducono rape con ratto, alle quali si potrebbe obiettare che
– trattandosi di vicenda coinvolgente parti intime femminili – allora sarebbe
più appropriato il termine ratta,
aulica versione di topa…
___
Ecco, sistemata la ginecologia, qualche
considerazione a margine del soggetto, che Ronald
Duncan derivò da Le viol de Lucrèce
di André Obey, ma che si basa su una
vicenda (più o meno) storicamente accertata, trovandosi descritta in Ab
Urbe condita libri di Tito
Livio, e poi ripresa da Shakespeare
nel dramma omonimo.
Lo scenario storico-politico generale
è quello dell’assedio che i romani (guidati da quello che sarebbe stato
l’ultimo dei sette Re, l’etrusco Tarquinio
il Superbo) stavano ponendo nel 509 a.C. alla città di Ardea, che si trova a circa 40 Km a sud-ovest di Roma, sul mare.
Ciò si evince dalle fonti storiche o letterarie, mentre il libretto di Duncan parla
genericamente di nemici greci,
probabilmente riferendosi alle presunte, mitologiche origini greche di Ardea
(sappiamo che invece a quei tempi la città era abitata dai Rutuli, di incerta origine, ma sicuramente non greca).
Nella partitura di Bosey&Hawkes (nella pagina di
descrizione in tedesco di personaggi
e scene) si accenna all’accampamento romano situato al di là del Tevere. Nel libretto si fa anche cenno alle luci di
Roma che dall’accampamento si vedono riflettersi nel fiume e poi si descrive l’attraversamento
dello stesso da parte di Tarquinio (Sestio,
figlio del Superbo e protagonista dell’opera, insomma: lo stupratore di
Lucrezia) per raggiungere la città nella notte del misfatto.
Orbene, queste circostanze (che non si
trovano assolutamente in Livio, quindi tanto meno in Shakespeare) appaiono in
verità assai poco plausibili, proprio per ragioni… geografiche: ai tempi la
città di Roma sorgeva quasi interamente ad est del Tevere (che sappiamo va a
sfociare ad ovest) quindi il percorso Roma-Ardea, oltre ad essere del tutto
divergente rispetto a quello del fiume (rendendo inverosimile che
l’accampamento romano fosse nei suoi pressi) non doveva contemplarne di certo alcun
attraversamento. Peggio ancora se la destinazione di Tarquinio non fosse stata
Roma ma, come scrive Livio, Collazia
(la città dove Lucrezia e Collatino avevano la loro dimora) che era situata
ancor più ad est di Roma.
Il fiume compare nel libretto di
Duncan anche nel second’atto, seconda scena, quando Bianca saluta il sorgere
del nuovo giorno ammirando la nebbiolina che si disperde lungo il Tevere argenteo.
Ciò a conferma che nell’opera la casa di Lucrezia sia in piena Roma, e non a
Collazia (come sappiamo da Livio) da dove il Tevere di certo non si poteva
vedere.
Tuttavia diamo atto al librettista (e
alla sua fonte diretta) di aver sì falsificato la geografia, oltre che la
storia, ma contemporaneamente di aver dato a Britten ottimi spunti per comporre
musica mirabile.
___
La partitura è del 1946, a guerra
appena finita, ed è dedicata ad Erwin
Stein, famoso musicologo austriaco, che Britten aveva conosciuto a Vienna
nel 1934 e che poi era sfuggito al nazismo rifugiandosi a Londra, dove
collaborò con Bosey&Hawkes, la
casa editrice musicale che già aveva a contratto le opere del compositore
albionico.
L’organico è di piccola orchestra,
soltanto 12 strumentisti (più il maestro cui è affidata la parte del
pianoforte, che accompagna i recitativi): uno al flauto (più ottavino e flauto
contralto); uno all’oboe (più corno inglese); uno al clarinetto in SIb (più
clarinetto basso); uno al fagotto; uno al corno in FA; uno alle percussioni
(triangolo, frusta, tamburo, timpani, tamburo militare, tamburo tenore, tamburo
basso, piatti sospesi e gong); uno all’arpa; cinque agli archi (vl1-2, vla, vc,
cb). È un organico da camera che
Britten userà, con piccole divergenze, anche in altre due opere successive: la
poco eseguita Albert Herring e la
famosissima The Turn of the Screw.
La struttura dell’opera è assai
semplice e simmetrica: due atti (della durata di circa 50 e 60 minuti)
costituiti ciascuno da due macro-scene divise da un interludio e precedute da
un’introduzione. Nel primo atto, dopo l’introduzione, la prima scena raffigura
l’accampamento dei romani (con le discussioni fra i tre generali sulla fedeltà
di mogli e compagne); l’interludio ci racconta del forsennato galoppo notturno
di Tarquinio dal campo alla casa di Lucrezia, incluso il guado del Tevere; la
seconda scena è all’interno della casa di Lucrezia a Roma, dove troviamo la
moglie di Collatino con le due donne che vivono con lei, che ricevono in piena
notte l’inaspettata visita del principe etrusco. Nel secondo atto, dopo
l’introduzione, siamo dapprima nella camera da letto di Lucrezia, che è la
scena dello stupro; segue l’interludio in cui i cori piangono la sorte della donna; e infine restiamo nella stessa
casa di Lucrezia, che sarà teatro del tragico epilogo con il suicidio della
donna.
La presenza dei Cori (in realtà solo due voci: un tenore e un soprano) serve a
raccontare antefatti storico-antropologici (lo scenario dell’azione piuttosto
che le origini della fallace fortuna etrusca) e anche a spiegare ciò che si
vede in scena, sostituendosi o sovrapponendosi alle voci dei protagonisti. Ma
soprattutto si incarica di trarre dalle vicende una morale cristiana: sì, poiché il coro vive di fatto in mezzo a noi,
millenni dopo quel 509 a.C. in cui si svolsero i fatti, e li racconta
leggendoli su libri di storia (come il citato Ab Urbe condita) commentandoli però alla luce del messaggio
cristiano. Il che ha attirato sull’opera e su Britten qualche critica magari
non proprio ingiustificata.
Quanto ai personaggi, sono tre maschi
ed altrettante femmine: Tarquinio Sestio,
figlio del re il Superbo, Lucio Giunio
Bruto (che spodesterà i re etruschi - facendo sollevare contro di loro i
romani, proprio a seguito dello stupro - per fondare la Repubblica) e Lucio Tarquinio Collatino, sposo di
Lucrezia; la quale Lucrezia è
affiancata dalla nutrice Bianca e
dall’ancella Lucia.
La figura del cattivone Tarquinio emerge dal libretto e dalla
musica assai meno categoricamente collocata nel regno del male di quanto
non sia nelle fonti storiche, ed anche in Shakespeare. Lì l’etrusco arriva al
livello massimo di abiezione, allorquando ricatta Lucrezia minacciando di
ucciderla, dopo lo stupro, e di uccidere quindi un suo servo gettandone poi il
cadavere nudo sopra di lei per rovinarle, anche da morta, la reputazione, e
salvando la propria presentandosi come il giustiziere di una fedifraga e del
suo abietto stallone.
Questo particolare invero disgustoso
non è per nulla ripreso nel libretto, dove invece il principe sembra quasi genuinamente
apprezzare e lodare le virtù di Lucrezia, allorquando cade nella trappola
tesagli da Giunio – geloso non tanto della donna ma di Collatino, che
dall’onestà della moglie poteva trarre vantaggi politici su di lui – che ne
stuzzica l’orgoglio sostenendo che quella donna è casta solo perché nessuno
attenta alla sua virtù. Ben sa, Giunio, che le lodi di Tarquinio a Lucrezia
nascondono il suo inconscio desiderio di possedere – finalmente, dopo una
moltitudine di puttane, professioniste o dilettanti! – una donna vera, sana, forte,
oltre che avvenente, che vive ispirandosi a - e praticando - princìpi di onestà
e fedeltà… insomma, un essere quasi introvabile in quel mondo piuttosto
depravato, e quindi preda massimamente appetibile.
Ma anche quando Tarquinio penetra
nella stanza da letto di Lucrezia e la sveglia con un bacio, cerca dapprima di
conquistarla con le antiche e in fin dei conti naturali e persino legittime
armi della seduzione, blandendo la donna con frasi poetiche ed ammalianti, che farebbero cascare qualunque altra ai suoi
piedi.
È certo il suo smisurato ego che lo spinge ad immaginare di poter
raggiungere l’obiettivo in forza delle sue virili qualità positive, e non in
forza della… forza. Ma poi, di fronte
alla fermezza e alle resistenze di Lucrezia, nel suo animo di superbo subentra l’inevitabile senso di frustrazione da fallimento e da
respingimento, e lo stupro è l’atto estremo e disperato che rimane da compiere
ad un uomo irreparabilmente sconfitto, umiliato e distrutto precisamente sul
terreno dell’orgoglio e dell’amor proprio.
Qui in Duncan-Britten i cori
commentano la scena dello stupro con cristiana compassione, invocando la
Vergine perché aiuti l’umanità a ritrovare Dio, anzi le tre distinte persone
della Trinità. Ma insuperabile, nel
suo lucido, laico e crudo realismo, è il commento di Shakespeare, che coglie in pieno il tragico senso dell’odioso atto,
un atto che umilia la vittima e, letteralmente, impoverisce il carnefice:
But
she hath lost a dearer thing than life,
And he hath won what he would lose again:
This forced league doth force a further strife;
This momentary joy breeds months of pain;
This hot desire converts to cold disdain:
Pure Chastity is rifled of her store,
And Lust, the thief, far poorer than before.
And he hath won what he would lose again:
This forced league doth force a further strife;
This momentary joy breeds months of pain;
This hot desire converts to cold disdain:
Pure Chastity is rifled of her store,
And Lust, the thief, far poorer than before.
Quanto a
Giunio (che Duncan-Britten
accreditano come romano doc, mentre
era in realtà etrusco, nipote del Superbo…) qui ci appare come un cinico e ambiguo arrampicatore: geloso di
Collatino (per via di Lucrezia) ordisce una trama che gli farà prendere due
piccioni con una fava: creare difficoltà per il rivale (mettendone in cattiva
luce la moglie) e contemporaneamente avere il pretesto (lo stupro da parte di
Tarquinio) per guidare Roma alla sollevazione contro l’etrusco e divenire di
tale sollevazione il principale beneficiario.
Il povero
Collatino è quello che ci fa la figura più grama, come capita a tutte le
persone normali, oneste e con la testa sulle spalle: perchè verrà alla fine
tradito persino dalla sua stessa moglie che, pur di attestare pubblicamente e
orgogliosamente la sua rettitudine, si toglierà la vita, lasciando lui, che
l’aveva già magnanimamente compresa e assolta da ogni colpa, in brache di tela.
___
Della musica
si può dire che – se non proprio un capolavoro – è comunque di altissimo pregio
e profondità. A partire dal motto di sei
pesanti accordi – di durata decrescente - di tutta l’orchestra, che aprono
l’opera, sulla triade di DO minore, ma che sono resi atrocemente dissonanti dal
REb che si aggiunge in viola, violini, arpa e oboe:
È proprio
l’annuncio di una tragedia, e questo motto si ripete, diversamente armonizzato,
per altre cinque volte nel corso dell’introduzione, ad intercalare i racconti
dei cori, che ci informano della situazione politica di Roma, passata sotto il
potere etrusco con Tarquinio il Superbo.
Particolarmente cruda la quarta apparizione, caratterizzata dalla presenza di
un tritono (DO-SOLb) sul racconto
delle malefatte dell’etrusco ai danni della famiglia di Re Servio, di cui
Tarquinio sposò due figlie, ammazzando la prima e facendo della seconda la sua complice
nel regicidio, che portò all’instaurazione del suo governo del terrore. La
quinta apparizione (sul LAb) introduce la chiosa filosofica del coro femminile:
È un assioma tra i re usare una minaccia straniera per nascondere
il male interno (allude alle guerre inventate da Tarquinio
per consolidare il suo potere… nulla di nuovo sotto il sole!)
Altro tema ricorrente è quello esposto nell’introduzione del
primo atto, in un Solenne DO maggiore
(con venature di minore) da entrambi i cori che ci giustificano la loro
presenza: Mentre
noi staremo qui come due osservatori tra quella scena e il pubblico presente,
guarderemo queste umane passioni e questi anni con occhi che un tempo hanno
pianto con le lacrime di Cristo.
Queste stesse
identiche parole le riascolteremo nell’introduzione del secondo atto, cantate
sulle stesse note, semplicemente trasposte in LA maggiore. Note che ritorneranno
proprio all’epilogo, e nuovamente in DO, allorquando i due cori si congederanno
così: Da quando Tempo e Vita hanno avuto inizio, il grande amore è sempre
stato profanato dal fato o dall’uomo. Ora, con parole stanche e con queste
scarne note tentiamo di decorare di canto la tragedia umana.
Meticolosa la
cura di Britten nell’evocare suoni di natura: l’arpa che simula i grilli, il
contrabbasso a imitare i rospi, nell’afa serotina che opprime l’accampamento
romano.
Peculiare il
breve motivo con cui viene inizialmente dipinta Lucrezia. È Tarquinio ad
esporlo, mostrando un interesse sospetto per la virtuosa moglie di Collatino, allorquando
raccoglie l’invito di quest’ultimo a brindare per chiudere il battibecco sorto
fra i tre generali riguardo la fedeltà delle donne (la sera precedente alcuni
di loro avevano fatto una visita a Roma per sincerarsi del comportamento delle
mogli, con risultati invero sconfortanti, Lucrezia esclusa):
La melodia
ondeggiante (una specie di gruppetto
dilatato) esprime efficacemente la nobiltà e la bellezza austera della figura
della donna casta e fedele, ma anche il brivido di concupiscenza che ha invaso
l’animo dell’etrusco!
E qui nasce un motivo che ricorrerà precisamente altre tre volte nell’opera, il cui incipit è inconfondibile: FA-SOLb/RE-SI). Lo si ode ora nel canto del coro maschile, che sottolinea come la gelosia si stia impadronendo dell’anima di Giunio: Oh, my God, with what agility does jealousy jump into a small heart and fit till it fills it, then breaks that heart (Oh mio Dio, con quale agilità la gelosia si tuffa in un piccolo cuore e lo pervade e lo riempie fino a spezzarlo). Qui il motivo, contrappuntato dall’arpa che storpia il tema di Lucrezia, è seguito dall’imprecazione di Giunio sul nome e sul tema della donna.
Analoga sequenza troviamo verso la fine dell’Interludio del primo atto (un brano davvero straordinario, che accompagna la corsa sfrenata di Tarquinio verso Roma) al momento in cui il principe etrusco, che sta galoppando a briglia sciolta, si trova la strada sbarrata dal Tevere e decide finalmente di guadarlo: Now stallion and rider wake the sleep of water disturbing its cool dream with hot flank and shoulder. Tarquinius knows no fear! He is across! He’s heading here! (Il principe arde di desiderio e quindi osa! Ora stallone e cavaliere destano le acque dormienti, disturbandone i freddi sogni con i fianchi e le spalle palpitanti. Tarquinio non conosce la paura! Ha attraversato il fiume! Si sta dirigendo qui!) È quello stesso motivo che si ripresenta, sovrapponendosi allo sciacquìo dei flutti attraverso i quali cavallo e cavaliere si slanciano, che invece è evocato dal tema di Lucrezia, che ribolle in tutta l’orchestra, prima che il coro maschile invochi drammaticamente il nome della donna:
E qui nasce un motivo che ricorrerà precisamente altre tre volte nell’opera, il cui incipit è inconfondibile: FA-SOLb/RE-SI). Lo si ode ora nel canto del coro maschile, che sottolinea come la gelosia si stia impadronendo dell’anima di Giunio: Oh, my God, with what agility does jealousy jump into a small heart and fit till it fills it, then breaks that heart (Oh mio Dio, con quale agilità la gelosia si tuffa in un piccolo cuore e lo pervade e lo riempie fino a spezzarlo). Qui il motivo, contrappuntato dall’arpa che storpia il tema di Lucrezia, è seguito dall’imprecazione di Giunio sul nome e sul tema della donna.
Analoga sequenza troviamo verso la fine dell’Interludio del primo atto (un brano davvero straordinario, che accompagna la corsa sfrenata di Tarquinio verso Roma) al momento in cui il principe etrusco, che sta galoppando a briglia sciolta, si trova la strada sbarrata dal Tevere e decide finalmente di guadarlo: Now stallion and rider wake the sleep of water disturbing its cool dream with hot flank and shoulder. Tarquinius knows no fear! He is across! He’s heading here! (Il principe arde di desiderio e quindi osa! Ora stallone e cavaliere destano le acque dormienti, disturbandone i freddi sogni con i fianchi e le spalle palpitanti. Tarquinio non conosce la paura! Ha attraversato il fiume! Si sta dirigendo qui!) È quello stesso motivo che si ripresenta, sovrapponendosi allo sciacquìo dei flutti attraverso i quali cavallo e cavaliere si slanciano, che invece è evocato dal tema di Lucrezia, che ribolle in tutta l’orchestra, prima che il coro maschile invochi drammaticamente il nome della donna:
Tanto agitata
e a volte scomposta era la musica nel campo romano, quanto è serena e quasi
eterea quella che si ode in casa di Lucrezia, come nell’introduzione della
seconda scena, atto primo, affidata all’arpa:
E tale rimane per
la prima parte della scena, eccezion fatta per una comprensibile agitazione che
subentra allorquando Lucrezia crede di sentire un rumore alla porta… Mirabile il
momento della piegatura delle lenzuola, con la voce del coro femminile che la
descrive mentre Bianca e Lucia cantano dolci frasi musicali sull’unica sillaba Ah! Infine torna un’atmosfera agitata
quando i cori annunciano l’approssimarsi di Tarquinio (il cui passaggio
attraverso la città è accompagnato da mute di cani abbaianti e fa svegliare
anzitempo i galli!)
L’arrivo di
Tarquinio crea peraltro in casa di Lucrezia un disagio solo momentaneo, presto dissipato
dall’atteggiamento (apparentemente) innocente del principe che riceve (e
restituisce) la buonanotte dalle
donne (su una cullante melodia) e poi ne porge una speciale a Lucrezia,
sussurrandone il nome sul suo inconfondibile tema:
Anche
l’introduzione al second’atto è una specie di lezione di storia, che ci ragguaglia
su ragioni e circostanze antropologiche e politiche che portarono gli etruschi
a conquistare Roma. Violoncello e clarinetto basso espongono subito un tema
cupo, ripreso poi e sviluppato da tutti gli strumenti e seguito da un
martellante motivo caratterizzato da una terzina seguita da un inciso giambico.
Il primo tema
comparirà poco dopo – sulle parole Now the she-wolf sleeps at night (Ora la lupa dorme di notte) - in bocca a Collatino, Giunio
e alle due donne di casa:
Il motivo
martellante invece supporterà la parola d’ordine Down with the Etruscans! (Abbasso
gli Etruschi!) con cui i romani auspicheranno la fine del potere etrusco su
Roma e il ritorno del governo della città ai suoi legittimi abitanti, cosa che
avverrà precisamente poco dopo i fatti qui narrati e proprio ad opera dei due
generali romani protagonisti del dramma:
La scena dello
stupro è introdotta da una cullante melodia (Allegretto comodo, 3/4) che sottolinea il sonno sereno di Lucrezia,
descrittoci dal coro femminile, e poi da un brano più mosso e misterioso, dove
il coro maschile segue i passi furtivi di Tarquinio che si avvicina alla camera
da letto della sua preda, concludendo il suo racconto con un accorato quanto
inascoltato Back,
Tarquinius! (Indietro, Tarquinio!)
Il quale
Tarquinio ora è ai piedi del letto di Lucrezia e lì rimane per un po’, colpito
dalla sua innocente bellezza e canta, in un celestiale MI maggiore, tutta la
sua stupefatta ammirazione per la donna:
Mirabile
l’intervento del coro femminile, che invita Lucrezia a continuare a dormire,
mentre l’etrusco si prepara a svegliarla con un bacio. Bacio che lei
contraccambia, convinta com’è, nel sonno, di essere fra le braccia del suo
Collatino…
Qui subentra, al
risveglio della donna, la scena (Allegro
agitato) che si concluderà con lo stupro. Essa raggiunge un climax sulle parole di Tarquinio che
paragona la furia del proprio sangue ad una piena del Tevere, che ribolle nelle
quartine di semicrome degli archi. Al che Lucrezia domanda, enfaticamente: Is this the Prince
of Rome? Al che Tarquinio
risponde: Io … sono il tuo Principe!
Tarquinio
afferra Lucrezia fra le sue braccia e i cori si intromettono, cercando
disperatamente di dissuaderlo dal suo proposito, ma l’inevitabile sta ormai
arrivando, quando l’etrusco strappa le lenzuola dal letto e minaccia Lucrezia
con la spada. Qui abbiamo una mirabile sospensione dell’azione, realizzata
nientemeno che con un coro a cappella,
dove Tarquinio, Lucrezia e i due cori sembrano accettare, estasiati quanto
impotenti, l’ineluttabile epilogo che sta ormai per compiersi: Guardate
come il centauro rampante ascende al cielo e serve il sole con tutto il suo
seme di stelle. Ora il grande fiume sotterraneo scorre attraverso Lucrezia e
Tarquinio ne è sommerso.
Il motivo che lo sostiene è la terza apparizione di quello udito già due volte nel primo atto (FA-FA#/RE-SI):
Il motivo che lo sostiene è la terza apparizione di quello udito già due volte nel primo atto (FA-FA#/RE-SI):
L’Interludio che segue è macroscopicamente
suddiviso in due parti: dapprima l’agitatissima evocazione dello stupro (La virtù assalita
dal peccato…) e poi la
pietosa (e già ricordata) invocazione dei cori alla misericordia
cristiana.
Nella prima
parte della seconda scena (il mattino su Roma) incontriamo eteree atmosfere
musicali (che Britten aveva già introdotto nel Peter Grimes) che contrastano fortemente con quelle della scena
precedente e dell’interludio: il lungo duetto fra Bianca e Lucia, rallegrato
ulteriormente dall’arrivo dei fiori in gran quantità, rappresenta uno squarcio
di serenità e quasi di beatitudine - portate dalla Natura – che presto lascerà
il posto nuovamente allo sconforto e all’agitazione, al momento dell’arrivo di
Lucrezia, uscita dalla sua camera.
La quale, dopo
aver ordinato di spedire un messaggero a richiamare a casa il marito, esplode
in un violento monologo, che culmina nella disperata esternazione incentrata
sul proprio nome, cantato precisamente sul motivo esposto nel primo atto dal
suo stupratore (qui un semitono più alto):
Ecco poi il
lungo lamento della donna, che contempla con amarezza i fiori (solo loro sono
casti…) prima di tornare nelle sue stanze.
Dopo
l’intermezzo dedicato ai ricordi che Bianca esterna dei tempi della
fanciullezza di Lucrezia si arriva alla scena finale del dramma, con il ritorno
a casa di Collatino, accompagnato da Giunio, che aveva sospettato tutto fin
dalla sera precedente. Efficacissimo il Poco
adagio e dolente che sostiene l’amaro incontro dei due sposi, tutto pervaso
dal suono mesto del corno inglese, una parte che non sfigura rispetto a quella
del Tristan.
Ora abbiamo la confessione di Lucrezia (sì,
confessione, perché lei si sente in qualche modo colpevole…) in un’atmosfera
greve, illuminata dalla quarta ed ultima apparizione di quel motivo (FA-SOLb/RE-SI)
già udito in precedenza, sulle parole Oh, my love, our love was too rare for life to tolerate or fate forbear
from soiling. For me this shame, for you this sorrow (Oh, amore mio, il nostro
amore era troppo prezioso perché la vita lo tollerasse o il fato gli impedisse
di insozzarsi. A me questa vergogna, a te questo dolore).
Ora le voci di
Collatino e Giunio cantano insieme, ma concetti diversi: il marito piange la
sposa perduta, l’altro generale comincia subito ad approfittare delle
circostanze, aizzando i romani contro gli stupratori etruschi.
Si aggiungono
poi le voci delle due donne e infine quelle dei cori, a formare un sestetto che
piange sulle pene e il dolore che gli uomini si danno per inseguire chimere.
Alla fine sono
i cori che traggono la morale cristiana,
prima del loro definitivo commiato dal pubblico.
___
Lo spettacolo
di ieri sera - in un teatro con molti, davvero troppi posti vuoti – si merita
un incondizionato elogio. Praticamente perfetto in tutte le sue componenti, a
cominciare dall’allestimento di Abbado,
dove l’austerità di scene e costumi si coniuga perfettamente con il sapiente
impiego di luci (tutto di Gianni Carluccio)
e con le immagini di Luca Scarzella.
I due cori
interagiscono anche fisicamente con l’azione, e ciò è fatto sempre in modo
appropriato e nel pieno rispetto del testo. I movimenti dei personaggi sono
sempre misurati, proprio da tragedia greca, ed assecondano alla perfezione lo
spirito, oltre che la lettera, della partitura.
Le otto voci
sono tutte da lodare, a partire dalla Lucretia di Kirstin Chavez, vero contralto di grande potenza ed espressività;
per continuare con Gordon Gietz che
ha cantato assai efficacemente la parte del Coro maschile. Un filino debole, a
tratti, la voce di Susannah Glanville
(Coro femminile); bravissime le due donne di casa, in particolare Gabriella Sborgi (Bianca) mentre Laura Catrani (Lucia) ha forse ecceduto
in qualche forzatura, sulle note alte. Anche i tre maschi mi son parsi
all’altezza, in particolare il Tarquinius di Jacques Imbrailo; ma Joshua
Bloom (Collatinus) e Philip Smith
(Junius) non hanno affatto demeritato.
Gli
strumentisti (in pratica le prime parti,
guidate da Yehezkel Yerushalmi) del Maggio (erano 13 anziché 12, avendo
separato, e posto ai due estremi della buca, la parte dei timpani dal resto
delle percussioni) hanno confermato il loro altissimo livello, dovendo in
pratica suonare tutte parti solistiche.
Jonathan Webb (che ha anche accompagnato al
pianoforte i recitativi) ha diretto da par suo e con grande sensibilità questa
difficile partitura, di cui ha saputo rendere con precisione e cura ogni
singolo dettaglio.
Alla fine
grandi manifestazioni di consenso da parte del pur ristretto pubblico (pochi ma buoni, vien da dire…).
Personalmente consiglio gli appassionati di approfittare della recita di
domenica 7 a Reggio e di quelle prossime a Firenze per godersi uno spettacolo
davvero eccellente.
Nessun commento:
Posta un commento