Due Mozart (bambino e adulto) introducono un
Bartók teatrale nel concerto di questa settimana, diretto da Gaetano D’Espinosa.
Apre la
serata una delle prime opere del Teofilino, la Sinfonia K16,
probabilmente composta a Londra (quando ancora non aveva compiuto 9 anni!) in
uno dei viaggi in giro per l’Europa cui il padre Leopold lo abituò fin dalla
più tenera età, presentandolo al pubblico quasi come un fenomeno da baraccone…
Sinfonia in
chiaro stile italiano: quello di Johann
Christian Bach, operante in Albionia proprio in quel periodo. Oltre agli
archi, solo due coppie di oboi e corni, più (facoltativamente) fagotto e
cembalo per il basso. Ecco quindi l’Allegro molto di apertura in struttura
bitematica (MIb d’impianto e dominante SIb) con doppia esposizione e successivo
doppio sviluppo, con divagazioni tonali sul primo tema, dal MIb al DO minore, e
il secondo che si allinea alla tonica.
Il centrale
Andante ha pure struttura bipartita,
con da-capo per entrambe le sezioni: la prima inizia in DO minore, ma subito il
corno (battute 7-10, poi 14-17) espone in MIb maggiore un motivo di 4 note
(MIb-FA-LAb-SOL) che ritroveremo nell’ultimo tempo dell’ultima sinfonia, là in
DO (DO-RE-FA-MI): un frammento del Magnificat
gregoriano (8° modo) che evidentemente era già entrato in testa al piccolo
genio (e più non gli uscirà). La seconda sezione principia in MIb ma poi vira
al DO minore, sul quale chiude.
Il Presto finale è in realtà un ibrido fra
un semplice rondo (A-B-A-B-A) e un’anticipazione
di scherzi a venire: sia nel rapido
tempo ternario che nella struttura, dove manca per la verità solo un trio per farne appunto uno scherzo. La
sezione A è in MIb, la B (manco a dirlo…) nella dominante SIb.
D’Espinosa
si premura di togliere i secondi da-capo
dei primi due movimenti, così la sinfonietta diventa una… sinfoniettina,
proprio un antipasto leggero in vista dei piatti ben più corposi che ci
aspettano.
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Il
primo dei quali è il celebre quanto difficile ed austero Concerto in RE minore (il
K466). Il Direttore lo attacca esasperando
le sincopi degli archi, il che fa lievitare il già alto grado di drammaticità dell’opera.
Che ha per protagonista Davide Cabassi,
l’estroverso cicciottello che deve farsi perdonare un tutt’altro che
impeccabile Imperatore propostoci qui
in chiusura della stagione passata. E per farlo sceglie proprio quel concerto
che ha per molti versi precorso i tempi dell’ultimo di Beethoven, anche se le
due cadenze proposte non sono quelle ormai tradizionali del genio di Bonn, ma
quelle di Brendel e Badura-Skoda, che se le erano
reciprocamente dedicate.
Ecco, bisogna dare atto al Davidone di averci restituito il maltolto con ampi margini di interesse! Particolarmente felici i primi due movimenti, più ordinario (a mia impressione) il finale, ma nel complesso una prestazione degnissima. Così viene seguita da un bis proprio beethoveniano, che Cabassi dedica all’orchestra che lo ha splendidamente supportato: l’Andante dalla Patetica.
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A conferma
del crescente interesse de laVERDI per la cosiddetta lirica, ecco che viene riproposta – a distanza di quasi 5 anni
(allora con Caetani) - l’operina composta nel 1911 (a 30 anni) da Béla
Bartók, dal titolo che pare un’imprecazione:
Kékszakállú, che per noi sarebbe poi il famigerato
Barbablu!
Avendo già scritto alcune note di presentazione dell’opera in occasione
di una sua produzione fiorentina, ad esse rimando gli inguaribili perditempo…
La programmazione di opere in forma di concerto fa regolarmente sorgere
dubbi, per via dei rischi che presenta, dal punto di vista della pienezza della
fruizione da parte del pubblico. Premetto che sono personalmente un fautore di
questo genere di proposta, in specie per quelle opere dove il soggetto è un
puro pretesto e un vuoto contenitore per grande musica, alla quale ciò che si
vede in scena fornisce un valore aggiunto prossimo allo zero. Peggio ancora
quando un soggetto di una certa profondità viene bellamente manomesso e
adulterato da regìe cervellotiche, che raggiungono il mirabile risultato di
lasciare lo spettatore interdetto a pensare ai profondi significati che il
regista ci vuol trasmettere, col risultato di perdere la concentrazione sulla musica,
e con questa la bellezza dell’insieme; oppure lo lasciano sconcertato di fronte
alla difformità fra ciò che odono le sue orecchie (testo e musica) e ciò che
vedono i suoi occhi.
Certo, l’esecuzione senza la scena presenta le sue belle controindicazioni,
la più grave consistendo nella mancanza di informazioni di contesto, normalmente fornite dalle scenografie, dai costumi e dai
movimenti dei protagonisti, come suggeriti a regista e scenografo (ammesso che li vogliano
rispettare!) da tutte le note di cui gli autori hanno corredato libretto e
partitura. Mancanza che può mettere in seria difficoltà lo spettatore inesperto
di quell’opera.
Ma allora domandiamoci: non è questo il classico scenario di ogni poema sinfonico? Dove mancano scene e
testo e dove anche le note esplicative – dato e non concesso che l’autore le
abbia vergate in partitura – non vengono comunicate allo spettatore attraverso
schermi o display? Eppure si può apprezzare il lisztiano Les Préludes senza conoscerne il riferimento letterario a Lamartine
(del resto appiccitatovi a posteriori!) perché la musica ci cattura e ci piace,
anche istintivamente. Mentre magari (de gustibus) si può restare indifferenti o
delusi dall’Isola dei morti di
Rachmaninov, pur conoscendo ed apprezzando le cinque versioni del quadro di Böcklin che lo ispirò…
Insomma: alla fine, quando di mezzo c’è la musica, è questa che ha sempre (nel bene e nel male) l’ultima
parola, poche balle. E perciò un poema sinfonico è – paradossalmente –
avvantaggiato rispetto ad un’opera data in forma di concerto, poiché impegna
dell’ascoltatore normale (non specializzato/preparato) soltanto la capacità
ricettiva dei suoni, mentre l’altra in qualche modo impone anche la
comprensione del soggetto letterario, che senza il supporto della scenografia
può diventare ardua.
Veniamo ora al nostro Barbablu. Che nacque non solo come opera di teatro musicale, ma che è ricca di
elementi e indicazioni spiccatamente teatrali, per di più legate ad esplicite o
criptiche allusioni di natura simbolista
e/o esoterica: le sette porte e i
rispettivi ambienti che dietro ad esse si celano; i colori che emanano dalle sale all’apertura delle porte medesime; il
sudore e i rantoli delle pareti del castello; le porte che, dopo essere state
aperte, progressivamente si chiudono…
In più, Barbablu presenta purtroppo per noi diverse difficoltà di
comprensione: a partire dalla lingua magiara, che è fra le più ostiche e
distanti da tutte le altre che più o meno possiamo in qualche modo masticare
(né neolatina, né anglosassone, né eurorientale, ma… finnica!) E d’altra parte
l’autore ha composto la musica – dopo lunghe e faticose ricerche - precisamente
in funzione dell’idioma magiaro, il che comporta altri e più gravi problemi
quando si decide di cantare il testo in altra lingua. Poi aggiungiamo la musica
stessa, dove c’è poca tonalità e molta modalità, atonalità e dissonanze…
insomma, musica che è tutto fuorchè di facile e rapida digestione.
Ma allora, l’esecuzione in forma di concerto del Barbablu comporta il
rischio di compromettere irrimediabilmente la comprensione (prerequisito) e
quindi (conseguenza) l’apprezzamento da parte dell’ascoltatore dei contenuti
drammatici (le mille sfumature, i possibili significati e i reconditi misteri)
e musicali dell’opera? Mah, qui bisognerebbe fare studi socio-demo-musicologici
per stabilirlo; oppure fare degli exit-poll
all’uscita dal concerto dove si chieda ai presenti di spiegare se e quanto
hanno compreso e apprezzato di ciò che hanno udito. Tipo Gurnemanz che
intervista Parsifal alla fine della cerimonia del Gral (smile!) E quante facce da oco
(iper-smile!) incroceremmo?
Beh, a giudicare dal calore con cui il pubblico ha accolto direttore,
orchestra e solisti dovrei dire che le preoccupazioni sono state ampiamente
fugate: evidentemente, ancora una volta, la musica
- se è di altissimo livello come questa – l’ha sempre vinta.
Detto che l’orchestra non ha mostrato una sola sbavatura nell’intero arco
dei 60 e più minuti di impegno e che D’Espinosa l’ha guidata con precisione ed
autorevolezza, restano da elogiare i due solisti: Krisztián Cser è uno strepitoso Barbablu, voce di potenza inaudita
e di timbro fantastico; Dshamilja Kaiser
è forse un filino al di sotto, ma pur sempre una Judit convincente.
Un’ultima notazione riguarda la regìa
(occulta, date le circostanze) dell’opera, che ha inventato un finale davvero a
sorpresa: per ben due volte, prima al momento della reclusione dietro la
settima porta, e poi proprio mentre l’orchestra esalava gli ultimi suoni in pianissimo, ecco che Judit ha cercato di
chiamare in suo soccorso, sul telefonino, il padre seduto nelle prime file di
platea. Ma essendosi costui fatalmente appisolato, il suo cellulare ha continuato
a squillare invano per interminabili secondi, e quando il poveraccio è stato ridestato
dagli applausi, ormai la povera Judit era irrimediabilmente perduta!
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