XIV

da prevosto a leone
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21 febbraio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 22


Due Mozart (bambino e adulto) introducono un Bartók teatrale nel concerto di questa settimana, diretto da Gaetano D’Espinosa.  

Apre la serata una delle prime opere del Teofilino, la Sinfonia K16, probabilmente composta a Londra (quando ancora non aveva compiuto 9 anni!) in uno dei viaggi in giro per l’Europa cui il padre Leopold lo abituò fin dalla più tenera età, presentandolo al pubblico quasi come un fenomeno da baraccone…

Sinfonia in chiaro stile italiano: quello di Johann Christian Bach, operante in Albionia proprio in quel periodo. Oltre agli archi, solo due coppie di oboi e corni, più (facoltativamente) fagotto e cembalo per il basso. Ecco quindi l’Allegro molto di apertura in struttura bitematica (MIb d’impianto e dominante SIb) con doppia esposizione e successivo doppio sviluppo, con divagazioni tonali sul primo tema, dal MIb al DO minore, e il secondo che si allinea alla tonica.

Il centrale Andante ha pure struttura bipartita, con da-capo per entrambe le sezioni: la prima inizia in DO minore, ma subito il corno (battute 7-10, poi 14-17) espone in MIb maggiore un motivo di 4 note (MIb-FA-LAb-SOL) che ritroveremo nell’ultimo tempo dell’ultima sinfonia, là in DO (DO-RE-FA-MI): un frammento del Magnificat gregoriano (8° modo) che evidentemente era già entrato in testa al piccolo genio (e più non gli uscirà). La seconda sezione principia in MIb ma poi vira al DO minore, sul quale chiude.

Il Presto finale è in realtà un ibrido fra un semplice rondo (A-B-A-B-A) e un’anticipazione di scherzi a venire: sia nel rapido tempo ternario che nella struttura, dove manca per la verità solo un trio per farne appunto uno scherzo. La sezione A è in MIb, la B (manco a dirlo…) nella dominante SIb.  

D’Espinosa si premura di togliere i secondi da-capo dei primi due movimenti, così la sinfonietta diventa una… sinfoniettina, proprio un antipasto leggero in vista dei piatti ben più corposi che ci aspettano.
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Il primo dei quali è il celebre quanto difficile ed austero Concerto in RE minore (il K466). Il Direttore  lo attacca esasperando le sincopi degli archi, il che fa lievitare il già alto grado di drammaticità dell’opera. Che ha per protagonista Davide Cabassi, l’estroverso cicciottello che deve farsi perdonare un tutt’altro che impeccabile Imperatore propostoci qui in chiusura della stagione passata. E per farlo sceglie proprio quel concerto che ha per molti versi precorso i tempi dell’ultimo di Beethoven, anche se le due cadenze proposte non sono quelle ormai tradizionali del genio di Bonn, ma quelle di Brendel e Badura-Skoda, che se le erano reciprocamente dedicate.


Ecco, bisogna dare atto al Davidone di averci restituito il maltolto con ampi margini di interesse! Particolarmente felici i primi due movimenti, più ordinario (a mia impressione) il finale, ma nel complesso una prestazione degnissima. Così viene seguita da un bis proprio beethoveniano, che Cabassi dedica all’orchestra che lo ha splendidamente supportato: l’Andante dalla Patetica.   
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A conferma del crescente interesse de laVERDI per la cosiddetta lirica, ecco che viene riproposta – a distanza di quasi 5 anni (allora con Caetani) - l’operina composta nel 1911 (a 30 anni) da Béla Bartók, dal titolo che pare un’imprecazione: Kékszakállú, che per noi sarebbe poi il famigerato Barbablu!

Avendo già scritto alcune note di presentazione dell’opera in occasione di una sua produzione fiorentina, ad esse rimando gli inguaribili perditempo…

La programmazione di opere in forma di concerto fa regolarmente sorgere dubbi, per via dei rischi che presenta, dal punto di vista della pienezza della fruizione da parte del pubblico. Premetto che sono personalmente un fautore di questo genere di proposta, in specie per quelle opere dove il soggetto è un puro pretesto e un vuoto contenitore per grande musica, alla quale ciò che si vede in scena fornisce un valore aggiunto prossimo allo zero. Peggio ancora quando un soggetto di una certa profondità viene bellamente manomesso e adulterato da regìe cervellotiche, che raggiungono il mirabile risultato di lasciare lo spettatore interdetto a pensare ai profondi significati che il regista ci vuol trasmettere, col risultato di perdere la concentrazione sulla musica, e con questa la bellezza dell’insieme; oppure lo lasciano sconcertato di fronte alla difformità fra ciò che odono le sue orecchie (testo e musica) e ciò che vedono i suoi occhi.

Certo, l’esecuzione senza la scena presenta le sue belle controindicazioni, la più grave consistendo nella mancanza di informazioni di contesto, normalmente fornite dalle scenografie, dai costumi e dai movimenti dei protagonisti, come suggeriti a regista e scenografo (ammesso che li vogliano rispettare!) da tutte le note di cui gli autori hanno corredato libretto e partitura. Mancanza che può mettere in seria difficoltà lo spettatore inesperto di quell’opera.

Ma allora domandiamoci: non è questo il classico scenario di ogni poema sinfonico? Dove mancano scene e testo e dove anche le note esplicative – dato e non concesso che l’autore le abbia vergate in partitura – non vengono comunicate allo spettatore attraverso schermi o display? Eppure si può apprezzare il lisztiano Les Préludes senza conoscerne il riferimento letterario a Lamartine (del resto appiccitatovi a posteriori!) perché la musica ci cattura e ci piace, anche istintivamente. Mentre magari (de gustibus) si può restare indifferenti o delusi dall’Isola dei morti di Rachmaninov, pur conoscendo ed apprezzando le cinque versioni del quadro di Böcklin che lo ispirò…

Insomma: alla fine, quando di mezzo c’è la musica, è questa che ha sempre (nel bene e nel male) l’ultima parola, poche balle. E perciò un poema sinfonico è – paradossalmente – avvantaggiato rispetto ad un’opera data in forma di concerto, poiché impegna dell’ascoltatore normale (non specializzato/preparato) soltanto la capacità ricettiva dei suoni, mentre l’altra in qualche modo impone anche la comprensione del soggetto letterario, che senza il supporto della scenografia può diventare ardua.  

Veniamo ora al nostro Barbablu. Che nacque non solo come opera di teatro musicale, ma che è ricca di elementi e indicazioni spiccatamente teatrali, per di più legate ad esplicite o criptiche allusioni di natura simbolista e/o esoterica: le sette porte e i rispettivi ambienti che dietro ad esse si celano; i colori che emanano dalle sale all’apertura delle porte medesime; il sudore e i rantoli delle pareti del castello; le porte che, dopo essere state aperte, progressivamente si chiudono…

In più, Barbablu presenta purtroppo per noi diverse difficoltà di comprensione: a partire dalla lingua magiara, che è fra le più ostiche e distanti da tutte le altre che più o meno possiamo in qualche modo masticare (né neolatina, né anglosassone, né eurorientale, ma… finnica!) E d’altra parte l’autore ha composto la musica – dopo lunghe e faticose ricerche - precisamente in funzione dell’idioma magiaro, il che comporta altri e più gravi problemi quando si decide di cantare il testo in altra lingua. Poi aggiungiamo la musica stessa, dove c’è poca tonalità e molta modalità, atonalità e dissonanze… insomma, musica che è tutto fuorchè di facile e rapida digestione.

Ma allora, l’esecuzione in forma di concerto del Barbablu comporta il rischio di compromettere irrimediabilmente la comprensione (prerequisito) e quindi (conseguenza) l’apprezzamento da parte dell’ascoltatore dei contenuti drammatici (le mille sfumature, i possibili significati e i reconditi misteri) e musicali dell’opera? Mah, qui bisognerebbe fare studi socio-demo-musicologici per stabilirlo; oppure fare degli exit-poll all’uscita dal concerto dove si chieda ai presenti di spiegare se e quanto hanno compreso e apprezzato di ciò che hanno udito. Tipo Gurnemanz che intervista Parsifal alla fine della cerimonia del Gral (smile!) E quante facce da oco (iper-smile!) incroceremmo?

Beh, a giudicare dal calore con cui il pubblico ha accolto direttore, orchestra e solisti dovrei dire che le preoccupazioni sono state ampiamente fugate: evidentemente, ancora una volta, la musica - se è di altissimo livello come questa – l’ha sempre vinta.

Detto che l’orchestra non ha mostrato una sola sbavatura nell’intero arco dei 60 e più minuti di impegno e che D’Espinosa l’ha guidata con precisione ed autorevolezza, restano da elogiare i due solisti: Krisztián Cser è uno strepitoso Barbablu, voce di potenza inaudita e di timbro fantastico; Dshamilja Kaiser è forse un filino al di sotto, ma pur sempre una Judit convincente.

Un’ultima notazione riguarda la regìa (occulta, date le circostanze) dell’opera, che ha inventato un finale davvero a sorpresa: per ben due volte, prima al momento della reclusione dietro la settima porta, e poi proprio mentre l’orchestra esalava gli ultimi suoni in pianissimo, ecco che Judit ha cercato di chiamare in suo soccorso, sul telefonino, il padre seduto nelle prime file di platea. Ma essendosi costui fatalmente appisolato, il suo cellulare ha continuato a squillare invano per interminabili secondi, e quando il poveraccio è stato ridestato dagli applausi, ormai la povera Judit era irrimediabilmente perduta!

04 giugno, 2012

Dittico-Bartók al Maggio


Béla Bartók è protagonista al Maggio fiorentino con due diverse opere teatrali: un balletto-pantomima e un dramma. Purtroppo la prima di giovedi scorso è saltata, causa lavori alle strutture del teatro, e così l’esordio è avvenuto ieri pomeriggio, in un Comunale per la verità afflitto da troppi vuoti (il che rinfocolerà le polemiche fra chi apprezza queste proposte e chi vorrebbe solo trilogie popolari, per far cassetta).

Ma il contrattempo più grave si era verificato mesi fa, quando purtroppo quello che doveva essere il grande protagonista dell’evento, Seiji Ozawa, aveva annunciato la propria rinuncia per serie ragioni di salute; ed anche il suo (quasi) naturale sostituto, Peter Eötvös, non ha potuto farcela. Così la direzione è affidata al 44enne Zsolt Hamar, magiaro pure lui, quindi in qualche modo di casa con Bartók

La produzione è giapponese (con scene della DGT) opera del Saito Kinen Festival, di cui Ozawa è più che un partner, quasi un padre fondatore, e certo la sua simbiosi con la regìa di Jo Kanamori avrebbe garantito un altissimo livello allo spettacolo, come avvenne lo scorso anno a Matsumoto. Spettacolo che ha comunque riscosso un notevole successo.


Dapprima viene presentato Il Mandarino miracoloso (o meraviglioso, come si usa più spesso titolare) in forma integrale e con le coreografie di Kanamori e i complessi Noism Dance Company e MaggioDanza.     
   
Coreografie assai intelligenti, con i mimi a impersonare l’ambiente (a cominciare dall’iniziale caos del traffico) in cui si muovono i 5 personaggi principali (i tre malfattori, qui individuati nel padre e madre adottivi della ballerina Mimì, e la di lei cognata; e appunto Mimì e il Mandarino) e i 2 secondari (i primi avventori della ragazza, che qui sono a ruoli modificati rispetto all’originale, dove lo squattrinato è il primo e non il secondo). Il Mandarino ha incollato alle spalle una specie di ombra, che in realtà lo pilota continuamente nei movimenti, evidentemente rappresentando tutto il complesso di vincoli materiali, venali e prosaici cui il nostro soggiace. E di cui si libererà solo alla fine, dopo aver provato almeno per una volta un poco di amore e prima di… tirare le cuoia.

Ottima prova di Hamar e dell’orchestra (clarinetto, manco a dirlo, in testa!) e breve ma efficace intervento del coro femminile, a sottolineare la luminescente trasformazione finale del Mandarino.

Calorosa l’accoglienza per tutta la troupe, in particolare per Sawako Iseki (Mimì) e il Mandarino Satoshi Nagakawa.


Poi il pezzo forte del programma, Il castello del duca Barbablu (in magiaro sarebbe Kékszakállú, nome che a noi pare più che altro uno sfottò piuttosto volgare, smile!) Il Maggio fu il primo teatro italiano ad ospitare l’opera, nel lontano 1938, a 20 anni dalla prima, e dopo un lungo periodo in cui l’opera rimase ineseguita a causa delle proibizioni del governo militare di Miklós Horthy a citare sulle locandine il nome del librettista Balázs (di orientamento comunista) il che convinse Bartók a ritirare l’opera per parecchi anni.    
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Opera di chiara ascendenza al simbolismo francese, che riprende molto liberamente il libretto di Maeterlinck per Ariane et Barbe-bleue di Dukas. Nel quale, contrariamente alla tradizione consolidata da Perrault (dove le 7 mogli perdono fisicamente la testa per il protagonista) il finale è quasi lieto, con Ariane che se ne va incolume, e Barbablu cui viene risparmiata la vita, e così continua a starsene con le altre 5 mogli che lo accudiscono amorevolmente… come brave schiave (!)

Anche Béla Balázs non fa morire fisicamente nessuno (per lui le mogli precedenti sono 3) ma la sua è una storia dalle mille implicazioni: psicologiche, sessuali, filosofiche, antropologiche (per citarne solo alcune). Già il Prologo (recitato da un menestrello) pone questioni da nulla, del tipo: dov’è la scena, dentro o fuori? (pare un soggetto creato apposta per Robert Carsen… smile!, ma lui non l’ha ancora abbordato, credo.)

La prima cosa certa che si evince dal libretto di Balázs è che è stata Judit a cercare Barbablu e non viceversa (!): cosa non proprio scontata, dati i… precedenti. Le prime parole che i due si scambiano in scena sono continue e insistite domande che l’uomo fa alla donna, per sincerarsi della sua persistente volontà di seguirlo, a dispetto del fatto che il suo castello è una ciofeca, a confronto con quello del padre di lei, e che i di lei familiari non l’hanno presa per niente bene, la sua fuga con lui; alle cui domande lei sempre risponde con la massima sicurezza, rivelandoci addirittura di aver lasciato, oltre alla famiglia, pure il promesso sposo, pur di seguire il duca fin lì. E ben sapendo (o sospettando) che il duca medesimo abbia parecchie e turpi cose da nascondere!

Allora, come la mettiamo qui? È Judit una pazzoide, così morbosamente attratta da un uomo, da affrontare una prospettiva terribile, compiendo un gesto a dir poco temerario, e ficcandosi di proposito nella tana-del-lupo? O una stupidella mossa da pura curiosità, che sta giocando, senza saperlo, col fuoco? O più probabilmente una donna affetta da complesso di redenzione-del-peccatore, che si è messa in testa di portare il fedifrago sulla retta via? In effetti alcune sue esternazioni ce lo fanno pensare, ad esempio quando, a precisa domanda di Barbablu (Perché sei venuta?) lei risponde che è lì per aiutarlo a riscaldare il suo castello con le sue labbra e il suo corpo (qui il simbolismo sconfina peraltro dall’erotismo nella pornografia, smile!) Quindi: una ninfomane sado-maso amante del rischio? Mah… forse tutte le cose insieme.

E lui, il duca, che tipo sarebbe? Uno di quelli che non-devono-chiedere-mai, perché per le donne sono come il miele – o la m… - per le mosche? Oppure un inguaribile narcisista sognatore e perennemente insoddisfatto, che ha bisogno di sempre nuove sensazioni estetico-sessuali (mattino-pomeriggio-sera-notte, come per le previsioni del tempo, smile!) per soddisfare il proprio io? (Dopodichè, invece di limitarsi a metterle-in-lista, come fa DonGiovanni, lui le donne le rinchiude in cantina…) E questo morboso vivere nell’oscurità, proprio à la Tristan, rappresenta forse lo stereotipo del cinico nichilista, che cerca quasi inconsciamente qualcuno(a) che lo salvi, ma sa benissimo che inevitabilmente dovrà tornare all’apeiron? (Finisce con le parole e ora sarà sempre notte… notte… notte.) O incarna per caso il simbolo di tutta la mascolinità universale e delle relative malefatte, dalla tortura alla guerra, alla conquista di sontuose dimore e di sconfinati possedimenti, tutti traguardi raggiunti più che altro spargendo sangue e facendo riempire laghi di lacrime? O ancora: è forse il duca l’espressione esteriore dell’io profondo, che rifiuta ogni contatto con l’esterno e chiude tutte le sue porte di accesso (Perché nessuno penetri qui con lo sguardo)? Ma allora perché, apparentemente riluttando e pur avvertendo per sé e per la donna un pericolo, consegna a Judit, una dopo l’altra, tutte le chiavi delle sue più segrete profondità?

O forse il protagonista-simbolo è proprio il castello (pare che Balázs ci avesse pensato seriamente…): che piange, sospira, sanguina e trema alla presenza degli umani? E le sue sale segrete, non possono essere i repository della conoscenza? Di segreti arcani, misteriosi, spaventosi e… pericolosi per l’Uomo che vi si avventura? (Perché mai Barbablu, a Judit che apre le prime due porte, chiede: che cosa vedi, che cosa vedi?)  
  
Insomma, un soggetto dai cento volti e dalle mille possibili interpretazioni.

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Quanto alla parte musicale, l’opera ha una struttura fortemente simmetrica, che peraltro rispetta la simmetria testuale/scenografica.

Ciascuna delle 9 scene principali (l’Introduzione, la Presentazione e le 7 porte) ha a sua volta una struttura in tre sezioni (nell’Epilogo sono due) come qui sotto schematizzato:



Questo specchietto invece illustra schematicamente l’impiego delle tonalità nelle diverse scene, anche in corrispondenza dei colori prevalenti di ciascuna:

  
Macroscopicamente si percorre un arco che parte dalla tonalità di FA# (nel buio pesto) e dopo essere passato per il RE e il MIb di tesori e giardini, raggiunge il culmine (porta 5, il meraviglioso regno di Barbablu, nella luce più piena) sul DO, a distanza quindi di un tritono (l’antipodo nel circolo delle quinte) dal punto di partenza, per poi tornare al buio del FA# conclusivo.  
   
Non ci sono propriamente temi assimilabili a Leit-motive di buona memoria wagneriana, ma alcuni motivi si distinguono perché ricorrono spesso, come ad esempio il richiamo al protagonista, fatto da Judit, che si presenta talvolta così:

Oppure quello che si riferisce al sangue (ma anche alle lacrime) iniziante con due note a distanza di un semitono, che si ode proprio all’inizio, ma poi torna sotto diverse forme:
Straordinario il DO maggiore che caratterizza l’apertura della quinta porta, mostrando l’abbagliante – e allo stesso tempo retorica e tronfia - bellezza del panorama che da lì si gode:
Nel canto di Barbablu che segue, par di sentire Froh che presenta il Walhall agli dèi, nel finale del Rheingold (!) mentre Judit (praticamente parlando, proprio senza alcun accompagnamento) con un contrasto tremendo commenta attonita la vista mozzafiato con due frasi fatte di otto crome, tutte bemollizzate! 
  
Struggente e piena di cupi presagi l’implorazione di Barbablu a Judit (amami, e nulla chiedimi) poco prima dell’apertura dell’ultima porta:
Ma tutta l’opera è un’autentica miniera di idee musicali, assolutamente appropriate ad evocare in modo straordinario le diverse atmosfere che si presentano all’apertura delle porte, e i sentimenti che scatenano nell’animo dei protagonisti.   
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Bene, come ci è stata proposta qui al Maggio?  
  
L’allestimento nipponico è di assoluto livello, coniugando un approccio moderno (scenografia essenziale e intervento di mimi) con il totale rispetto di libretto e partitura, a volte persino troppo didascalico, come negli abiti dei due protagonisti: palandrana scura (come la notte) per lui, che poi se la sfila alla porta 5, restando in… pigiama tutto bianco, per poi rimettersela dopo la porta 6, passata l’euforia; vestito candido per lei (la luce) che però alla fine viene ricoperta da un mantello scuro (chè è destinata pure lei a finire nell’eterna notte di una cantina). Judit ha anche un’anima (impersonata dalla bravissima Sawako Iseki) che appare in momenti topici del dramma, proprio quando la ragazza è più sottoposta a stress. Così come mimi nero-vestiti rappresentano le ombre del duca in prossimità delle varie porte.   
  
I contenuti delle stanze o non si vedono (già la musica li evoca mirabilmente!) o sono rappresentati da mimi. Fa eccezione l’ultima porta, dalla quale escono temporaneamente le tre mogli del duca, ma tutte, così come poi Judit (la quarta) fermamente pilotate nei loro movimenti da grigie presenze, che le rendono prigioniere dell’oscurità.    
  
Matthias Goerne è stato un efficace Barbablu; personalmente preferirei un baritono puro, con voce più chiara, rispetto a quella piuttosto… ehm, cavernosa di Goerne. Ma immagino che oggigiorno di cantanti che abbiano così bene in repertorio questo personaggio non ne esistano a bizzeffe.  
  
Ottima mi è parsa la Daveda Karanas, forse un poco deboluccia nelle note basse, ma dotata di personalità e di buon timbro, oltre che sicura negli acuti, incluso il DO della porta 5.  
   
Andras Palerdi ha interpretato efficacemente il menestrello che presenta l’opera. Brevissimi tutti i mimi-danzatori italo-nipponici.  
  
Anche qui una piacevole sorpresa è venuta da Zsolt Hamar, che ha mostrato di tenere in pugno la difficile partitura con grande autorità, sia sull’orchestra, che negli attacchi ai cantanti. Orchestra che ha risposto assai bene in tutte le sezioni, inclusi i sei ottoni (3 trombe e 3 tromboni, in luogo dei 4+4 prescritti) e le due arpe, dislocati su palchetti di platea.  
  
Alla fine lunghi e meritati applausi e ripetute chiamate per tutta la compagnia. Peggio per chi ha disertato!