XIV

da prevosto a leone
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07 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.2

Per questo fine settimana l’Orchestra Sinfonica di Milano ci propone un altro appuntamento assolutamente tradizionale,  che vede la Direttrice Principale Ospite Alondra de la Parra sul podio e la rediviva Lilya Zilberstein alla tastiera cimentarsi in Rachmaninov e Brahms. Ieri sera Auditorium non troppo affollato, ma in compenso allietato dalla presenza di frotte di giovani, il che fa sempre piacere (oltre ad abbassare drasticamente il tasso di vetustà del pubblico, me compreso…)

Significativamente il Concerto è stato dedicato alle donne vessate dal regime di Teheran e al Nobel Marges Mohammadi.

Del compositore russo trapiantato all’Ovest viene eseguita la Rapsodia su un tema di Paganini del 1934, con la quale la simpatica Lilya è al terzo appuntamento con laVerdi, avendola già eseguita qui addirittura nel 1999 e poi più di 10 anni fa con Bignamini (fra le altre tante sue interpretazioni del brano ecco quella del 2011 a Torino con la RAI; e qui una mia succinta introduzione al brano).

E anche ieri lei ha confermato la sua affinità elettiva con questa musica, valorizzandone tutte le diverse sfaccettature (non per niente si intitola Rapsodia) nascoste nelle pieghe delle 24 variazioni sul tema. 

Come sua consuetudine, nemmeno gli applausi ritmati l’hanno purtroppo convinta ad offrire un bis   
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Facendo un salto all’indietro di 58 anni, dal tardissimo-romanticismo al classicismo romantico, la seconda parte della serata è occupata dalla… Decima di Beethoven, come l’esagerato Hans von Bülow definì la Prima Sinfonia di Brahms.

Devo dire che l’esecuzione è stata di buon livello, tutti hanno suonato al meglio, ma forse è mancato quel quid che eleva una prestazione più che dignitosa al livello di eccellenza. Con una battuta forse eccessivamente maliziosa potrei dire che il lato migliore della direzione della De La Parra sia stata la scelta, assolutamente appropriata e condivisibile, di non eseguire il da-capo dell’esposizione dell’Allegro iniziale…

Ma il pubblico non ha fatto mancare applausi per tutti: e anch’io, per non essere frainteso, concluderò dicendo che sono comunque uscito dall’Auditorium felice e contento!

23 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 27 (Rach4/4)

Il programma dell’ultima giornata del Rach-Festival era totalmente dedicato al compositore russo, presentando in pratica le ultime due opere cui Rachmaninov lavorò prima della morte (1943).

Il Concerto n.4 per pianoforte e orchestra in Sol minore op.40 era stato ideato a ruota del Rach3 (anni ’10-’15) se non ancor prima… ma poi ripreso e completato solo nel 1926; quindi revisionato una prima volta nel 1928; e infine, sottoposto ad altre sostanziose modifiche nel 1941. Fu l’ultima fatica del compositore, seguita di poco alla penultima, le Danze sinfoniche op.45 che hanno completato questa interessante rassegna offertaci da laVerdi.

Sulle intricate vicende del Concerto e sulle principali differenze fra la seconda versione del 1928 e quella definitiva del 1941 ho già pubblicato su questo blog un tormentone ora disponibile qui, quindi non mi dilungo oltre. Caso mai può essere di qualche interesse confrontare le tre versioni ascoltando la terza e ultima dal grande Benedetti Michelangeli, la seconda da William Black e la prima da colui che l’ha incisa per primo dopo la riesumazione nel 2000. Si noteranno così le differenze di durata: 25’, 29’, 31’, a dimostrazione del progressivo smagrimento cui l’Autore sottopose la partitura.

Romanovsky, che ha comprensibilmente presentato la versione 1941, evidentemente deve ancora prenderle tutte le misure, se è vero che si è portato lo spartito sul leggio, e al suo fianco anche l’aiuto gira-pagine. Ma ciò non significa che la sua interpretazione non sia stata eccellente, quanto meno lui è riuscito a renderci questa partitura meno ostica e indigeribile di quanto non rischi di essere: purtroppo, se gli ingredienti del manicaretto sono di qualità mediocre non c’è cuoco che possa cavarne un piatto da leccarsi i baffi, ahinoi.

Ma il pubblico dell’Auditorium – stracolmo anche oggi pomeriggio - lo ha comunque premiato per… l’abnegazione, riservandogli poi un trionfo in ringraziamento per questo autentico regalo che ci ha fatto in questi ultimi 10 giorni. Ci auguriamo di rivederlo (e soprattutto… risentirlo) al più presto. Oggi intanto si è congedato con due sontuosi bis: Rachmaninov e un oceanico Chopin.
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Si è chiuso con il canto del cigno di Rachmaninov, le Danze sinfoniche. Sono proprio un bigino di tutta la precedente produzione del russo trapiantato in USA. E quindi, a chi Rachmaninov piace, piacciono assai. I tre movimenti dovevano avere anche dei sottotitoli - mezzogiorno, tramonto e sera, poi non pubblicati – che peraltro non sembrano propriamente rispecchiati sul pentagramma. 

L’organico orchestrale comprende anche il sax contralto, che impreziosisce il primo dei tre movimenti, oltre al pianoforte e ad una corposa batteria di percussioni.

 

Il primo dei tre brani ha una struttura macroscopicamente tripartita, con le sezioni esterne più mosse dove si ode il tema principale della danza, nervoso e insistito:

La sezione centrale è invece di carattere intimistico e vi spiccano gli interventi della morbida voce del sax contralto:


 

Il secondo brano è praticamente un Walzer, piuttosto tetro e spettrale, sul tipo, per intenderci, dello Scherzo (Schattenhaft) della Settima mahleriana. Il motivo principale è esposto nella prima parte del brano da corno inglese e oboe:


Una seconda sezione è più languida nel ritmo, ma sempre cupa, poi riprende fino alla fine questa specie di danza macabra.


Il terzo e conclusivo brano si apre, dopo un’introduzione lenta, con un Allegro vivace che presenta una danza nervosa e sincopata, che passa da una sezione all’altra dell’orchestra. Segue una transizione lenta e misteriosa, con sonorità cupe del clarinetto basso, con la musica che poi progressivamente si acqueta. Riprende infine l’Allegro vivace dove, dopo l’introduzione dell’oboe e alcune fanfare delle trombe, udiamo distintamente il Dies Irae (una vera fissazione di Rachmaninov) che introduce il caotico finale.

  

Che dire? Che il povero (si fa per dire… certo non dal punto di vista economico, ma purtroppo da quello estetico) Rachmaninov abbia cercato – in extremis, per darsi una patina di modernitä - di scimmiottare gli stilemi (da lui prima sempre vituperati) di uno Stravinsky o di un Prokofiev? O che ormai sentisse, magari nel subconscio, l’avvicinarsi del traguardo riservato a tutti noi? Come interpretare sennò il trito (per lui) riferimento al Dies-Irae che la fa da padrone alla fine dell’ultimo brano? 

    

Insomma, quest’ultimo lavoro, insieme al drastico maquillage operato al 4° concerto, sembra forse testimoniare di una tremenda presa di coscienza di una vita… sprecata? Beh, in quegli stessi anni, o poco dopo, tale Richard Strauss, pur distrutto dalla caduta di tutti i suoi ideali e mortificato dal processo di denazificazione, ci lasciava cosucce tardoromantiche quali Metamorphosen e Vier letzte Lieder… non so se mi spiego!


Ma queste note poco elogiative per il compositore non vanno ovviamente estese agli interpreti, che ancora una volta si sono superati per compattezza, precisione, affiatamento e per qualità di suono.  

21 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 26 (Rach3/4)

Il programma della terza giornata del Rach-Festival (praticamente sold-out!) accosta al Concerto del compositore russo uno dei lavori più noti ed eseguiti di Edward Elgar, le Enigma Variations op.36, del 1898-99.

In esso il musicista albionico si divertì a ritrarre musicalmente gli amici, personaggi più o meno noti della buona società britannica, ed anche sé medesimo (!) attraverso una serie di 14 variazioni su un tema, che sarebbero ulteriormente legate ad un più ampio tema, che le percorre tutte: e quest'ultimo tema costituirebbe l'enigma cui fa riferimento il titolo. Da più di un secolo c'è chi si è scervellato per trovare la soluzione: God save the Queen (oh sorry, H.M. Charles III) the KingAuld Lang Syne (il nostro Valzer delle candele) furono proposte all'autore, che negò fossero la risposta giusta e così lui si portò il segreto nella tomba.

Ma il concorso è continuato negli anni: nel 1976 un musicologo olandese, Theo van Houten, decriptò una frase che Elgar aveva scritto per il programma di sala della prima esecuzione: So the principal theme never appears. Dato che il compositore amava i giochi di parole, la frase si può leggere anche così: So the principal theme - never - appears, quindi il tema in questione potrebbe aver qualcosa a che fare con il termine never. E guarda caso, il più antico canto patriottico albionico, Rule Britannia, contiene la parola never musicata da Thomas Arne precisamente con le prime note riprese da Elgar per il suo tema:

Altri indizi – e pure complicatissime elucubrazioni - portano a soluzioni diverse, peccato che Elgar non possa più confermare o smentire. 

Di sicuro la più famosa delle variazioni, spesso eseguita singolarmente, come bis nei concerti, è la n°9, intitolata Nimrod, un grande Adagio in MIb maggiore, dove il tema viene esposto con molta nobiltà, in un continuo crescendo dall'iniziale ppp al ff della finale perorazione, chiusa poi di nuovo in pp. È un grande momento che supera esteticamente lo stesso finale, piuttosto enfatico e scontato.

Variazione controversa per quanto riguarda l’agogica, che l’Autore prescrive con indicazione metronomica di 52 semiminime al minuto. Essendo in tutto costituita da 43 misure in 3/4 (=129 semiminime) e in assenza di variazioni (salvo il ritenuto sulle ultime 4 misure) se ne deduce matematicamente che la sua durata dovrebbe essere (espressa in decimali) di 129:52= 2,48 minuti, cioè circa 2’30”. Orbene, se ascoltiamo questa registrazione del 1926, con l’Autore sul podio, riscontriamo che il brano dura da 12’02” a 14’49”, cioè 2’47”, appena di poco più lento rispetto al metronomo. Ma se ascoltiamo tutte le principali esecuzioni (youtube ne è affollato) scopriamo che nessuna sta sotto i 3’, ma di norma ci si avvicina o si superano i 4’. Il record lo detiene Lenny Bernstein che fa suonare la BBC Symphony (con la quale per la verità aveva un po’ di ruggine…) addirittura a 5’15”, ben più del doppio più lento rispetto al metronomo di Elgar! (NB: Flor l’ha suonata attorno ai 4’, seguendo quindi il solco di quella che ormai è diventata tradizione interpretativa, con la quale personalmente tendo a discordare.)

Infine, c’entra qualcosa quest’opera con Rachmaninov? Mah, dal punto di vista degli anni della composizione, e se è vero che Elgar – come il russo – era tentato a quel tempo di abbandonare la musica… allora starebbe meglio a fianco del Rach2… oppure c’è qualche enigma nascosto (magari all’insaputa di Rachmaninov) anche nel Rach3? 

Beh, comunque sia è sempre un piacere ascoltarla, se poi chi la suona è un’Orchestra di prim’ordine!
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Eccoci quindi al famigerato Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in Re minore op. 30, nel quale possiamo vedere qui impegnato il nostro beniamino Alexander allorquando (2001) si rivelò come stella nascente nel pianismo internazionale. Come ho suggerito in questo precedente scritto, le difficoltà del concerto sono più che altro di natura per così dire… atletica (dato il quasi continuo impegno del solista, cui sono riservate pochissime pause di respiro) che non tecnica.

Una delle tante curiosità che suscita l’ascolto del Concerto riguarda la cadenza del movimento iniziale, invero massacrante, di cui Rachmaninov ha lasciato (scritte in partitura) due diverse versioni, che riguardano peraltro solo la prima parte della cadenza: la principale è forse più virtuosistica, mentre l’altra (indicata come ossia) è più lunga, massiccia e severa.

Ebbene, Romanovsky, nella citata esecuzione del 2001 al premio Busoni, eseguì la cadenza principale (si ascolti la parte specifica fra 10’32” e 11’25” del video). Più recentemente (2019) a Seul Romanovsky ha invece eseguito la seconda (da 10’22” a 12’04” in questo video). Che ha scelto anche ieri sera.

Inutile dire della sua interpretazione, invero strepitosa, coadiuvata da un’orchestra che lo ha supportato nel migliore dei modi. L’oceanico pubblico dell’Auditorium (davvero, nonostante il nubifragio che ha flagellato Milano) è andato letteralmente in visibilio, tributandogli una lunghissima standing ovation, che lui ha ricambiato con due bis: una versione pianistica (in DO# minore) di Vocalise e il Momento Musicale n°4.

16 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 25 (Rach2/4)

Il programma della seconda giornata del Rach-Festival fa precedere il Secondo Concerto dalla versione orchestrale degli Études-Tableaux, predisposta da Ottorino Respighi nel 1929 in risposta ad un’iniziativa del vulcanico Koussevitsky che aveva chiesto a Rachmaninov di orchestrare per la BSO alcuni dei brani delle due opere pianistiche (la 33 del 1911 e la 39 del 1916).

Ne è uscita questa raccolta di 5 Studi, così selezionati da Rachmaninov e messi da Respighi in sequenza concordata con l’Autore:

La mer et les mouettes (Il mare ed i gabbiani) – (Op.39, n°2)

La foire (La fiera) – (Op.33, n°6)

Marche funèbre (Marcia funebre) – (Op.39, n°7)

La chaperon rouge et le loup (Cappuccetto Rosso e il lupo) – (Op.39, n°6)

Marche (Marcia) – (Op.39, n°9)

Mah, forse qui c’è troppo Respighi… sono convinto che altro effetto avrebbe fatto l’esecuzione di Romanovsky al pianoforte!
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Ecco quindi il di gran lunga più famoso ed eseguito Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in Do minore op. 18.

Opera nata proprio all’inizio del XX secolo (1900) a valle di una stagione davvero penosa per Rachmaninov, dalla quale uscì proprio sfornando questo lavoro che gli darà, oltre a grande notorietà, anche il carburante per tutta la sua successiva attività di compositore e soprattutto di concertista.

Concerto che da sempre ha sollevato discussioni fra i critici (meno nel pubblico, di norma entusiasta, va detto) dove si distinguono i giudizi lusinghieri sull’ispirazione e la vena melodica, e quelli invece negativi, se non stroncanti, che ci vedono null’altro che un comodo riflusso di Rachmaninov verso canoni estetici superati e contenuti di fin troppo facile presa sull’ascoltatore. Ho personalmente inquadrato l’origine e le principali caratteristiche del Concerto in uno scritto consultabile qui.     

Romanovsky lo ha già eseguito numerose volte (qui lo vediamo a Seul 9 anni orsono) e anche oggi ha sciorinato tutte le sue straordinarie qualità tecniche ed interpretative. Questa partitura comporta facili rischi di scivolate sul miele o sulla marmellata, ma il nostro ha saputo dosare alla perfezione gli ingredienti del manicaretto; forse (ma non è colpa sua) in alcune parti del primo movimento Flor non ha bene dosato le dinamiche, finendo per coprire il suono del pianoforte. Straordinario invece l’Adagio, dove Romanovsky è stato davvero ispirato. Travolgente poi il finale.

Pubblico (Auditorium praticamente preso d’assalto, oggi pomeriggio) in delirio e chiamate a ripetizione, ricambiate da due bis (il primo sempre Rachmaninov).

Giovedi prossimo il Rach3

14 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 24 (Rach1/4)

Claus Peter Flor (oggi Direttore Emerito dell’Orchestra Sinfonica di Milano) e Alexander Romanovsky (39enne ukraino trapiantato a Bologna…) hanno ieri dato il via al Rach-Festival, che propone (fino a domenica 23/4) l’integrale dei 4 Concerti pianistici di Sergei Rachmaninov (più altre sue e non sue composizioni).

Il programma della prima giornata è aperto da due lavori di autori francesi contemporanei di Rachmaninov, lavori che hanno in comune il fatto di essere nati per il pianoforte a 4 mani e di essere poi stati trascritti per l’orchestra. Meno stretti sono i loro legami con il Concerto di Rachmaninov: la cui versione originale è di poco posteriore al lavoro di Debussy, mentre quello di Ravel è coevo addirittura del Rach3. Ma anche la versione definitiva del Rach1 non parrebbe influenzata dalle opere dei due compositori francesi.  

Ascoltiamo quindi per prima la Petite Suite in 4 movimenti che Claude Debussy compose nel 1889 per pianoforte a 4 mani, ispirandosi (per i primi due brani) a poesie di Paul Verlaine. Solo 8 anni più tardi sarà un allievo di Ernest Guiraud (quello che aveva… bistrattato la Carmen) di nome Henri Büsser a trascrivere la Suite per grande orchestra.

Seguono poi i Cinq pièces enfantines, che recano il titolo Ma mère l'oye (raccolta di poesie di Charles Perrault che ispirano i due primi pezzi) e che Maurice Ravel compose nel 1909 per pianoforte a 4 mani e orchestrò nel 1910, per poi ampliare a balletto nel 1912.
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Questo antipasto è servito più che altro a mettere in evidenza la distanza fra le avanguardie francesi e la… retroguardia russa rappresentata da Rachmaninov e dal suo Concerto n.1 per pianoforte e orchestra in Fa diesis minore op.1.

Di cui si è eseguita (come ormai quasi sempre accade) la versione definitiva approntata dall’Autore nel 1917, ben 26 anni dopo la stesura originale del 1891. Una mia breve storia ed esegesi della composizione, inclusi alcuni riferimenti alle novità introdotte dalla versione definitiva, è consultabile a questo link.  

Romanovsky la affronta con gran cipiglio, martellando sulla tastiera le poderose terzine in ottava a due mani che coprono le battute 3-8 del Vivace di apertura. Poi mette tutta la sua sensibilità nel presentare i due temi (espressivo e cantabile) che innervano l’esposizione. Ispirata la lunga cadenza che porta alla chiusura.

Lo spirito romantico del concerto viene mirabilmente interpretato da Romanovsky nell’Andante, condotto con nobile semplicità… a dispetto del relativo appesantimento apportato da Rachmaninov in questa versione agli interventi dell’orchestra.

Anche l’Allegro vivace conclusivo, come rimaneggiato nel 1917, acquista una brillantezza piuttosto… gratuita, ecco. Romanovsky fa del suo meglio perché la voce del pianoforte non venga troppo oscurata dai rumorosi interventi dell’orchestra.

Alla fine grande apprezzamento per lui (e per tutti, ovviamente) ricambiato da ben due bis: il primo e più famoso Preludio di Rachmaninov (in DO# minore, op.3 n°2, che si riverbera anche nel Concerto appena ascoltato) e poi il 12° Studio dell’op.8 di Scriabin, nella bizzarra tonalità di RE# minore! 

Domenica il Rach2. 

20 maggio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 30

Prima di dare il via ai suoni, Massimo Ferrarini, imprenditore di gran talento e presidente dell’AVIS Milano ha ricordato i 95 anni dalla fondazione della benemerita Associazione che tanta parte ha nel salvare vite umane, con il sangue dei volontari.
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Chiusura in bellezza della stagione dell’Orchestra Sinfonica di Milano (per gli amici resta sempre laVerdi!) con un concerto che presenta l’interessante accostamento Rachmaninov-Reger. Sul podio dell’Auditorium il redivivo Michael Sanderling, violoncellista passato alla direzione, mentre alla tastiera, per propinarci il famigerato Rach-3 - qui alcune mie note illustrative -  siede Alexei Volodin, che fa così il suo esordio in Largo Mahler.

Volodin, classe 1977 (ha anche studiato a Como anni addietro) ha Rachmaninov in posizione privilegiata nel suo repertorio, e... si sente! Lui interpreta alla lettera lo spirito del compositore russo, i suoi travagli, le sue debolezze, gli slanci eroici come le svenevolezze decadenti. Uso sapiente del rubato, varietà di dinamiche e - ça va sans dire - tecnica staordinaria (ingrediente fondamentale per questo brano) gli garantiscono uno strepitoso successo presso il folto pubblico dell’Auditorium.

Che lui ripaga con altra dose di Rachmaninov, il Settimo Preludio dall’op.23.
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Chiude il concerto la più importante e più nota delle ultime opere di Max Reger, le Variazioni e Fuga su un tema di Mozart (l’iniziale Andante grazioso della Sonata IX, K331). Reger, oltre che (discusso) compositore fu un grande esecutore, soprattutto all’organo. Ed in queste Variazioni la cosa appare evidente dal tipo di strumentazione adottata, come si evince da questa pagina della partitura:

Come si vede, suonano (quasi) sempre tutti gli strumenti, ma contrariamente all’apparenza non c’è mai sovraccarico sonoro, ma sempre varietà di atmosfere, di colori e di sfumature che impreziosiscono questo brano.

Merito ovviamente anche di Sanderling, che ha sapientemente dosato le dinamiche, mettendo sempre in risalto il tema e le sue variazioni senza mai farle annegare in un magma sonoro.

E il pubblico ha mostrato di apprezzare con lunghi applausi per il Direttore e per gli esecutori.
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Com’è sua tradizione, laVerdi non si ferma praticamente mai, e già il prossimo venerdi 27 maggio sarà al da poco risorto Teatro Lirico milanese (oggi Teatro Gaber) che, prima della chiusura, fu anche una delle case dell’Orchestra appena nata, per un concerto, appunto di... Resurrezione!

06 aprile, 2020

La grande Pasqua russa


La Russia in questi giorni ci sta dando una mano a fronteggiare lo sbifido coronato e - salvo qualche nostro acuto malpensante che dietro questo gesto sospetta di chissà quali sinistri cavalli di troia, dai quali uscirebbero al momento opportuno i simpatici cosacchi per abbeverare i cavalli a San Pietro e soprattutto per trascinarci nel Patto di Varsavia - le siamo tutti grati per gli aiuti materiali che ci offre.

Ma, ormai sotto Pasqua, possiamo attingere - e senza pericolo di sorta - alle risorse della grande mamma russa anche per procurarci qualcosa di più immateriale rispetto ai pur necessari respiratori e mascherine.

Così chi vuol passare in casa (tanto in chiesa non può, nonostante le implorazioni del devoto felpato sal Matteo) una Veglia per tutta la notte (scelga pur lui quale notte...) può rivolgersi a Sergei Rachmaninov e ai suoi Vespri per coro a cappella (Op.37), 15 canti della tradizione russa, ma ricchi di influenze balcaniche e bizantine. 

In rete ce n’è una mezza dozzina di esecuzioni (cercare Rachmaninov Vespers...) e davvero ci si può passare un’intera notte, senza tema di addormentarsi. Oppure addormentarsi ritrovandosi in sogno in Paradiso!

Perchè è musica che da sola, anche ignorando il significato dei testi cantati, ti solleva ad astronomiche distanze dalle miserie terrestri; se poi si vuol anche decifrare ciò che viene cantato, ci viene in soccorso il benemerito Teatro Sociale di Como che un anno fa, in occasione di un concerto proprio sotto Pasqua, ha pubblicato alcune brevi note illustrative dell’opera e - soprattutto - la traduzione italiana dei testi.

Quindi buona veglia e... vade retro, virus!

12 settembre, 2019

MITO-2019 - Chung-Romanovsky agli Arcimboldi


Ieri sera il vasto anfiteatro degli Arcimboldi - riempito più di un uovo! - ha ospitato la Filarmonica scaligera per un concerto tutto russo. Sul podio il redivivo orientale-estremo Myung-Whun Chung e alla tastiera l’orientale-semplice (ma svezzato qui da noi, nel bolognese) Alexander Romanovsky.

É curioso ricordare il diverso atteggiamento tenuto (ai suoi tempi) verso i due brani in programma da tale Gustav Mahler. Il quale, nel 1911 a New York, si adoperò allo spasimo per ribadire il successo al nuovissimo Terzo concerto di Rachmaninov con la NY Philharmonic, un paio di mesi dopo la prima eseguita dalla NY Symphony con Damrosch sul podio. Lo stesso Autore (e interprete) rimase stupefatto dal rigore e dal perfezionismo di Mahler, che non esitò a strapazzare gli orchestrali, costringendoli ad un super-lavoro nelle prove per raggiungere l’eccellenza nell’esecuzione.

Ecco invece come lo stesso Mahler, nell’estate di 10 anni avanti, a Vienna, aveva descritto a Guido Adler la Patetica ciajkovskiana:

Si tratta di un lavoro superficiale e senza profondità. Anche il colore dovrebbe darci qualcosa di più di se stesso, altrimenti rimane un mero ornamento e polvere negli occhi! Osservandolo da vicino, non ne resta poi gran cosa. Questi arpeggi, che vanno dal grave all’acuto, queste concatenazioni armoniche insignificanti non possono dissimulare il vuoto e l’assenza di invenzione.

Apperò!
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Dopo il consueto pistolotto (in senso non salviniano!) della maestrina Gaia Varon, che è incorsa in un tipico lapsus da lateral-thinking (attribuendo l’idea di appiccicare alla Sesta il titolo di Patetica a Modest... ehm, Musorgski) il 35enne ukraino si è quindi cimentato con il famigerato Rach3, da lui caricato di tutto il possibile tardo-decadente-romanticismo, che da sempre suscita nel pubblico e nei critici ampie divisioni, fra ammiratori estasiati e detrattori nauseati. Ma il ragazzo (non sembra cambiato molto dal lontano 2001 quando si impose al Premio Busoni) ha una tal carica espressiva, coniugata con una innata modestia (temprata dagli anni duri che lui e famiglia passarono dopo l’emigrazione) da garantirsi un successo clamoroso e ripetute chiamate, alle quali risponde dapprima con un altro Rachmaninov e poi con un Bach... adulterato!      
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Chiusura quindi in grande con la Patetica, dove Chung ha avuto modo di smentire ampiamente il velenoso giudizio di Mahler, mettendo in risalto di questa ormai inflazionata partitura il carattere di sguardo-all’indietro (come sarà, ma guarda un po’ la nemesi, la Nona mahleriana) a ripercorrere una vita artistica accidentata e costellata di grandezze - lo spontaneo applauso arrivato alla fine dell’Allegro molto vivace ne è stato testimone - e di miserie, destinata inesorabilmente a chiudersi nel silenzio, dopo le ultime battute della triade di SI minore esalate dagli archi bassi, sull’indicazione Molto ritenuto (e non... Morendo, come la simpatica Gaia ha inventato, anche qui parlando di Mahler!)   

Pubblico entusiasta e prodigo di battimani e ovazioni per Direttore e Professori.

07 dicembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°10


Riecco il Direttore Musicale sul podio dell’Auditorium per un dirigervi concerto che presenta lavori di quattro compositori (anche se i titoli in programma sono tre!) Il percorso che ci viene proposto si caratterizza per due andata-e-ritorno fra ‘800 e ‘900, e non solo in termini strettamente temporali.

Infatti si parte dal Liszt padre del Poema Sinfonico per passare al ‘900 nostalgico di Rachmaninov, quindi retrocedere all’800 di Musorgski con una specie di poema sinfonico anticipatore del ‘900, rivestito proprio da un modernissimo Ravel!

A dimostrazione del fatto che la musica non può descrivere alcunchè (oggetti, soggetti o concetti che siano...) Les Préludes, che nella versione definitiva oggi eseguita dice - per bocca dell’Autore - di ispirarsi a Lamartine (la vita non è che una serie di preludi alla morte) era nato musicalmente sotto tutt’altra veste, che con l’opera del letterato francese c’entra come i cavoli a merenda: trattandosi in effetti di un aggiustamento del 1854 - complice un collaboratore di Liszt (tale Joachim Raff) - di un brano di qualche anno addietro che faceva da preludio alla cantata I quattro elementi (su testi di Joseph Austran). Il titolo del poema sinfonico e il riferimento alle Nouvelles méditations poétiques (n°16) di Lamartine furono inventati e appiccicati al preesistente brano a posteriori: esistono non meno di quattro prefazioni alla partitura, nessuna riferibile direttamente a Lamartine, ma tutte prodotte dall’entourage di Liszt (l’ingombrante Wittgenstein in primis).

A questo punto chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a indicare nel soggetto ispiratore anche La vispa Teresa piuttosto che Cappuccetto rosso o Il Gatto con gli stivali (!) A parte le battute, il genere musicale Poema sinfonico è stato da sempre fonte di discussioni e di equivoci, proprio per l’impossibilità materiale di associare in modo convincente i suoni a immagini o a personaggi, o a stati d’animo, o a concetti filosofici. Vale per i 13 lavori di Liszt come per quelli di Dvorak, di Franck, per le fantasie di Ciajkovski o per Sibelius, Rachmaninov, Respighi e Strauss. Quest’ultimo, in alcuni, non tutti, i suoi Tondichtungen ha pensato bene di arricchire ogni pagina della partitura con minuziosi riferimenti, per orientare l’ascoltatore ad associare la musica al soggetto ispiratore: in assenza di tali indicazioni, tale associazione rimarrebbe assai ardua se non impossibile da realizzare: chi potrebbe con assoluta certezza individuare in Don Quixote e nelle sue avventure le note dell’Op.35, o nei paesaggi alpestri quelle dell’Op.64, senza la guida di tali espliciti riferimenti? E il ragionamento vale ovviamente anche per i Quadri di Musorgski, musica straordinaria in sè, che solo le etichette appiccicatevi dopo averle staccate dalle opere esposte in pinacoteca ci orientano a riferire ai dipinti di Hartmann.

Un caso eclatante di equivoco di fondo è rappresentato da Mahler, che dopo aver contrabbandato il suo primo lavoro sinfonico per Poema (in 5 movimenti) ispirato al Titan di Jean Paul, si decise con gran disinvoltura a mutarne radicalmente i connotati in quelli di Sinfonia in RE maggiore (in quattro tempi). E anche le due successive Sinfonie nacquero come musica a programma (anzi, a programmi, poichè ne furono redatti più d’uno) prima di assumere la forma definitiva di musica pura (casomai con un programma interno e nascosto che sta all’ascoltatore decifrare a sua discrezione).

Insomma, i riferimenti appiccicati a queste composizioni lasciano il tempo che trovano: resta la qualità della musica a stabilire alle nostre orecchie se si tratti di capolavori o di ciarpame (o di qualcosa di intermedio...) Tornando a Les Préludes, di certo il suo successo presso il pubblico non dipende minimamente dall’avere come dichiarata (ma di fatto fasulla...) ispirazione quella Méditation di Lamartine, ma dalla buona fattura dei suoi temi musicali e dalla solidità della struttura del brano che li racchiude e li organizza. Allo stesso modo si può apprezzare il Don Quixote straussiano come grande musica, pur senza saper collegare i temi che via via compaiono ai personaggi o alle situazioni che dovrebbero evocare; e restare affascinati dai Quadri musicali, pur dimenticandone o ignorandone i titoli.

Cerchiamo di seguire la narrativa (di Liszt, non di Lamartine) dei Prèludes con l’aiuto di Zubin Mehta e dei Berliner. Personalmente ho cercato di prescindere dalle esegesi classiche, che insistono nel mettere i temi in relazione non a Lamartine, ma ai testi di Austran: cosa che certamente aveva fatto il compositore, ma che - per le ragioni più sopra esposte - finisce secondo me per condizionare eccessivamente l’ascolto. Ecco perchè ho scelto, come rappresentato nella figura sottostante, delle definizioni più astratte (anche se, ovviamente, personali!) per i temi medesimi:


Liszt si conferma maestro nel far germinare quasi tutti i motivi del brano da una minuscola cellula fondamentale, di sole tre note, cellula che subirà una miriade di variazioni e trattamenti (anche alla fiamminga...) E nel cambiare i connotati ad un tema, riproponendolo sotto luci diverse (cosa di cui diventerà super-maestro suo genero Richard Wagner).

Introduzione - Andante 4/4 DO M. Dopo i due DO in unisono degli archi in pizzicato, ecco apparire (8”) sempre negli archi la cellula fondamentale, dalla quale si diparte una melodia curvilinea (discesa-salita) che culmina nella riproposizione della cellula nei legni, con virata a LA maggiore. La cosa si ripete (38”) ma sul RE minore, poi gli archi (1’17”) accompagnati da note tenute dei legni, ripercorrono ripetutamente da punti di partenza sempre più alti il motivo curvilineo, fino a sfociare nella sezione successiva.

Andante maestoso (2’12”). Qui viene esposto da tromboni e archi bassi il tema A, in DO maggiore, il cui incipit è costituito dalla cellula fondamentale: un motivo che evoca pompa e retorica. Non per nulla il nazismo ne fece una sigla di trasmissioni radiofoniche rivolte ai combattenti! (Ma nessuno associa Liszt a Hitler, al contrario del trattamento riservato al futuro genero). Il tema tornerà ciclicamente e trionfalmente a chiudere l’opera.

A 2’57”, L’istesso tempo, in 9/8 (3/4) ecco comparire negli archi il tema B, che si diparte sempre dalla cellula fondamentale. Un tema ancora in DO maggiore, dal tratto languido, che poi (3’21”) viene reiterato in MI maggiore (questo tema tornerà letteralmente trasfigurato più avanti). Gli risponde a 3’45”, in 12/8 (4/4) un controsoggetto in DO minore, sfociante sul SI, dominante del MI maggiore dove, sempre su L’istesso tempo, a 4’02”, in 4/4 (8/8) si prepara l’arrivo (4’11”) del tema C, caratterizzato da grande nobiltà, quasi una proposizione di alti ideali, esposto inizialmente dai corni, che si appoggia al SOL# minore (4’41”). Si torna però subito a MI maggiore (4’49”) per la reiterazione del tema, ora mirabilmente arricchito da volute di archi e flauti, con un crescendo fino a 5’21”, dove il tutto si sospende, modulando a DO maggiore, poi - 5’38” - a SIb maggiore. Ed ecco riapparire (6’04”) in MI maggiore, sommesso e languido, con incipit variato e andamento più regolare, il tema B, poi reiterato dai flauti che si fermano sul RE, dominante del LA minore su cui inizia la successiva sezione (6‘40”) dove l’atmosfera cambia radicalmente.

Allegro ma non troppo, 4/4. Sono i violoncelli ad attaccarla, sempre con la cellula fondamentale, cui segue un agitato motivo che via via, a folate successive, coinvolge l’intera orchestra e sfocia a 7’12” in Allegro tempestoso, 12/8 (4/4). Qui, dalla cellula fondamentale si diparte il tema D, quanto mai protervo e minaccioso, subito reiterato (7‘16”) un semitono sopra, dal SIb, fino ad un Molto agitato e accelerando (7‘27”) dove la cellula fondamentale, fiammingamente invertita, dà origine ad un motivo sfociante (7‘34”) nella stessa cellula originale (DO-SI-MI). Il processo si ripete e stavolta sfocia (7‘41”) in tre reiterazioni della cellula cui seguono pesanti accordi dell’orchestra, con i flauti agitatissimi, che conducono (7’55”) ad una vertiginosa discesa di legni e archi. Dopo uno schianto sull’accordo di LA minore ecco presentarsi (8’05”) il tema E, incalzante e carico di angoscia. A 8’12” viene ripetuto in LAb maggiore, uno squarcio di sereno subito rimosso (8’23”) dal ritorno del tema in LA minore.

Questa parentesi cupa si risolve a 8’44” sul tempo Un poco più moderato e tonalità SIb maggiore, dove torna il tema B ancora sottilmente variato. A 9’29” lo stesso viene riesposto in SOL maggiore e ci porta (grazie all’intervento dell’arpa) ad un’oasi di serenità e di pace. Attacca infatti a 10’00” un Allegretto pastorale (Allegro moderato) 6/8 (2/4) in MI maggiore, tonalità quanto mai appropriata alla circostanza. Il corno solo canta il mirabile tema F, poi imitato (10’12”) dall’oboe nella relativa DO# minore, e quindi (10’20”) dal clarinetto in LA maggiore, con i flauti ad interloquire gaiamente. Ancora il clarinetto (10’33”) in FA# minore, seguito dall’oboe. Adesso (10’48”) anche gli archi interloquiscono con i legni, la tonalità si muove da LA a FA (11’05”) per poi ripiegare (11’16”)  a LA maggiore.

A 11’41” ecco tornare negli archi il tema C, poi ripreso (12’11”, Poco a poco più mosso) anche dai flauti con l’arpa ad accompagnare. Un’ardita modulazione (12’28”) ci porta a DO maggiore, dove il tempo continua ad incalzare (Poco a poco più di moto...) e il tema C viene reiterato (12’34”) dai corni, mentre l’orchestra ribolle sempre più e a 13’03” ancora lo ripete in modo colossale, chiudendolo poi con una cadenza (13’18”) che vira - in fff a 13’26” - al LAb maggiore, tonalità che prepara la strada per il successivo Allegro marziale animato, con il ritorno (13’39”) a DO maggiore per la riproposizione del tema B che ora, da languido e sognante com’era nato, diventa (G) nerboruto ed autoritario (4/4 alla breve)! E non per nulla lo contrappunta il retorico tema A!  

Come curiosità si osservino le note riquadrate in rosso nella figura: sono le stesse - a parte metro e tonalità - che Wagner impiegherà per scolpire in musica il Walhall, poco tempo dopo la sua permanenza nell’esilio di Weimar presso il futuro suocero. Forse la cosa non è per nulla casuale: nel programma di Liszt (o chi per lui) si trovano un’atmosfera di ineluttabilità della morte e l’innata, naturale propensione dell’Uomo per la sfida e il cambiamento. Che sono proprio i concetti (Wandel und Wechsel liebt, wer lebt) che Wagner traspone nella figura e nell’approccio esistenziale di Wotan, e di cui il Walhall è strumento materiale.

Una transizione (13’55”) caratterizzata da reiterati interventi delle trombette conduce ad un nuova riproposizione (14’13”, Tempo di marcia) del tema C, ormai assurto - da astratto ideale - a vessillifero di grandiose imprese (si ascoltino i protervi interventi del tamburo militare!) Dopo una prima entrata in DO, viene riproposto (14’19”) in MIb maggiore, sfociando sulla dominante SIb, che per enarmonia diventa LA#, mediante del FA# maggiore sul quale (Più maestoso, 14’25”) ricompare il tema B, lui pure ormai esaltato dall’accompagnamento del tamburo. Ritorna (Vivace, 14’37”) la transizione udita poco prima e si arriva così alla sezione conclusiva.

Andante maestoso, 12/8 (4/4) in DO maggiore (15’08”). È il tema A, che aveva fatto il suo ingresso subito dopo l’Introduzione, a tornare ciclicamente quanto strepitosamente per occupare da solo l’ultima scena, chiusa da poche battute (15’50”) di enfatica Coda

Se mettiamo in sequenza la comparsa dei diversi temi abbiamo la seguente serie: 

A - B - C - B  /  D - E - B - F - C  /  B - C - B -

Come si può notare, se si esclude l’Introduzione, il tema B detiene il maggior numero di ricorrenze, ma soprattutto mantiene una posizione baricentrica e perfettamente simmetrica all’interno della sequenza; mentre il tema A apre e chiude il brano. Un’architettura assai robusta, che ha di certo la sua parte nel rendere quest’opera così immediatamente accattivante
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Impeccabile l’esecuzione, che mette in risalto tutti i dettagli e i tesori di questo brano, che sfugge ad ogni camicia di forza programmatica in virtù dei suo intrinseco valore musicale.
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Tocca adesso al vulcanico 37enne barbuto e capelluto Feodor Amirov (viene da Dimitrovgrad, sul Volga, non lontano da... Togliatti) proporci l’inflazionato Rach-2, l’opera con cui Rachmaninov tornò nel 1901 alla vita dopo aver rischiato di lasciar le penne a seguito del fiasco della sua Prima Sinfonia. E la nuova vita fu in realtà un ritorno alle comode certezze ciajkovskiane, che caratterizzeranno tutta l’intera produzione successiva del nostro.

Amirov, che si presenta subito mostrando il suo carattere estroverso, facendo una specie di saluto romano... ne dà un’interpretazione proprio crepuscolare, tutta in punta di piedi, sfiorando la tastiera, ben assecondato dall’accompagnamento discreto di Flor. Memorabile, nell’Adagio, la cadenza dove i tre accordi sono esposti con una incredibile teatralità.

Dopo tutto questo intimismo, ecco arrivare un altro Amirov, tutto gesticolante, che propone come bis una sua (così credo) improvvisazione da lasciar esterrefatti: dove lo strumento viene impiegato come... batteria o come cimbalom o maracas, e dove il funambolo tartaro (!?) si sgola con urla belluine! Una cosa mai vista e udita in una sala da concerto!     
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Si chiude con la versione raveliana dei Quadri di Musorgski. (Rimando i curiosi ad una mia nota di qualche tempo fa sulla struttura e contenuti dell’originale per pianoforte). L’Orchestra, che ha in questo pezzo uno dei suoi cavalli di battaglia, non manca l’appuntamento, suscitando l’entusiasmo generale. Sugli scudi il sax contralto di Silvio Rossomando nel n°2 del Vecchio castello.

Questa sera non si replica (per... rispetto alla prima del Piermarini). Nuovo appuntamento a Domenica ore 16.