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04 giugno, 2012

Dittico-Bartók al Maggio


Béla Bartók è protagonista al Maggio fiorentino con due diverse opere teatrali: un balletto-pantomima e un dramma. Purtroppo la prima di giovedi scorso è saltata, causa lavori alle strutture del teatro, e così l’esordio è avvenuto ieri pomeriggio, in un Comunale per la verità afflitto da troppi vuoti (il che rinfocolerà le polemiche fra chi apprezza queste proposte e chi vorrebbe solo trilogie popolari, per far cassetta).

Ma il contrattempo più grave si era verificato mesi fa, quando purtroppo quello che doveva essere il grande protagonista dell’evento, Seiji Ozawa, aveva annunciato la propria rinuncia per serie ragioni di salute; ed anche il suo (quasi) naturale sostituto, Peter Eötvös, non ha potuto farcela. Così la direzione è affidata al 44enne Zsolt Hamar, magiaro pure lui, quindi in qualche modo di casa con Bartók

La produzione è giapponese (con scene della DGT) opera del Saito Kinen Festival, di cui Ozawa è più che un partner, quasi un padre fondatore, e certo la sua simbiosi con la regìa di Jo Kanamori avrebbe garantito un altissimo livello allo spettacolo, come avvenne lo scorso anno a Matsumoto. Spettacolo che ha comunque riscosso un notevole successo.


Dapprima viene presentato Il Mandarino miracoloso (o meraviglioso, come si usa più spesso titolare) in forma integrale e con le coreografie di Kanamori e i complessi Noism Dance Company e MaggioDanza.     
   
Coreografie assai intelligenti, con i mimi a impersonare l’ambiente (a cominciare dall’iniziale caos del traffico) in cui si muovono i 5 personaggi principali (i tre malfattori, qui individuati nel padre e madre adottivi della ballerina Mimì, e la di lei cognata; e appunto Mimì e il Mandarino) e i 2 secondari (i primi avventori della ragazza, che qui sono a ruoli modificati rispetto all’originale, dove lo squattrinato è il primo e non il secondo). Il Mandarino ha incollato alle spalle una specie di ombra, che in realtà lo pilota continuamente nei movimenti, evidentemente rappresentando tutto il complesso di vincoli materiali, venali e prosaici cui il nostro soggiace. E di cui si libererà solo alla fine, dopo aver provato almeno per una volta un poco di amore e prima di… tirare le cuoia.

Ottima prova di Hamar e dell’orchestra (clarinetto, manco a dirlo, in testa!) e breve ma efficace intervento del coro femminile, a sottolineare la luminescente trasformazione finale del Mandarino.

Calorosa l’accoglienza per tutta la troupe, in particolare per Sawako Iseki (Mimì) e il Mandarino Satoshi Nagakawa.


Poi il pezzo forte del programma, Il castello del duca Barbablu (in magiaro sarebbe Kékszakállú, nome che a noi pare più che altro uno sfottò piuttosto volgare, smile!) Il Maggio fu il primo teatro italiano ad ospitare l’opera, nel lontano 1938, a 20 anni dalla prima, e dopo un lungo periodo in cui l’opera rimase ineseguita a causa delle proibizioni del governo militare di Miklós Horthy a citare sulle locandine il nome del librettista Balázs (di orientamento comunista) il che convinse Bartók a ritirare l’opera per parecchi anni.    
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Opera di chiara ascendenza al simbolismo francese, che riprende molto liberamente il libretto di Maeterlinck per Ariane et Barbe-bleue di Dukas. Nel quale, contrariamente alla tradizione consolidata da Perrault (dove le 7 mogli perdono fisicamente la testa per il protagonista) il finale è quasi lieto, con Ariane che se ne va incolume, e Barbablu cui viene risparmiata la vita, e così continua a starsene con le altre 5 mogli che lo accudiscono amorevolmente… come brave schiave (!)

Anche Béla Balázs non fa morire fisicamente nessuno (per lui le mogli precedenti sono 3) ma la sua è una storia dalle mille implicazioni: psicologiche, sessuali, filosofiche, antropologiche (per citarne solo alcune). Già il Prologo (recitato da un menestrello) pone questioni da nulla, del tipo: dov’è la scena, dentro o fuori? (pare un soggetto creato apposta per Robert Carsen… smile!, ma lui non l’ha ancora abbordato, credo.)

La prima cosa certa che si evince dal libretto di Balázs è che è stata Judit a cercare Barbablu e non viceversa (!): cosa non proprio scontata, dati i… precedenti. Le prime parole che i due si scambiano in scena sono continue e insistite domande che l’uomo fa alla donna, per sincerarsi della sua persistente volontà di seguirlo, a dispetto del fatto che il suo castello è una ciofeca, a confronto con quello del padre di lei, e che i di lei familiari non l’hanno presa per niente bene, la sua fuga con lui; alle cui domande lei sempre risponde con la massima sicurezza, rivelandoci addirittura di aver lasciato, oltre alla famiglia, pure il promesso sposo, pur di seguire il duca fin lì. E ben sapendo (o sospettando) che il duca medesimo abbia parecchie e turpi cose da nascondere!

Allora, come la mettiamo qui? È Judit una pazzoide, così morbosamente attratta da un uomo, da affrontare una prospettiva terribile, compiendo un gesto a dir poco temerario, e ficcandosi di proposito nella tana-del-lupo? O una stupidella mossa da pura curiosità, che sta giocando, senza saperlo, col fuoco? O più probabilmente una donna affetta da complesso di redenzione-del-peccatore, che si è messa in testa di portare il fedifrago sulla retta via? In effetti alcune sue esternazioni ce lo fanno pensare, ad esempio quando, a precisa domanda di Barbablu (Perché sei venuta?) lei risponde che è lì per aiutarlo a riscaldare il suo castello con le sue labbra e il suo corpo (qui il simbolismo sconfina peraltro dall’erotismo nella pornografia, smile!) Quindi: una ninfomane sado-maso amante del rischio? Mah… forse tutte le cose insieme.

E lui, il duca, che tipo sarebbe? Uno di quelli che non-devono-chiedere-mai, perché per le donne sono come il miele – o la m… - per le mosche? Oppure un inguaribile narcisista sognatore e perennemente insoddisfatto, che ha bisogno di sempre nuove sensazioni estetico-sessuali (mattino-pomeriggio-sera-notte, come per le previsioni del tempo, smile!) per soddisfare il proprio io? (Dopodichè, invece di limitarsi a metterle-in-lista, come fa DonGiovanni, lui le donne le rinchiude in cantina…) E questo morboso vivere nell’oscurità, proprio à la Tristan, rappresenta forse lo stereotipo del cinico nichilista, che cerca quasi inconsciamente qualcuno(a) che lo salvi, ma sa benissimo che inevitabilmente dovrà tornare all’apeiron? (Finisce con le parole e ora sarà sempre notte… notte… notte.) O incarna per caso il simbolo di tutta la mascolinità universale e delle relative malefatte, dalla tortura alla guerra, alla conquista di sontuose dimore e di sconfinati possedimenti, tutti traguardi raggiunti più che altro spargendo sangue e facendo riempire laghi di lacrime? O ancora: è forse il duca l’espressione esteriore dell’io profondo, che rifiuta ogni contatto con l’esterno e chiude tutte le sue porte di accesso (Perché nessuno penetri qui con lo sguardo)? Ma allora perché, apparentemente riluttando e pur avvertendo per sé e per la donna un pericolo, consegna a Judit, una dopo l’altra, tutte le chiavi delle sue più segrete profondità?

O forse il protagonista-simbolo è proprio il castello (pare che Balázs ci avesse pensato seriamente…): che piange, sospira, sanguina e trema alla presenza degli umani? E le sue sale segrete, non possono essere i repository della conoscenza? Di segreti arcani, misteriosi, spaventosi e… pericolosi per l’Uomo che vi si avventura? (Perché mai Barbablu, a Judit che apre le prime due porte, chiede: che cosa vedi, che cosa vedi?)  
  
Insomma, un soggetto dai cento volti e dalle mille possibili interpretazioni.

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Quanto alla parte musicale, l’opera ha una struttura fortemente simmetrica, che peraltro rispetta la simmetria testuale/scenografica.

Ciascuna delle 9 scene principali (l’Introduzione, la Presentazione e le 7 porte) ha a sua volta una struttura in tre sezioni (nell’Epilogo sono due) come qui sotto schematizzato:



Questo specchietto invece illustra schematicamente l’impiego delle tonalità nelle diverse scene, anche in corrispondenza dei colori prevalenti di ciascuna:

  
Macroscopicamente si percorre un arco che parte dalla tonalità di FA# (nel buio pesto) e dopo essere passato per il RE e il MIb di tesori e giardini, raggiunge il culmine (porta 5, il meraviglioso regno di Barbablu, nella luce più piena) sul DO, a distanza quindi di un tritono (l’antipodo nel circolo delle quinte) dal punto di partenza, per poi tornare al buio del FA# conclusivo.  
   
Non ci sono propriamente temi assimilabili a Leit-motive di buona memoria wagneriana, ma alcuni motivi si distinguono perché ricorrono spesso, come ad esempio il richiamo al protagonista, fatto da Judit, che si presenta talvolta così:

Oppure quello che si riferisce al sangue (ma anche alle lacrime) iniziante con due note a distanza di un semitono, che si ode proprio all’inizio, ma poi torna sotto diverse forme:
Straordinario il DO maggiore che caratterizza l’apertura della quinta porta, mostrando l’abbagliante – e allo stesso tempo retorica e tronfia - bellezza del panorama che da lì si gode:
Nel canto di Barbablu che segue, par di sentire Froh che presenta il Walhall agli dèi, nel finale del Rheingold (!) mentre Judit (praticamente parlando, proprio senza alcun accompagnamento) con un contrasto tremendo commenta attonita la vista mozzafiato con due frasi fatte di otto crome, tutte bemollizzate! 
  
Struggente e piena di cupi presagi l’implorazione di Barbablu a Judit (amami, e nulla chiedimi) poco prima dell’apertura dell’ultima porta:
Ma tutta l’opera è un’autentica miniera di idee musicali, assolutamente appropriate ad evocare in modo straordinario le diverse atmosfere che si presentano all’apertura delle porte, e i sentimenti che scatenano nell’animo dei protagonisti.   
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Bene, come ci è stata proposta qui al Maggio?  
  
L’allestimento nipponico è di assoluto livello, coniugando un approccio moderno (scenografia essenziale e intervento di mimi) con il totale rispetto di libretto e partitura, a volte persino troppo didascalico, come negli abiti dei due protagonisti: palandrana scura (come la notte) per lui, che poi se la sfila alla porta 5, restando in… pigiama tutto bianco, per poi rimettersela dopo la porta 6, passata l’euforia; vestito candido per lei (la luce) che però alla fine viene ricoperta da un mantello scuro (chè è destinata pure lei a finire nell’eterna notte di una cantina). Judit ha anche un’anima (impersonata dalla bravissima Sawako Iseki) che appare in momenti topici del dramma, proprio quando la ragazza è più sottoposta a stress. Così come mimi nero-vestiti rappresentano le ombre del duca in prossimità delle varie porte.   
  
I contenuti delle stanze o non si vedono (già la musica li evoca mirabilmente!) o sono rappresentati da mimi. Fa eccezione l’ultima porta, dalla quale escono temporaneamente le tre mogli del duca, ma tutte, così come poi Judit (la quarta) fermamente pilotate nei loro movimenti da grigie presenze, che le rendono prigioniere dell’oscurità.    
  
Matthias Goerne è stato un efficace Barbablu; personalmente preferirei un baritono puro, con voce più chiara, rispetto a quella piuttosto… ehm, cavernosa di Goerne. Ma immagino che oggigiorno di cantanti che abbiano così bene in repertorio questo personaggio non ne esistano a bizzeffe.  
  
Ottima mi è parsa la Daveda Karanas, forse un poco deboluccia nelle note basse, ma dotata di personalità e di buon timbro, oltre che sicura negli acuti, incluso il DO della porta 5.  
   
Andras Palerdi ha interpretato efficacemente il menestrello che presenta l’opera. Brevissimi tutti i mimi-danzatori italo-nipponici.  
  
Anche qui una piacevole sorpresa è venuta da Zsolt Hamar, che ha mostrato di tenere in pugno la difficile partitura con grande autorità, sia sull’orchestra, che negli attacchi ai cantanti. Orchestra che ha risposto assai bene in tutte le sezioni, inclusi i sei ottoni (3 trombe e 3 tromboni, in luogo dei 4+4 prescritti) e le due arpe, dislocati su palchetti di platea.  
  
Alla fine lunghi e meritati applausi e ripetute chiamate per tutta la compagnia. Peggio per chi ha disertato! 

10 maggio, 2011

Gianandrea Noseda: profeta in patria?



Ieri sera al Piermarini concerto della Filarmonica della Scala (in veste di associazione autonoma e quindi ospite – pagante, per i costi della tecnica – del Teatro).

Il mio concittadino Gianandrea Noseda prosegue la sua marcia di avvicinamento a Wagner, evviva e auguri! Nella prima parte del concerto ha affrontato due fra le pagine sinfoniche più impegnative di Meistersinger e Götterdämmerung, intercalate da due monumentali monologhi di Sachs e Wotan, protagonista Matthias Goerne, che sta anche lui muovendosi a piccoli passi verso Wagner.

Si apre con il Preludio dei Meistersinger, pagina tanto nota quanto difficile (o facile a deturparsi…) dove gli ottoni, in particolare, sono chiamati a suonare con nobiltà e seriosità, ma senza scivolare nel volgare, nell'enfasi gratuita, o nel becero fracasso: impresa dura per una sezione che purtroppo si è fatta la non invidiabile reputazione di tallone d'Achille dell'orchestra. Che sia stato merito di Noseda non saprei dire (sarebbe bello per lui…) ma il risultato non ha per nulla fatto gridare vendetta: certo, orchestre che suonano l'opera per intiero un mese sì e l'altro pure forse fanno di meglio, ma dobbiamo accontentarci. (Però vien da chiedersi: ma c'è almeno uno, dico uno, dei tanti repertori o delle tante singole opere, in cui la Scala sia al top?)  

Il monologo di Hans Sachs, che chiude la terza scena del second'atto (Was dufted doch der Flieder), ha il suo culmine nello struggente ricordo del canto di Walther, che Sachs intuisce essere qualcosa che sgorga da sé, per dono di natura, proprio come accade all'uccellino che, senza studiare le regole della Tabulatur, sa cantare perché – di natura, appunto – lo deve

Lenzes Gebot,
die süße Not,
die legt' es ihm in die Brust:
nun sang er, wie er musst';
und wie er musst', so konnt' er's, -

(Un comando di primavera, un dolce affanno, glie lo ha posto nel petto: egli ha cantato come doveva; e come doveva, così potè... traduzione del sommo Manacorda).


L'accordo che sorregge la prima sillaba di quel sü-ße rivaleggia in tutto e per tutto con quello del Tristan, quanto a capacità sbudellanti:

Goerne (lo sentivo per la prima volta in Wagner) mi ha fatto una buona impressione: voce scura, proprio di basso-baritono, buon portamento, ci sono insomma gli ingredienti per farne un possibile buon ciabattino luterano (che poi sarebbe… Wagner medesimo, parliamoci chiaro).

La Siegfrieds Trauermarsch del Crepuscolo è – parole di Wagner, riportate da Cosima nel suo diario del 28 settembre 1871 – un coro, ma un coro cantato dall'orchestra. Un coro senza parole, come giustamente commentò quell'impenitente wagneriano che fu Teodoro Celli. Suonata ed ascoltata fuori dal suo naturale contesto è una pagina di grande musica, di fronte alla quale restare sempre ammirati, almeno se eseguita dignitosamente, come ieri. Ma chi ha in testa il Ring non può non rimanerne anche emozionato, poiché lì vi è distillata, come in un alambicco, tutta la straordinaria vicenda, umana ed eroica, di Siegfried. Cioè una buona parte di quell'universo che Wagner ha messo in musica nella sua divina commedia.   

L'Addio di Wotan è un altro test attitudinale per un basso-baritono che aspiri ad entrare nella cerchia degli interpreti wagneriani; ed è perciò del tutto logico che Goerne, oggi 44enne, ci si cominci ad avventurare. Con risultati, mi è parso, abbastanza incoraggianti, che testimoniano quanto meno del possesso di requisiti naturali minimi (per il ruolo) e della sensibilità richiesta all'interprete di pagine di grandezza stratosferica come questa. Orchestra abbastanza pulita (anche negli ottoni, tubette comprese) ed abbastanza efficace, pure se – giocoforza – le arpe sono solo due e non sei e l'ottavino è singolo, per cui l'incantesimo del fuoco si riduce a focherello, ma va bene così.

In estrema sintesi, mi pare che sia Noseda che Goerne abbiano superato positivamente questo piccolo esamino di pre-ingresso nel mondo del Wagner importante. Forza dunque, li aspettiamo a prove più toste! In particolare il Direttore, firmando autografi dopo il concerto, a una domanda su cosa ci dobbiamo aspettare in campo wagneriano, ha risposto sorridendo con un ottimistico: Vedremo, vedremo!

Dopo l'insalatona wagneriana, si passa al più sereno e meno impegnativo Dvorak dell'Ottava sinfonia. Una specie di pastorale del boemo, reduce dalla sua tragica (la settima).

Il primo movimento ha una specie di motto, che torna all'inizio delle diverse sezioni (e poi sarà la cellula generatrice del tema del finale) esposto inizialmente dal primo flauto, e che ricorda un canto d'uccello:


Nell'Adagio, che principia in DO minore, è sempre il flauto ad esporre – virando al DO maggiore - il delicato tema principale:



Segue poi l'Allegretto grazioso, in 3/8, che occupa il posto di uno scherzo. Bellissima la melodia del Trio, tipicamente boema, e sempre affidata al flauto:



Melodia che nello sviluppo viene contrappuntata da trombe e timpani con incisi giambici sul secondo tempo, che danno sempre l'impressione che gli strumentisti sbaglino le entrate (se suonano come si deve!)

Il finale Allegro ma non troppo è un tema con variazioni, caratterizzato da motivi rigorosamente di 8 battute, ripetuti due volte. Il principale – che mostra chiaramente il suo DNA - lo espongono inizialmente i violoncelli:



Noseda in questa sinfonia (parlo dei movimenti esterni) concede forse troppo all'enfasi e alla platealità, ma tutto sommato stiamo parlando di Dvorak (con tutto il rispetto) e non – che so – del suo mentore Brahms, quindi non c'è da scandalizzarsi più di tanto. Grande feeling con l'orchestra, si direbbe, a giudicare dai reciproci e ripetuti complimenti. 

Successo caloroso, in un teatro per la verità afflitto da parecchi vuoti.
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