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26 luglio, 2021

L’Olandese di Cherniakov a Bayreuth

Premesso che un giudizio complessivo su una regìa è possibile esprimere solo dopo aver assistito (magari in TV, ma meglio se dal vivo...) allo spettacolo, ciò che già si può commentare del Konzept del regista russo è la sua scopiazzatura di idee applicate da altri registi in simili circostanze: Freud!

Si immagina quindi che l’Olandese non stia scontando un peccato di superbia e un patto col diavolo, ma abbia subito da adolescente un trauma famigliare (la madre trascinata in una tresca e indotta al suicidio) e che passi il resto dei suoi giorni a cercare - per vendicarsi - l’autore del misfatto. Che si scopre essere, toh, Daland in persona! Così Senta (una ragazzina ribelle) invece di dover redimere il peccatore ne diventa lo strumento di vendetta verso lo sbifido padre. Dopodichè l’Olandese, ottenuta la vendetta, spara sulla folla riunita per il suo matrimonio, incendia il paese e si giustizia da solo!

Come è evidente, se ci si inventa di sana pianta il movente di tutta la vicenda, allora tutta la vicenda assume aspetti totalmente divergenti da quelli del testo originale (per il quale era stata composta la musica): nella fattispecie un’opera romantica (!) si trasforma magicamente in un crudo reportage su un caso clinico e le relative conseguenze.

Mi viene in mente il Faust (Damnation) di Michieletto, la cui esistenza è condizionata da traumi giovanili (famiglia squinternata e bullismo subito a scuola): insomma, nulla di nuovo sotto il sole, menchemeno a Bayreuth, ormai avvezza al fenomeno.

06 marzo, 2014

La sposa dello… zombie di Cerniakov

 

Ieri sera seconda recita di Una sposa per lo Zar, in un Piermarini ancora una volta povero di spettatori.


Il soggetto, che Il’ja Tjumenev trasse dal dramma di Lev Aleksandrovič Mey, è proprio un bel polpettone strappalacrime! Viene descritto come dramma a sfondo storico, ma in realtà di storico ha soltanto un paio di riferimenti (per quanto importanti) alla figura di Ivan Grozny (da cui viene il titolo dell’opera). Per fare un paragone con un vicino di casa, il Boris di Musorgski sì che è un dramma storico, tutto incentrato sulla figura dello Zar e sulle vicende pubbliche, oltre che private, connesse alla sua salita al potere e alla successiva fine. Qui invece la storia si riduce alla presentazione del contesto in cui si svolge l’azione, uno scenario di vita quotidiana che esseri umani sono costretti a condurre a qualunque latitudine in una qualunque società che si trovi ad essere schiacciata sotto il tallone di un qualunque despota e dei suoi sgherri.

Nel quale brodo di cottura troviamo immersi gli ingredienti principali dell’opera: amori (puliti e sporchi) gelosie, corna, ricatti, filtri e contro-filtri magici, ipocrisie, equivoci, pentimenti e sequele di colpi-di-scena. Il tutto infine si conclude con un’orripilante escalation di ammazzamenti che non lascia vivo uno solo dei quattro protagonisti principali…
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Lo spunto per il titolo venne a Mey dalla vicenda di tale Marfa Vasilevna Sobakina, terza moglie di Ivan il Terribile (un tipo che pare scegliesse le consorti attraverso concorsi di bellezza, con tanto di eliminatorie, magari con gironi di 1600-2000 candidate, e short-list di 12 finaliste!) morta di inedia pochi giorni dopo le nozze, si disse causa avvelenamento. Ma andiamo con ordine.

Il cattivone di turno (un baritono, manco a dirlo!) è Grigorij Grigor’evič Grjaznoj che ricopre ruoli di comando nella polizia personale dello Zar (i famigerati opričnik). Costui convive da tempo con tale Ljubaša, una donna ancora piacente (regalatagli - previo… esproprio dalla famiglia d’origine - da un collega più anziano, Maljuta, basso) che canta come un usignolo, ed è assai gelosa (quindi: mezzosoprano). Però adesso si è innamorato pazzamente della protagonista Marfa, giovanissima, bella e immacolata (soprano!) già promessa al nobile (boiaro) Ivan Sergeevič Lykov (per gli amici: Vania, tenore).

Nella prima aria dell’opera il rude Grigorij si scopre invecchiato e imborghesito: anni addietro avrebbe semplicemente abbattuto la porta di casa della ragazza concupita per trafugarci la sua preda senza tanti complimenti… adesso invece si accorge di esserne innamorato sinceramente (!) e di doverla conquistare con mezzi civili e incruenti.  

Tuttavia, non avendo avuto successo con le buone, non esita ad usare, per raggiungere il suo scopo, sistemi, ehm… diversamente-persuasivi: promettendogli oro e ricchezze, convince tale Elisej Bomelij (tenore) medico dello Zar (ma in realtà un cialtrone-stregone che si spaccia per alchimista) a procurargli un filtro d’amore da far bere a Marfa per innamorarla di lui. Peccato che della trama si accorga la gelosa Ljubaša, che subito inventa una micidiale contro-mossa: si reca dallo stregone di cui sopra e gli chiede di procurarle un filtro dell’invecchiamento (in realtà, un filtro di morte) da somministrare al posto di quello d’amore alla povera Marfa, in modo da renderla inappetibile per il fedifrago Grigorij.

Come si vede, con tutti questi filtri la storia comincia a puzzare di… Tristan (!) Ma anche di Tosca, dato che lo sbifido stregone (che non è mica scemo!) approfitta della situazione per trasformarsi in Scarpia e obbligare Ljubaša (sotto il ricatto di spifferare tutto a Grigorij) a pagarlo in natura. Cosa che la donna (una che evidentemente non ha la stoffa della collega bellona, sì insomma, la cantante pucciniana, smile!) pur mostrandosi a tutta prima riluttante, alla fine si decide a fare, suo malgrado.

Adesso arriva il primo colpo di scena: alla festa di fidanzamento di Marfa con Vania il poliziotto Grigorij versa il contenuto della fiala avuta da Bomelij nella coppa di idromele destinata a Marfa, che la ingurgita d’un sol fiato. Ma in quello stesso momento giunge un messo dello Zar ad annunciare che proprio Marfa ha vinto la finalissima del concorso per zarina (quando si dice il… culo!)

Non resta ora che prepararsi all’apocalittica conclusione: la povera Marfa si è già trasferita, famiglia al seguito, negli appartamenti reali, ma sta sempre peggio e nessuno sa spiegarsi perché. Nessuno salvo Grigorij, che dapprima immagina (illuso!) che si tratti dei primi sintomi di mal d‘amore (per lui) ma ben presto comincia a sospettare che il filtro avuto dallo stregone non abbia funzionato a dovere, o peggio fosse una bufala. Intanto, per salvarsi il culo (leggi: evitare di essere impalato, smile!) dalle ire dello Zar, fa torturare Vania, il fidanzatino di Marfa, fino a costringerlo a confessare di essere lui il suo avvelenatore (per gelosia nei confronti dello Zar) e così giustiziarlo sommariamente come traditore.

Ora viene chiamato in causa anche Donizetti, per supportare il trasferimento di Marfa al reparto… disturbati mentali: la poveretta, informata da Grigorij della brutta fine di Vania, va in preda alle allucinazioni e scambia la testa di cuoio per il fidanzato, proprio come la Lucia di Lammermoor (!) Ma il rimorso ormai si è impadronito dell’animo dell’ex-macho che esplode nell’auto-accusa: lui è colpevole di aver somministrato alla ragazza un filtro che credeva d’amore e chiede di essere giustiziato (non prima però di aver dato il benservito all’alchimista imbroglione…)

Ma l’ultimo e più clamoroso colpo-di-teatro deve ancora arrivare: trionfante, Ljubaša annuncia a Grigorij che Marfa in realtà è vittima di un filtro di morte, che lei aveva sostituito (ecco a voi una Brangäne al contrario!) a quello d’amore, prima che lui lo versasse nella coppa di idromele. Così a Grigorij non resta che ammazzarla seduta stante, per poi consegnarsi ai suoi colleghi sgherri per essere a sua volta giustiziato. Mentre lui le getta un ultimo disperato sguardo, la povera Marfa, ormai del tutto uscita di melonera, gli dà appuntamento per l’indomani, chiamandolo… con il nome del suo amato Vania.

Ecco, tutto questo sapido intrico di passioni ha come sfondo uno scenario idilliaco e bucolico di vita di una comunità rurale (la danza-coro del luppolo, la gente che esce dalla Messa, i ricordi d’infanzia di Marfa) sul quale scenario però incombe l’ombra del sanguinario tiranno. Ombra che appare in forme trionfaliste (il coro in onore dello Zar del primo atto) poi minacciose (gli opričnik che si preparano a spedizioni punitive, inizio dell’atto secondo) e poi si materializza, terrificante, con l’apparizione muta ma sconvolgente dello Zar a Marfa, sempre nel second’atto.

Infine l’ultimo degli effetti della presenza di un despota - che ha il potere di vita e di morte su chiunque - è rappresentato dall’angoscia che, nel terzo atto, attanaglia i due rivali Vania e Grigorij al pensiero che lo Zar potrebbe sequestrargli Marfa, privandoli in tal modo della (genuina per il primo, mistificata per il secondo) felicità.
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Ecco, si potrebbe dire: meno male che Rimski c’è… dato che è la sua musica a sollevare dalla mediocrità il livello di un soggetto francamente discutibile. Musica caratterizzata, come tutta quella di Rimski, da un adeguato standard di qualità ed altrettanto ottima godibilità (sia chiaro però: nessuno si azzardi a parlare di capolavoro!) Del resto il nostro era, nonostante l’appartenenza ad opposta fazione, un ammiratore di tale Ciajkovski, come si evince immediatamente dal secondo tema esposto nell’Ouverture (e mai più riascoltato nell’opera) ottenuto citandone, giustapposti, nientemeno che due frammenti di motivi: rispettivamente il secondo del movimento iniziale della Prima Sinfonia e il secondo del secondo movimento del Manfred:


E altro Ciajkovski (Onegin, ancora i Sogni d’inverno, ma anche un po’ di Patetica) fa capolino qua e là, oltre all’amico Musorgski di cui viene ripetutamente ripreso - dal prologo del Boris, scena seconda - il coro per lo Zar, in realtà l’abusato canto patriottico Slava Bogu ne nebe Slava, citato persino da Beethoven nel secondo dei quartetti Razumovski (oltre che da Borodin nell’Igor, da Ciajkovski in Mazepada Arensky nel quartetto op.35 e da altri ancora):



Ma insomma, a me questo Rimski operistico verrebbe da chiamarlo il Meyerbeer russo post-litteram, ecco… E del resto ne fa fede la sua maturata idiosincrasia verso la modernità wagneriana e il suo dichiarato intento di riproporre con quest’opera – siamo ormai in vista del ‘900! - una forma di melodrammone ultra-tradizionale, infarcito di numeri d’insieme (duetti, terzetti, quartetti, quintetti, sestetti con coro) oltre che di arie e ariosi in piena regola. Insomma: un’opera assai più vicina agli standard dei Teatri Imperiali che non all’approccio autarchico e innovatore (per non dire rivoluzionario) della Banda dei Cinque, presso la quale Rimski pure era stato in servizio permanente effettivo in anni precedenti.

Rimski, che dopo una prima infatuazione si era messo a criticare Wagner per le sue idee riguardo al melodramma, era però un suo seguace nel saper evocare con motivi musicali appropriati le più diverse situazioni: basta pensare a come supporta la descrizione che fa l’alchimista Bomelij a Grigorij del suo filtro magico, quattro battute musicali nei legni che sono parenti strette del wagneriano tema del Tarnhelm

E anche se propriamente non impiega Leit-Motive nell’accezione wagneriana, tuttavia Rimski usa caratterizzare i personaggi con temi ben riconoscibili o appropriati ad evocare particolari stati d’animo (ad esempio i motivi che salgono alla sopratonica, che ben rappresentano le smanie di Bomelij nel suo rapporto con Ljubaša) oppure ripropone lo stesso tema in situazioni diverse, come ad esempio quello dell’aria di Ljubaša del primo atto, che fa da intermezzo, nel secondo, fra il quartetto davanti alla casa di Sobakin e il fatale incontro della (ex-)donna di Grigorij con l’alchimista.

Un autentico gioiello è il motivo in REb che sostiene la seconda parte dell’aria della pazzia di Marfa (a partire dal Larghetto assai sui versi Guarda, sopra le nostre teste il cielo è ampio come una tenda). Esso richiama quello dell’aria del second’atto (dove Marfa ricordava i bei giorni passati da ragazzi con Vania) ed è presente anche verso la fine dell’Ouverture:


Dopo l’esposizione di due coppie di soggetto-controsoggetto l’aria si chiude piuttosto asimmetricamente, con la proposizione del soggetto che, dalla dominante, invece di preparare la risposta, chiude piuttosto repentinamente sulla tonica: un mirabile esempio di pazzia musicale!   

Insomma, un’opera che fa la sua bella figura nel mucchio di tanti melodrammi, diciamo, di centro-classifica, e che meriterebbe anche da noi di godere della stessa popolarità di cui viene gratificata in Russia.   
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Qui l’audio della storica edizione del Bolshoi con la grande Vishnevskaya.
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In questa co-produzione della Scala e dell’Unter-den-Linden si esegue la partitura quasi al completo. Quasi, poiché nel primo atto viene cassato totalmente (ma accade talora anche in Russia) il lungo coro danzato cosiddetto del luppolo selvatico. Peccato, poiché sono alcuni minuti di bella musica (come tutto il resto) ed anche appropriati ad impreziosire la festa in casa di Grigorij. Di altri piccoli tagli – ad esempio la scenetta dei due giovani che escono dal negozio di Bomelij – possiamo non dolerci troppo.

Che dire di canti e suoni? Che purtroppo questa volta (e non sarà l’ultima) la radio di domenica scorsa mi ha tradito - in eccesso - non poco. Intanto un paio di considerazioni generali. Primo: almeno la metà delle voci si sono dimostrate assolutamente inadeguate a perforare gli immensi spazi del Piermarini. Secondo: Barenboim non se ne deve essere accorto in tempo, poiché ha bellamente coperto i cantanti spesso e volentieri. L’alibi che tanto nessuno del pubblico capisce cosa si canta e quindi fa lo stesso è di quelli un filino paraculi…

Vediamo i dettagli (pagelle mie, e solo mie, ovviamente).

Johannes Martin Kränzle (il velleitario Grigorij) è uno dei tre soli che si fanno sentire: ma non è propriamente un bel sentire. Lo ricordavo meglio nell’Alberich del Ring del bicentenario: qui schiamazza assai più che cantare.

Olga Peretyatko (in Mariotti…) è Marfa: anche lei passa a sufficienza, però la voce è spesso pigolante (va bene che lei interpreta una ragazzina) e sgradevolmente metallica. Nella scena conclusiva viene costretta dal regista a cantare anche in posizione bocconi, il che potrebbe valere come attenuante generica in tribunale.

Marina Prudenskaya (Ljubaša) non canterebbe neanche male, se si riuscisse ad udirla bene: viceversa i suoi limiti congeniti e l’esuberanza di Barenboim ci consentono di sentirla discretamente solo nella sua aria del primo atto, dove canta da sola mentre l’orchestra tacet (!) 

Pavel Černoch è un Vania piuttosto evaniascente (smile!): canta tutte le note, ma la metà non si sente e l’altra non entusiasma.

Stephan Rügamer non è malaccio nel ruolo dello sbifido Bomelij (un po’ come nel Loge del Ring di cui sopra): da me ha un’onesta sufficienza.

Anatoly Kotscherga (Sobakin) si sente bene (nel senso che i suoni arrivano…) e per il resto col mestiere di un’intera vita riesce a supplire alle magagne del tempo.

Anche Tobias Schabel (Maljuta) se la cava, sia pure a stento, e soprattutto perché canta abbastanza poco (smile!)

Sulla povera Anna Tomowa-Sintow (Saburova) non mi sento di sparare. Certo qui si danno solo due possibili spiegazioni: o lei è così in bolletta al punto da mendicare da qualche vecchio amico scritture come questa (il ruolo non è certo di quelli da… Panariello, stra-smile!) oppure ha perso del tutto il senso delle misure. Non so quale delle due spiegazioni augurarmi per lei.

Anna Lapkovskaja (Dunjaša) e Carola Höhn (Petrovna) hanno cercato (soprattutto la prima, un poco più impegnata) di meritarsi il gettone.

Il Coro di Casoni ha forse qualche problemino di… lingua (scherzo): fatto sta che non mi è parso così compatto come suo solito.

Barenboim mi aveva lasciato perplesso domenica (radio) proprio nell’Ouverture, per eccessiva sostenutezza. Ieri almeno lì mi è parso migliorare, tenendo tempi più spediti. Per il resto, detto dello scarso rispetto che ha avuto per cantanti in deficit di voce, ha diretto per me in modo discreto un’orchestra che a sua volta non mi ha entusiasmato, proprio nella sezione archi. Alla fine dal loggione gli è piovuto addosso uno strepitoso che personalmente avrei riservato ad occasioni migliori.

In complesso una prestazione non molto più che sufficiente, accolta da applausi moderati e sbrigativi. Negli intervalli si è udito anche qualche sibilo, ma sarebbe da stabilire se diretto ai Musikanten o al Regisseur (quest’ultimo dev’esser già dall’altra parte del mondo, tanto la sua razione programmata di buh l’ha già messa in banca domenica scorsa…)
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E a proposito di regìa, su quella di Cerniakovbuato pesantemente alla prima, nonostante lo stoico quanto goffo tentativo di salvataggio compiuto da Barenboim (proprio come fece per la contestatissima Emma Dante anni fa… A proposito, caro Daniel, non dicesti che quella era la Carmen del terzo millennio? hahaha!) – pesa il solito vizio di voler-dover strafare a tutti i costi.

Certo a Cerniakov dev’essere sembrato banale (o rischioso?) cambiare l’ambientazione del soggetto legandola all’attualità ed allo stesso tempo conservando piena coerenza con l’originale. Il che sarebbe abbastanza facile, basterebbe ambientare il dramma di Rimski sotto Hitler, oppure sotto Pol-Pot, o Stalin, o magari anche, perché no - invece di personaggi ormai obsoleti come il patetico Boris Eltsin - mostrarci in chromakey la Russia di oggi sotto Putin, con immagini dei massacri in Cecenia, dell’irruzione alla Dubrovka, di Khodorkovsky in galera o della Politovskaja ammazzata in ascensore… e visto che tutto ormai si può fare in real-time, pure dell’invasione della Crimea!

No, il regista - lo scrive anche e lo racconta nelle interviste - traspone la vicenda ai giorni nostri per mostrarci come, in fondo, il mondo non sia cambiato da mezzo millennio a questa parte: anche oggi c’è uno zar – virtuale anziché reale - che in qualche modo ci condiziona tutti, letteralmente inventato al computer dal potere dei media, TV e rete in primo luogo.

Intendiamoci: che oggi l’umanità sia in preda a degenerazioni legate all’uso improprio delle diavolerie che inventa a raffica è sotto gli occhi di tutti e un artista che si rispetti, ed abbia le capacità per farlo, fa benissimo a costruirci un soggetto teatrale e da questo ricavare uno spettacolo di alto livello. E a Cerniakov vanno riconosciuti tutti i meriti in proposito: grande fantasia, profondo acume nel decifrare anche pieghe nascoste del soggetto, e poi notevole maestrìa nel metterlo in scena.

Purtroppo, essendo matematico che in casi come questo nascano difformità fra l’idea del regista e l’originale, è fatale che sia quest’ultimo (in toto o in parte) ad essere… sacrificato sull’altare della prima. Ecco quindi che il nesso causa-effetto zar-opričnik viene semplicemente ribaltato (!) Qui sono i secondi che creano il primo, e non viceversa. A che pro? Ovviamente perché loro sono produttori di spettacoli TV, che ci inventano sopra un gigantesco serial televisivo che avrà come protagonista non lo zombie (che esiste solo nelle memorie dei computer e sugli schermi TV) ma una sua sposa in carne ed ossa, che verrà selezionata con un classico casting moderno, come decidono i costruttori dello zar nella loro chat durante l’Ouverture. E naturalmente sapendo benissimo fin dall’inizio che la sposa in carne ed ossa dello zar in… pixel finirà per uscire di melonera. Come si vede, il risultato finale – la pazzìa di Marfa – viene preservato sì, ma a spese dello stravolgimento della causa scatenante.

Altro punto debole qui sta nel ruolo degli opričnik di Cerniakov: la cui protervia è tutta e solo ideologica e di business, mentre nell’originale – testo e musica - è proprio brutalmente materiale!

Quanto alla storia e al significato dei due filtri, dobbiamo pensare trattarsi di affari di droga, di cui Bomelij dev’essere evidentemente uno spacciatore. Quella chiesta da Grigorij probabilmente è roba leggera, sufficiente ad irretire l’ingenua Marfa e farla cadere nelle braccia del manager produttore di serial. Quella data a Ljubaša magari è una polvere da sciogliere in una bevanda, ma che ha gli stessi effetti del crack, che distruggerà Marfa nel corpo e nella mente. Alla fine nessuno potrà però dire se la poveretta sia vittima della droga o dell’insopportabile stress derivatole dal ruolo impostole nel serial di cui è diventata protagonista dopo aver vinto la finalissima del casting. E anche qui non siamo certo fuori strada rispetto all’originale, poiché è del tutto plausibile che la vera Marfa non fosse stata affatto avvelenata, ma fosse crollata psicologicamente sotto il peso del ménage di coppia impostole dal Terribile.

Ciò che non quadra in questa parte del Konzept di Cerniakov è che nell’originale Marfa viene costretta (dal potere violento dello Zar) a partecipare alla selezione e poi a diventare, magari controvoglia, moglie del despota. Qui invece lei si presenta spontaneamente alle selezioni, attirata dal miraggio del successo e dall’immagine ingannatrice dello zar-in-pixel fugacemente vista sullo schermo TV di casa sua.

Ci sono poi nello spettacolo, ne cito un paio, altre forzature e/o incoerenze con l’originale: alla fine del second’atto Ljubaša, invece di cantare a se stessa il suo risentimento e la sua sete di vendetta nei confronti di Marfa, lo fa proprio cantandole in faccia alla povera e ignara ragazzina! Dopodiché sembra quasi pentirsene e l’atto si chiude con lei che, invece di andarsene con Bomelij (che ha già preparato la droga e pure… le valigie!) resta praticamente avvinghiata a Marfa (quindi perché mai insisterà poi a volerla morta?) Alla fine del terz’atto, all’arrivo della notizia della vittoria di Marfa alle selezioni, il povero Vania invece di disperarsi, va sorridente a complimentarsi con la fidanzata, come farebbe qualunque giovane emancipato di oggi se la sua ragazza venisse scelta per il Grande Fratello o consimili.

C’è poi la questione del luppolo: qui il sospetto che sia stato sacrificato in quanto non coerente (figuriamoci, un girotondo di ragazzi e ragazze che cantano un’innocente filastrocca!) con la vision del regista diventa quasi certezza.

Intendiamoci: si tratta di aspetti magari marginali, però messi tutti insieme finiscono per disorientare lo spettatore, direi più quello che ha una certa dimestichezza col soggetto che quello che invece lo vede per la prima volta e magari afferrando pochi percento delle parole cantate. 

Per riassumere il tutto, nello specchietto sottostante ho cercato di sintetizzare, attraverso l’elencazione e la descrizione di alcune loro rilevanti caratteristiche, lo scenario originale e quello immaginato dal regista:    


scenario A - Mey/Tjumenev
scenario B - Cerniakov
società
medievale, agricola
post-industriale, terziario
regime politico
feudale, dispotico
democratico, garantista
identità del potere
persona fisica, accentratore
entità virtuale, diffusa
gestione del consenso
terrore - violenza – giustizia sommaria 
media – moda – imitazione - promozione sociale
gestione degli individui
autoritaria
permissiva
strumenti di seduzione
filtri magici (agenti chimici, materiali)
miraggi di successo (agenti psichici, immateriali)
coinvolgimento con il potere
asservimento (imposto con la forza)
condivisione (liberamente deciso)

Beh, credo proprio sia difficile sostenere che i due scenari abbiano alcunché in comune: anzi, non potrebbero essere più distanti fra loro. Ma allora, se vogliamo (come dovremmo) dar credito a Rimski di aver composto una musica precisamente funzionale ad un testo che evoca lo scenario A, come può accadere che quello stesso testo e la musica che ne è conseguita calzino perfettamente anche allo scenario B, che gli sta agli antipodi?

Qui sta tutto il nocciolo della questione relativa al giudizio estetico da dare di una messinscena come questa. Ognuno ovviamente è libero di privilegiare l’indiscutibile genialità, e professionalità di realizzazione, della proposta di Cerniakov oppure di dichiararsene deluso a causa dell’insopportabile incoerenza tra ciò che si vede e ciò che si ascolta.  
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Chiudo tornando alla musica e alla figura dello zar, che per Cerniakov abbiamo visto essere niente più che un’ardita creazione di supertecnici dell’immagine. Ecco, invece per Rimski è un essere proprio in carne ed ossa. Come ce lo spiega il compositore? Ovviamente con la sua musica (e magari con un minimo di… spocchia).

Sì, perché nell’opera noi ascoltiamo quasi da subito lo Slava Bogu, il quale non è propriamente catalogabile come un tema dello Zar Ivan, bensì è un inno di lode per lo Zar, cioè per un qualunque zar, anche quello virtuale di Cerniakov, cosa alla quale ci aveva abituato già Beethoven e come ci confermeranno i vari Borodin, Musorgski, Arensky etc.

Ma attenzione a quanto accade in orchestra, nel second’atto, al momento della comparsa dello Zar davanti a Marfa e Dunjaša: al tema Slava Bogu Rimski contrappunta, reiterandolo a velocità folle, un motivo che evoca Ivan nell’opera La fanciulla di Pskov (motivo del resto a sua volta derivato dallo stesso Slava Bogu) dove Ivan è proprio un protagonista in carne ed ossa, mica un’idea virtuale. Domandiamoci: Rimski avrebbe scritto la stessa musica dovendo supportare una scena dove Marfa, invece di essere terrorizzata dall’apparizione reale di quella figura minacciosa (che lei nemmeno sospetta trattarsi dello Zar, ma dal quale poi verrà di fatto sequestrata per sfilare come potenziale sposa) viene piacevolmente colpita dall’immagine seducente di un bell’uomo, al punto da decidere immediatamente di concorrere al posto di zarina?

Lo stesso accade alla conclusione dell’atto terzo, dove la solenne e ufficiale comunicazione che Maljuta fa in casa Sobakin (la scelta di Marfa da parte dello Zar) è accompagnata proprio dal tema di Ivan in carne ed ossa, oltre che dallo Slava Bogu:


Potrà pure sembrare un dettaglio ultra-capzioso, ma vi assicuro che chi questi particolari li conosce fa fatica a vederli ignorati o adulterati dalla messinscena.

03 marzo, 2014

Alla Scala una sposa senza… birra

 

Dopo 115 anni anche la Scala ha deciso di togliere l’ostracismo a Una sposa per lo Zar, di cui ieri è andata in scena la prima, irradiata da Radio3.


Di tutto ciò che in radio non si può vedere, si è invece sentito assai chiaramente all’uscita finale del regista, l’incompreso Cerniakov, sommerso da un uragano di buh. Prossimamente cercherò di riferire in proposito dopo aver fatto il santomaso.

Quello che si è udito prima mi è parso di livello mediamente accettabile, con un mix di alti e bassi che vanno da Kränzle a  Černoch, passando per Prudenskaya e Peretyatko. Una vera fortuna poter ascoltare un’interprete della prima del 1899 (stra-smile e 100 di questi giorni, Anna!)

Ci è mancato molto il luppolo selvatico. Peccato, vuol dire che saremo costretti a brindare con… vodka tedesca!

16 dicembre, 2013

Violetta alla Scala: impressioni dal vivo

 

Ieri sera terza recita (in una Scala che presentava qualche buco in platea e parecchi vuoti nei palchi) del titolo che ha aperto a SantAmbrogio. Come accade non da oggi, dopo una prima contestata, quella di ieri (ma, dicono, anche la seconda) è invece stata accolta da convinti applausi e soprattutto senza aperti dissensi (per la verità è mancato il giudizio sulla regìa, renitente al momento delle uscite finali).


In ogni caso sul fronte dei suoni il risultato mi è parso di livello notevole, grazie ai tre protagonisti principali.

Diana Damrau si è confermata una Violetta di gran spessore, particolarmente convincente in quei passaggi di maggior lirismo (che lei canta a fior di labbra, quasi a bocca chiusa) ma sicura anche nel canto spiegato (e non solo per quel MIb che ieri ha staccato con grandissima autorità). Se proprio dovessi trovarle un pelo nell’uovo, direi di qualche acuto un filino calante e della cosiddetta ottava bassa che faticava a… percorrere gli enormi spazi del Piermarini. Per lei, un trionfo totale.

Piotr Beczala era partito un filino contratto e piuttosto impreciso nei passaggi di maggior virtuosismo, ma poi si è via via migliorato e nessuno ha trovato da ridire sulla sua prestazione complessiva.

Anche Željko Lučić (per la verità l’unico personaggio che il regista ha… lasciato in pace, smile!) ha confermato la prova discreta dell’esordio, ieri oltretutto anche Gatti lo ha supportato meglio che a SantAmbrogio.

Quanto ai comprimari, mi vien da citare per tutti il Gastone di Antonio Corianò. Sui suoi standard il coro di Bruno Casoni.

Daniele Gatti? La sua è una direzione improntata all’intimismo, quasi cameristica, che potrà non piacere del tutto a chi ama un Verdi più sanguigno. A me non è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico si è mostrato di questo avviso: qualche timido dissenso  è stato ampiamente coperto da applausi calorosi su cui si è inserita una raffica ritmata di bravo, bravo, bravo! proveniente (mi è parso) da un singolo punto della prima galleria (evidentemente un supporter particolarmente agguerrito…)

Chi non si è fatto vedere, come detto, è il regista, sottrattosi all’esame-finestra: così non possiamo sapere se il pubblico di ieri abbia gradito oppure no la sua proposta.

E allora ci torno sopra io, cominciando col dire che la visione dal vivo non mi ha fatto cambiare idea rispetto a quella di SantAmbrogio in TV. Questo di Cerniakov è uno spettacolo assolutamente coerente in se stesso, incentrato su una visione attualizzata del soggetto originale, ma dove l’attualizzazione, ahinoi, comporta uno scollamento tanto evidente quanto stridente fra ciò che si vede in scena e ciò che si ascolta dalle voci e dagli strumenti, cioè da ciò che Piave e Verdi ci hanno lasciato. 

Ora, per non dar l’impressione di emettere giudizi sommari senza motivarli, prendo alla lettera il motto di Lissner (non siamo qui per farvi divertire, ma per farvi riflettere) e  provo precisamente a fare qualche riflessione. Lissner mi perdonerà se in queste mie riflessioni parlo di un prodotto (uso qui il linguaggio universale anche se freddo del business) che lui mi ha venduto come originale e genuino (a giudicare dalla locandina) e che io (sulla fiducia) gli ho comprato, pagandolo, e profumatamente, in anticipo.

Per non farla troppo lunga, parto direttamente dalla fine (del resto in ogni opera in fundo stat dulcis…) Dunque, nella Traviata di Verdi-Piave (musica-libretto) abbiamo una giovane donna che muore. Di cosa? Di una malattia del fisico, del corpo, già ampiamente diagnosticata come letale e della quale Violetta è perfettamente cosciente da tempo: sintomi si sono manifestati già nel primo atto; poi, pur senza nominarla, ne ha fatto cenno a Germont-sr nell’atto secondo. Certo, una malattia potenzialmente aggravata da componenti psicologiche avverse, prima fra tutte una felicità tanto improvvisa, insperata, inimmaginata e totalizzante rapidamente distrutta da fenomeni estranei a lei e alla persona che l’ha resa felice.

Ma una cosa è lampante, straordinariamente chiara: Violetta, che sa di morire (devolve in carità gli ultimi spiccioli) muore però contro-voglia, mentre vorrebbe cocciutamente vivere; immediatamente prima del finale collasso… si rialza rianimata - ci spiega Piave - e canta Cessarono gli spasimi del dolore… in me rinasce… m’agita insolito vigor! Ah!… ma io… ritorno a viver!… oh gioia! La vita le viene strappata proprio mentre le cause della drammatica interruzione della sua felicità sono state interamente rimosse, e ripristinate le condizioni (di natura privata e pubblica) perché quella felicità possa tornare concreta, tangibile, possibile e praticabile. Insomma, Violetta vuole vivere! E per questo c’è una drammaticità commovente in quel suo sfogo Gran Dio! …morir sì giovane.

Chi le è vicino al momento del trapasso? Precisamente quattro persone care (Grenvil, vedete? tra le braccia io spiro di quanti ho cari al mondo...) di cui sarà bene ricordare ruoli ed atteggiamenti. In primo luogo Alfredo, che da quando se n’è innamorato non ha cessato di amarla, e non solo nelle tre lune trascorse con lei (contenta in quegli ameni luoghi!) ma anche successivamente, persino mentre sfogava platealmente contro di lei tutto il suo risentimento. In fondo, si era reso conto ben presto che lei era stata costretta a fingere di tradirlo, con il solo nobile senso di salvare l’onore suo e della sua famiglia. Poi papà Germont, sinceramente pentito per aver interrotto quella felicità, ed ora pronto ad ogni riparazione. E il medico, che amorevolmente accorre ripetutamente al suo capezzale (trascurando magari migliori opportunità di guadagno) per curarla e per confortarla. E infine Annina, ormai una fedele amica, prima ancora che donna di casa.

Scenario strappalacrime ottocentesco? Improponibile e ridicolo ai giorni nostri, dove le lacrime sono merce sconosciuta a pochi e risorsa esaurita per i più? Forse, ma è precisamente a questo scenario che stupendamente si attagliano i versi di Piave e - soprattutto! - la musica di Verdi. Per dire, le 23 battute che precedono lo spirare della donna che vorrebbe a tutti i costi vivere sono una vera e propria Tod-und-Verklärung ante-litteram (rispetto a Strauss ma anche al Wagner di Isolde e al Puccini di Mimì). E da questo punto di vista benissimo ha fatto Gatti a riprendere l’orchestrazione del 1853, facendo suonare i due soli violini à-la-Lohengrin (l’abbassamento di un’ottava del 1854 è ormai appurato fosse esclusivamente dovuto alla palese insufficienza di strumenti e strumentisti dell’epoca…)

Ecco, questo è il prodotto che uno spettatore che riflette - caro Lissner - si attende di ricevere in cambio del (salato) prezzo del biglietto. Il regista ci metta pure (e ci mancherebbe!) tutta la sua fantasia e sensibilità, ma il prodotto finale deve avere quella sostanza, e in primo luogo possedere piena coerenza con quella mirabile miscela di parole e musica che gli autori ci hanno consegnato. Altrimenti è solo una (per quanto accurata) contraffazione

 

Che prodotto ci consegna invece Lissner, per tramite del suo regista russo? Una donna malata e morente sì, ma affetta da una tipica malattia nervosa (lo abbiamo constatato durante l’intera opera, anche ben prima della stroncante irruzione di Germont-sr); una donna malata non ai polmoni ma alla mente (grottesca davvero la scena di Grenvil che ammicca ad Annina indicando la condizione di Violetta con un inequivocabile picchiettare dell’indice della mano contro la tempia, mentre canta la tisi non le accorda che poche ore… !) una povera donna distrutta nella psiche, una che non sta curando con farmaci un male fisico, ma una che sta impasticcandosi con droghe e riempiendosi di alcol col risultato di aggravare il suo stato psicologico. In poche parole: una donna alienata che non vuole (più) vivere! In questo scenario la sua esternazione Gran Dio! …morir sì giovane suona come una stridente contraddizione.

 

E chi si agita attorno a lei? Persone innamorate, pentite e caritatevoli? Nemmeno per idea: tre persone che – letteralmente! – non vedono l’ora che lei tiri le cuoia! Alfredo, che sembra infastidito, proprio come fosse lì controvoglia e avesse altro di meglio da fare. Suo padre che le si avvicina quasi timoroso (proprio come si fa con i matti…) E il dottore, che resta lì impalato, quasi fosse impaziente di tornare al suo ambulatorio per fare visite più lucrose. Alla povera Annina non resta che cacciarli tutti perché quella disgraziatissima Violetta possa finalmente morire senza disturbatori attorno.


Orbene, e vengo al punto cruciale dell’intera questione: con una scena simile la musica di Verdi (ma anche il testo di Piave, infatti in parte cassato, cosa del resto non nuova) ci sta proprio come i cavoli a merenda. Meglio le si attaglierebbe magari la musica che fu composta (80 anni dopo!) per un altro capolavoro: Lulu…

E al resto dell’opera si possono tranquillamente estendere le considerazioni fatte riguardo al finale: Cerniakov – a differenza della sua Violetta - non è mica fuori di testa, e quindi tutto il suo spettacolo è coerente con la sua concezione, fin dall’inizio non fa che preparare adeguatamente quel finale.

Non altrimenti si spiega l’approccio letteralmente parodistico del regista alla scena dell’incontro di Violetta con Alfredo e a quella successiva di Violetta sola: nella prima Alfredo dovrebbe lanciare un seme (Di quell’amor…) che germoglia in Violetta nella seconda (A quell’amor…) Noi invece vediamo un Alfredo di credibilità zero e una Violetta che sembra farsi beffe dei suoi sentimenti.

E così la scena d’esordio del second’atto viene banalizzata in modo indisponente, a partire dall’ambiente: invece di un salotto dove gli oggetti principali dovrebbero essere dei libri e l’occorrente per scrivere (capita l’antifona, Cerniakov?) noi siamo in cucina, in mezzo ad ingredienti assortiti per pizze e minestroni. E con Alfredo che ci racconta della sua nuova vita al fianco di Violetta con parole e musica che esprimono rapimento e felicità celestiale, mentre lei si aggira proprio lì attorno, impegnata come lui in prosaiche faccende domestiche. Dico: una presa in giro!  

Poco dopo, solo una Violetta isterica (che è diverso dallo sconvolta e preoccupata) può aggredire letteralmente a pugni e spintoni un esterrefatto Alfredo cantandogli …perché tu m’ami, tu m’ami, Alfredo, non è vero?

Prima di trattare del secondo quadro, un’osservazione di passaggio sulla cervellotica idea di fare l’intervallo lungo fra le due parti del second’atto. Non parlo degli aspetti legati alla struttura stessa dell’opera, che prevede, canonicamente, un finale d’atto in crescendo, con il concertato conclusivo, ma semplicemente degli aspetti pratici, proprio terra-terra, della questione. Dunque, qui ci sono tre intervalli: questo, lungo ben 40 minuti, più altri due – pubblico inchiodato alle poltrone - di ben 8 minuti ciascuno, in corrispondenza della fine del primo e del secondo atto. Totale, 56 minuti. Adesso, anche un bambino che sa far le somme arriva a capire che, a parità di tempo totale, dividendo l’opera come si deve, si potevano fare due intervalli di 25 minuti fra gli atti, più uno di 6 minuti fra i due quadri del secondo. Cosa normalissima per chiunque ed ovunque, ma qui le cose normali evidentemente sono considerate delle stupidaggini.

Ecco, la festa in casa di Flora. Si potrà anche sorridere dell’idea di Verdi-Piave di aprirla con i due cortei di invitati mascherati da zingarelle e toreri, ma ci spiega Cerniakov perché la trasforma in una specie di goliardico de-profundis per il povero Alfredo? Che arriva una prima volta per ricevere le condoglianze da parte degli invitati, prima di uscire per poi subito rientrare al momento previsto dal libretto? Quello che, con un riso nevrastenico, fa volare per aria mazzi di banconote per pagare Violetta non è un individuo alterato che sfoga dolorosamente il suo rancore, ma un povero idiota, in preda ad una crisi di nervi.   

La finisco qui (ma ci sarebbe ancora assai da contestare): insomma, un’idea-portante dello spettacolo semplicemente bizzarra e cervellotica (per quanto realizzata con indubbia maestrìa) che – manco a dirlo – è del tutto inconsistente con la musica e le parole che si ascoltano.

Ecco, caro Lissner: questo è ciò che uno spettatore che cerca di riflettere – eh sì, non un talebano infiltratosi in loggione – deduce dall’osservazione del tuo prodotto. Giudizio: buh!