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11 febbraio, 2015

Poppea incoronata alla Scala


La stagione della Scala ospita la terza stazione della trilogia monteverdiana (targata Alessandrini-Wilson) con l’ultima opera del grande cremonese: L’incoronazione di Poppea, arrivata ier sera alla quarta recita delle otto in programma.

Opera controversa ed anche da sempre bistrattata per il semplice motivo che non ne esiste – ma nemmeno lontanamente – una versione definibile come authoritative. Lo spettacolo della Scala si basa su una ricostruzione, anzi collazione acritica (sic, sul libretto pubblicato dal Teatro e sulla locandina) del concertatore Rinaldo Alessandrini, che ha ricomposto - a sua sensibilità - i diversi tasselli di un mosaico prendendo tessere dalle due copie manoscritte (nessuna delle quali autografa) della partitura, cosiddette di Venezia e Napoli (le due sedi delle prime rappresentazioni, 1642/3 e 1651). E lo stesso Alessandrini (un esperto assoluto in materia) ammette che non più del 60% della musica di Poppea sia plausibilmente attribuibile a Monteverdi! Fatto sta che il citato libretto reca, come autori cui sono attribuite le musiche, Monteverdi e Cavalli e per la scena conclusiva Sacrati e Ferrari. Ma c’è chi, per il duetto finale, aggiungerebbe alla lista anche tale Filiberto Laurenzi…   
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La vicenda della ricostruzione delle fonti dell’opera è talmente intricata da sfiorare il thriller: ed è un giallo che ancor oggi non ha una conclusione certa, dato che si continuano tuttora a ritrovare in giro tracce e indizi che di volta in volta orientano in modo diverso le… indagini, smentendo precedenti conclusioni.

La prima traccia dell’esistenza stessa dell’Incoronazione è un libricino del 1643, un cosiddetto scenario della rappresentazione:



Si tratta di una specie di bigino dell'opera, che ne descrive scena per scena il soggetto, per facilitarne la comprensione da parte dello spettatore. Insomma, l’antesignano del moderno programma di sala… Peccato che non rechi traccia né del librettista, né dell’autore della musica! Ci dice però – inoppugnabilmente – che un’opera con quel titolo andò in scena a Venezia in quel periodo. (Teniamo presente che Monteverdi muore nel novembre di quello stesso anno, 1643!)

Di ben 13 anni più tarda è la pubblicazione del libretto dell’opera, parte di un volume fatto stampare nel 1656 dall’autore dei testi (il librettista, appunto) Giovanni Francesco Busenello:


Abbiamo quindi la conferma che un’opera con quel titolo fu data nel 1642 a Venezia, al teatro della famiglia Grimani (il Santi Giovanni e Paolo). La discrepanza fra 1642 e 1643 sembra da attribuirsi al diverso standard di annualità che distingueva Venezia dal resto dell’Europa: a Venezia l’anno veniva fatto iniziare il 1° marzo, ma ciò valeva solo per i documenti a diffusione interna alla Repubblica (urbi) mentre per quelli destinati alla diffusione generale (orbi) si impiegava il calendario normale. Ciò spiega perché uno stesso evento verificatosi nei mesi di gennaio e febbraio poteva essere riferito all’anno n o all’anno n-1, a seconda dello standard utilizzato. Ora, l’opera andò in scena nel periodo di carnevale (che iniziava a fine dicembre) e quindi proprio in uno dei mesi equivoci: in sostanza Busenello usò verosimilmente il calendario veneziano, da cui 1642 e non 1643.

In ogni caso, nel 1656 veniamo a conoscenza dell’identità del librettista. Ma costui, il buon Busenello, tralascia di riportare un piccolo dettaglio: l’autore delle musiche! Per questo ci viene in aiuto qualche lustro dopo un letterato dalmata emigrato a Venezia, tal Cristoforo Ivanovich, che pubblica una lista di rappresentazioni di teatro musicale tenutesi a Venezia a partire dal 1637 (anno in cui fu aperto il primo teatro pubblico, quello di San Cassiano): fra queste elenca due produzioni dell’Incoronazione, nel 1643 e nel 1646 (sempre al teatro Grimani) riportando – alleluja! – oltre a quello del librettista anche il nome dell’autore, Monteverde!


Ecco, siamo nel 1681 e adesso sappiamo che nel 1643 e poi nel 1646 Venezia ospitò rappresentazioni di un’opera dal titolo L’Incoronatione di Poppea di Monteverde. Ci manca però ancora la… sostanza: le note! Ma per questo ci dobbiamo preparare ad un’attesa assai lunga, addirittura di 200 anni! Sì, perché soltanto nel 1888 Taddeo Wiel, bibliotecario della Marciana di Venezia, censì nel materiale della Collezione Contarini, ceduto alla Biblioteca a inizio ‘800, un manoscritto di musica dal titolo Il Nerone, il cui contenuto fu universalmente reputato essere L’Incoronazione di Poppea di Monteverdi. Il Volume, presumibilmente appartenuto a Francesco Cavalli e nel quale gli atti I e III dell’opera risulterebbero ricopiati dalla di lui moglie, presenta questo dorso:


Come si vede chiaramente, il titolo del tomo è IL-NE-RO-NE (che in effetti è il protagonista dell’opera) ma sotto – e lo si scopre senza ombra di dubbio osservando attentamente – erano in precedenza impresse altre lettere, per la precisione MO-NT-EV-ER-DE (!) Scritta che ricompare anche sulla prima pagina del Prologo, mentre una mano ignota, su una delle pagine di rispetto, ha vergato Claudio MONTEVERDI (?) - L’incoronazione di Poppea. Bene, tutto a posto, tutto chiaro? E invece siamo solo all’inizio dei misteri…

Tanto per cominciare, il volume di questa partitura, se reca – pur marginalmente – il nome del compositore, manca invece di quello del librettista: mancanza perfettamente speculare a quella del libretto di Busenello! E anche il contenuto non è del tutto coerente con il libretto, presentando numerose discrepanze rispetto ad esso: ad esempio nel second’atto manca la scena (dopo la terza) che descrive il suicidio di Seneca, assistito dal Coro di Virtù; la quinta scena è privata dei personaggi di Tigellino e Petronio e subito dopo manca la scena di un nuovo incontro Nerone-Poppea. Ma poi ce n’è una abbastanza clamorosa: la partitura contiene la conclusione della scena finale (duetto Nerone-Poppea) che manca nel libretto. Ma fin qui siamo quasi nella normalità, trattandosi di pubblicazioni indipendenti che spesso e volentieri divergono di poco o tanto: in sostanza, pochi mettono in dubbio che quella sia la Poppea di Monteverdi.

Ma quei pochi ringalluzziscono attorno al 1930, quando si verifica una clamorosa quanto fortunata e fortuita scoperta fatta da Guido Gasperini del Conservatorio San Pietro a Majella: fra volumi abbandonati e a rischio di finire al macero, il bibliotecario scovò una seconda partitura manoscritta (neppur essa di mano di Monteverdi) dell’Incoronazione!


Il che non solo confermò le ipotesi già avanzate nel 1891 da Benedetto Croce riguardo una rappresentazione dell’opera a Napoli nel 1651 (testimoniata dal ritrovamento di un libretto colà stampato) ma – dal confronto con il documento veneziano – fece salire le quotazioni dell’ipotesi che l’opera non fosse (tutta, quantomeno) di Monteverdi: ad esempio, la Sinfonia della versione napoletana è assai diversa ed è (secondo Gianfrancesco Malipiero, autore nel 1931 di una mirabile edizione dell’opera, basata su entrambe le fonti) più monteverdiana di quella di Venezia:


Le due partiture (che hanno in comune anche la presenza del duetto finale) divergono in più punti nel contenuto (scene mancanti o modificate) e presentano inoltre strutture diverse dei brani strumentali (sinfonie e ritornelli): tre linee per Venezia, quattro per Napoli. Apriti cielo poi quando nel 1958 Wofgang Osthoff scopre che il basso della sinfonia versione-Venezia è perfettamente identico a quello di un’opera di Cavalli (La Doriclea) rappresentata a Venezia nel 1645! Crescono quindi i dubbi e qualcuno sentenzia: la musica del manoscritto di Venezia non è di Monteverdi! È quello che si deve dedurre anche dall’ipotesi che nel 1967 avanza Anna Mondolfi-Bossarelli, un’ipotesi davvero distruttiva: la copia veneziana (quella in origine posseduta da Cavalli) sarebbe da datarsi nel periodo della morte del Cavalli medesimo, addirittura 30 anni dopo le rappresentazioni dell’opera a Venezia! Quindi la versione di Napoli sarebbe quanto meno più credibile di quella di Venezia (e bisogna riconoscere qui che Malipiero aveva visto giusto!)

Dopo alcuni colpi al cerchio, eccone uno alla botte: nel 1974 Alessandra Chiarelli, a seguito di un minuzioso confronto fra le due partiture, propone una nuova teoria: che esse siano entrambe derivate da uno stesso esemplare originario, da attribuirsi comunque a Monteverdi, impiegato per le prime rappresentazioni; quella veneziana sarebbe probabilmente di mano di Cavalli, fatta magari in occasione della ripresa del 1646, e Cavalli oltre a trascrivere (o far trascrivere dalla moglie, almeno in parte) l’originale, vi avrebbe introdotto altra musica (sua e non solo sua); quella di Napoli si dovrebbe a qualche copista al servizio della compagnia dei Febiarmonici, che girava l’Italia rappresentando opere musicali.

Ma ecco che fra il 1976 e i primi anni ’80 arriva un nuovo terremoto. La prima scossa la dà Thomas Walker, che dimostra con dovizia di esempi come la famosa lista di Ivanovich del 1681 sia zeppa di inesattezze e di informazioni manifestamente infondate; dal che deduce (magari fin troppo sommariamente) che anche i due riferimenti a Monteverdi come autore dell’Incoronazione siano del tutto inattendibili. E il terremoto si propaga a macchia d’olio, per merito di Lorenzo Bianconi, che assesta un altro paio di colpi alla paternità di Monteverdi sull’opera: il primo riguarda il duetto finale Pur ti miro. Bianconi osserva che il testo è uguale a quello del finale del Pastor regio di Ferrari, rappresentato a Venezia due anni prima dell’Incoronazione. Che significa? Che testo e musica del Ferrari sono stati incorporati nell’opera, oppure solo il testo (visto che non c’è rimasta traccia della musica del Pastor)? E poi lo stesso testo si trova in un pezzo (un cosiddetto carro musicale) di Filiberto Laurenzi, rappresentato a Roma 5 anni dopo l’Incoronazione. Insomma, quante altre mani hanno tirato la pasta della Poppea? Secondo colpo: Bianconi rileva che le sinfonie dell’opera La finta Pazza di Scarati sono identiche a quelle del finale dell’Incoronazione (coro di tribuni e consoli).

Mamma mia… ce n’è abbastanza per far concludere ad Alan Curtis (1989) che ci troviamo di fronte ad una Poppea impasticciata.

Ma non è finita, e il pendolo che si è allontanato da Monteverdi torna ad avvicinarglisi: grazie alla scoperta di Paolo Fabbri, che nel 1993 scova ad Udine (Fondo Joppi della Biblioteca comunale) una nuova edizione del libretto dell’opera, diversa da quella dell’autore dei testi (Busenello). Cosa ci dice questo documento? Innanzitutto reca la fondamentale informazione relativa all’autore della musica: Monteverdi! Poi ha proprio l’apparenza di un testo derivato da una partitura, non da un altro libretto: fa esplicito riferimento alla produzione originale del 1643; contiene precise indicazioni per lo scenografo e per l’interprete del ruolo di Poppea. Insomma, il documento pare restituire la piena credibilità al povero Ivanovich, troppo frettolosamente sbugiardato da Walker. E in più contiene un’autentica bomba: include (contrariamente all’edizione di Busenello) il duetto finale Pur ti miro!

Che significa tutto ciò? Che dobbiamo fare piazza pulita di tutte le ipotesi che volevano il duetto importato nell’opera - dal Pastor regio - in tempi successivi alla prima produzione del 1643 e quindi presumibilmente non di mano di Monteverdi? E pensare invece che sia stato musicato da Monteverdi impiegando il testo di Ferrari (il che spiegherebbe l’assenza del finale – e del nome dell’autore della musica - nel testo di Busenello)? A dar man forte a questa tesi è Anthony Pryer che, nel 1995, fa notare come non ci sia certezza che il duetto in questione fosse già presente nel Pastor regio del 1640 e che quindi potrebbe essere stato Ferrari a scriverlo per Monteverdi per importarlo successivamente nella sua opera dalla Poppea, e non viceversa!

Insomma… a questo punto ci converrà aspettare la prossima scoperta, e intanto goderci questa musica a prescindere che sia tutta, o solo in parte, o per nulla di Monteverdi.
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La povertà delle fonti si estende anche ai contenuti musicali: i due manoscritti esistenti recano – oltre le parti di canto – solo righi di accompagnamento senza specifiche indicazioni di strumentazione (al contrario, ad esempio, di Orfeo e di Ulisse). Gli storici-sociologi della musica ci spiegano come ciò sia da mettere in relazione con i peculiari mutamenti nella fruizione del teatro musicale, mutamenti che si realizzarono proprio nella Venezia del primo ‘600: dove si passò dal teatro di corte (o di famiglia, privato ed elitario, finanziato da mecenati) al teatro pubblico, gestito da imprenditori con l’ovvio assillo del profitto, e che ciascun cittadino, di qualunque ceto sociale, poteva frequentare alla sola condizione di pagare il biglietto d’ingresso. Da qui le spending-review ante-litteram, e la preoccupazione degli impresari di limitare i costi delle produzioni, riducendo al minimo anche gli organici orchestrali. E da qui anche la trasformazione dei contenuti musicali verso forme più popolari: il passaggio dal recitar-cantando di bardiana memoria - praticato da Monteverdi fino all’Ulisse - al cantar-parlando, che mette sempre più in primo piano la musica (non più ancella del verso declamato) e quindi il cantante e le sue qualità canore, trasformazione che proprio la Poppea rende evidente (e in base alla quale ragionano molti dei negazionisti - come Annibale Gianuario - della paternità di Monteverdi sull’opera…)

La conseguenza di tutto ciò, per noi oggi, è che ogni rappresentazione (o incisione) dell’opera dipende da autonome (e pure arbitrarie) decisioni del direttore. Ed infatti esistono una gran quantità di versioni diversamente strumentate, che spaziano dalla parsimonia del solo basso continuo per l’accompagnamento più la presenza di qualche arco per sinfonie e ritornelli (secondo quanto si conosce della tipica composizione strumentale dei teatri della Venezia seicentesca):


…all’opulenza persino esagerata di complessi con dovizia di strumenti ad arco e fiato, come fece Harnoncourt nel 1979.

Alessandrini, fedele alla sua concezione filologica, ha tenuto il primo approccio, impiegando il nutrito basso continuo del suo Concerto italiano (3 tiorbe, 2 arpe, 2 cembali e un violoncello) a cui, tenendo conto degli enormi spazi del Piermarini, ha aggiunto un contrabbasso e, per sinfonie e ritornelli, 2 violini e una viola, per un totale di 12 strumenti. Cui nel terz’atto si sono aggiunti 2 trombini esclusivamente per la sinfonia che introduce il giubilo di Arnalta e poi l’omaggio di Consoli e Tribuni.

Qui si può ascoltare una sua interpretazione (con aggiunta di… regìa) di qualche anno fa a Salamanca. Alla Scala il Direttore ha cambiato qualcosa nella distribuzione dei ruoli, altro rompicapo che ognuno risolve a modo suo, poiché i manoscritti recano solo le chiavi di ciascuna parte, ma spesso e volentieri presentano anche le indicazioni di trasposizione (alla quarta, o alla seconda alta, eccetera): in sostanza le parti vengono spesso adattate alla voce dell’interprete. Ad esempio quelle di Nerone e Valletto furono probabilmente scritte per, e sostenute da, castrati, mentre Alessandrini (seguendo una prassi vecchia ormai di un secolo) le affida a due tenori, così come quella della Nutrice, in origine in chiave di contralto, è qui affidata a… Tina Pica (!) Eliminati tout-court personaggi come Pallade e Venere (secondari saranno, ma pur sempre due dee!)

Quanto ai contenuti, il Direttore ne è ovviamente responsabile, stante l’esistenza delle due diverse fonti (Venezia-Napoli) cui potersi riferire e dalle quali poter selezionare i tasselli del mosaico. Alessandrini, che evidentemente è sempre alla ricerca di nuove soluzioni (come dimostrano alcune divergenze dalle scelte da lui fatte per la citata rappresentazione a Salamanca) ha cominciato con lo scegliere da Napoli la Sinfonia iniziale (concordando evidentemente con Malipiero); sempre dalla versione partenopea ha ripescato la parte di Arnalta (Infelice ragazzo) che chiude la scena XI del primo atto (qui spostata ad aprire la scena XII); così come il contenuto della scena IV del second’atto (Damigella-Valletto) più ricco… sessualmente di quello di Venezia (Dunque Amor così comincia?) e pure quello della scena V del medesimo atto (Nerone-Lucano, O felice Poppea). Sempre nell’atto secondo Alessandrini ha deciso di cassare la scena di Ottone solo (I miei subiti sdegni) in favore di quella (ancora da Napoli) di Ottavia sola (Eccomi quasi priva… Neron, Nerone mio): una scelta coraggiosa/discutibile, dato che quella scena compare soltanto nel manoscritto napoletano, mentre è del tutto assente sia in quello veneziano che nei libretti, quindi di dubbia autenticità. Dopo la scena VIII (Ottavia-Ottone) Alessandrini ha recuperato da Napoli (facendola diventare la sua scena IX) parte dell’esternazione di Ottavia Vattene pure. Nel terzo atto è rispettato l’ordine delle scene VI e VII come appare nei manoscritti (prima Arnalta e poi Ottavia) che contraddice il libretto di Busenello (seguito invece da diversi concertatori dell’opera).

Per il resto il direttore ha operato diversi tagli, molti dei quali di portata ridotta e trascurabile, altri invece più pesanti, come la scena VII del primo atto (Seneca che esterna la sua filosofia sulla caducità dei successi mondani, Le porpore regali e imperatrici) e il successivo intervento premonitore di Pallade; oppure una parte importante delle considerazioni di Seneca a Liberto (scena II dell’atto secondo); o ancora, nello stesso atto, la scena VII (Nerone-Poppea, Ò come, ò come a tempo). Anche il finale è vistosamente accorciato, in pratica lasciando in primo piano i due protagonisti, liberati dalla presenza di Venere, del Coro di Amori e soprattutto di Amore, che così è privata del suo trionfo su Fortuna e Virtù, sfidate nel Prologo (Wilson la fa comunque apparire, muta, a benedire gli amanti).

Tutto sommato, quello proposto alla Scala da Alessandrini è un corpus assai ben proporzionato e come sempre ben armonizzato con la regìa di Bob Wilson.
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Nella sua prefazione al libretto, Busenello pubblica un super-condensato del soggetto, ammettendo subito di aver… adulterato la storia come narrata da Tacito:

 
I personaggi principali dell’opera e le relazioni fondamentali (preesistenti alla vicenda e/o in essa sbocciate) che fra essi intercorrono sono schematizzati nella tavola seguente (dovuta al citato Anthony Pryer e da me tradotta e rielaborata) distinti fra umani e divini. Come detto, di questi ultimi Pallade (che dovrebbe comparire nella scena VIII del primo atto ad annunciare a Seneca la sua morte) e Venere (che dovrebbe comparire nel finale, scena VIII del terz’atto, a benedire l’amore fra Nerone e Poppea) sono assenti dalla rappresentazione scaligera.


Lo schema generale dell’opera (Prologo escluso) è invece sintetizzato in questa tavola del citato Lorenzo Bianconi che riassume, nei tre atti, i luoghi dell’azione e i principali intrecci che la caratterizzano, distribuiti nelle varie scene (la cui numerazione nell’atto II è incerta, mancando nel manoscritto di Venezia e divergendo dal libretto in quello di Napoli):


Il soggetto, che Busenello derivò liberamente da Tacito (ed altri) è di carattere marcatamente erotico, fatto certamente per eccitare l’immaginazione del pubblico di allora e attirarlo nelle nuove sale del teatro in musica: la prima parte della scena X del prim’atto (Poppea-Nerone) è di un’audacia ancor oggi sorprendente! Ma ha anche basi storiche ed etiche: la rivalità Venezia-Roma e le discussioni filosofiche che tenevano banco in ambienti quali L’Accademia degli Incogniti, cui apparteneva il librettista; scandalosa poi, per quei tempi, la figura di una donna che impiega le sue qualità fisiche per manovrare un imperatore come fosse un burattino (ecco, oggi per noi può benissimo rappresentare scenari di attualità, tipo i bunga-bunga e i divorzi e innamoramenti di un moderno Nerone brianzolo…)

Naturalmente ci sono diverse visioni e modi di interpretare la morale della favola. Trionfa Amore? Mah, che dire degli ultimi versi dei due innamorati: Pur ti miro, Pur ti godo, Pur ti stringo, Pur t'annodo… Sembrerebbero espressioni di orgasmo, più che di amore! E del resto Nerone ha fin dall’inizio ammesso che la sua per Poppea è pura infatuazione, libidine, attrazione sessuale: le poppe di Poppea! (…di questo seno i pomi). E poi, non si è mai vista una persona sinceramente innamorata ragionare come Nerone: siansi giuste od ingiuste le mie voglie, oggi, oggi Poppea sarà mia moglie! E infatti il saggio Seneca subito sentenzia: ma ch’una femminella abbia possenza di condurti gli errori, non è colpa da rege o semideo: è un misfatto plebeo.  

Insomma: è davvero il trionfo dell’amore con la A maiuscola o invece il trionfo della pura e semplice sete di potere (di una donna) in un mondo dove tutti (escluso Seneca, o magari no) si muovono quasi esclusivamente in base ad egoismo o desiderio di vendetta, e ne combinano di cotte e di crude?
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Bob Wilson, come sempre, si libra in aerei spazi… e non scende mai sulla terra, quindi tutto quanto c’è di erotico, comico o socio-politico nel libretto si stempera nella sua ieratica atmosfera, fatta di movimenti lenti (e di scatti improvvisi del gesto) e di nobiltà declamatoria. Unica eccezione la Nutrice, cui Giuseppe Di Vittorio (che ho più sopra amichevolmente apostrofato come la leggendaria Tina) conferisce un carattere di macchietta napoletana.

Scene spoglie, con impiego di parti mobili a sbozzarne i caratteri: colonnati (Roma), siepi (il giardino di Poppea), un obelisco, alberelli, un grosso capitello in rovina. Luci sapientissime a scolpire gli ambienti e le espressioni degli interpreti, tutti col viso imbiancato e occhi e labbra in rilievo scuro; costumi d’epoca assai appropriati.

Insomma, una… sacra rappresentazione, con tutti (tanti) i pro e (pochissimi) contro che caratterizzano queste scelte.

Gli interpreti hanno tutti magnificamente assecondato le intenzioni del regista e per questo sono da lodare in blocco. Più articolato deve necessariamente essere il giudizio sul versante vocale, dove c’è chi ha meritato più di altri, comunque tutti al di sopra dell’ampia sufficienza.

Va premesso che gli spazi sconfinati del Piermarini penalizzano per definizione un po’ tutti: cantanti che faticano a farsi udire e pubblico che fatica a seguire nei dettagli il filo drammaturgico. (Quanto si rimpiange in queste occasioni la vecchia, cara, Piccola Scala, ambiente ideale per queste rappresentazioni, ignominiosamente mandata al macero, ormai da una vita!)

Miah Persson è una Poppea di assoluto rilievo, coniugando sensibilità e portamento a un canto sempre impeccabile e ad una voce che passa benissimo. Come lei Monica Bacelli, un’Ottavia autorevole, nei momenti di sconforto come in quelli di rabbia. Bene anche Silvia Frigato in Amore, tanto nel Prologo quanto nella sua azione di commando per salvare Poppea dalle trame di Ottone. Il quale è interpretato da una Sara Mingardo la cui voce per la verità stenta a passare, forse penalizzata dalla tessitura grave della sua parte. Più convincenti la Drusilla di Maria Celeng, la Arnalta di Adriana Di Paola e la Damigella di Monica Piccinini.

Fra le voci maschili si è distinto Leonardo Cortellazzi, un Nerone magari troppo… macho rispetto alla leggerezza che ne caratterizza la linea vocale (scritta per castrato) ma assolutamente efficace e perfettamente chiaro e udibile. Un filino al di sotto Mirko Guadagnini come Valletto (e 2° console): anche per lui vale la considerazione relativa alla tessitura di una parte scritta in origine per castrato (o soprano). Efficace anche Luca Dordolo (Lucano) nel suo duetto celebrativo con Nerone. Ecco poi i bassi: Seneca è Andrea Concetti che se la cava con onore, anche se mi è parso troppo leggero rispetto alla personalità del filosofo. Bene gli altri due, Luigi De Donato (Mercurio, Littore ed altro…) e Furio Zanasi (Liberto e altri due ruoli minori). Per ultimi i due (sulla carta) controtenori: Andrea Arrivabene ha fatto ciò che richiede la parte piuttosto contenuta del famigliare di Nerone; quanto a Giuseppe Di Vittorio ho già detto di come la sua parte sia stata (da Wilson?) trasformata in macchietta da avanspettacolo (ma ci sta pure questo, in mezzo a tanta… austerità).  

Del complesso di Alessandrini e del Direttore (anche clavicembalista all’occorrenza) non si può dire che tutto il bene, come dei sei strumentisti dell’orchestra scaligera che lo hanno integrato.

Ecco, uno spettacolo di alto livello che riconcilia con il teatro musicale, riportandoci proprio alle origini di un’arte che da lì partirà per lunghi viaggi verso mete diverse ma tutte straordinariamente esaltanti. E il pubblico di ieri, pur selezionato (è un modo come un altro per segnalare i vasti vuoti nei palchi…) ha mostrato di apprezzare moltissimo, decretando il caloroso successo della serata.

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