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09 giugno, 2023

laVerdi 22-23. 32

La chiusura della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano è affidata a Wayne Marshall per il podio e a Maurice Ravel per i contenuti del programma. Programma assai simile a quello che lo stesso Marshall presentò il 21 novembre 2014, con l’unica differenza costituita dal Bolero che oggi rimpiazza Daphnis.

Il pezzo di apertura è quindi Alborada del gracioso (generalmente tradotto come serenata mattutina del giullare, ma che forse sarebbe più corretto definire del gaudente…) quarto dei 5 Miroirs per pianoforte composti nel 1905 e trascritto per orchestra nel 1918.

Questa di Ravel è una Spagna immaginaria perché… immaginata (forse sulla base dei racconti della madre) ma non per questo meno suggestiva ed accattivante. Si tratta di un brano tripartito, nel quale con un minimo di immaginazione possiamo distinguere: a) una classica festa (Assez vif) che si protrae per buona parte della notte, con classiche sonorità spagnoleggianti, chitarra, castagnette e ritmo di seguidilla; b) seguita dal sonnacchioso risveglio (Plus lent) del gaudente che vi aveva danzato e cantato (cui dà voce il fagotto); c) e che ne rievoca quindi (Au mouvement) le spensierate atmosfere.  

La maestria di Ravel in fatto di orchestrazione rifulge qui più che mai, basti pensare alla suddivisione degli archi, per i quali nella sezione centrale del brano sono previste ben 24 parti (6-6-5-4-3)! Insomma, un breve (8-9’) ma straordinario affresco musicale, che serve perfettamente a ben predisporre l’ascoltatore per ciò che lo attende. E così è stato, grazie all’encomiabile prestazione dell’Orchestra e alla proverbiale verve del Direttore.

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Ecco quindi Kirill Gerstein, 43enne russo emigrato in USA e residente a Berlino (eh, la globalizzazione…) presentarsi per interpretare, uno dopo l’altro, i due concerti pianistici composti quasi contemporaneamente, a cavallo del 1930, quindi nell’ultimo periodo della produzione di Ravel.

Per la verità Ravel stava già lavorando al suo Concerto in SOL, un lavoro improntato ad ottimismo e serenità, con ampio spazio dedicato alla musica d’oltreoceano, con la quale era venuto in stretto contatto grazie alle tournée americane. Ma nel bel mezzo della composizione arrivò la commissione dello sfortunato quanto ricco pianista Paul Wittgenstein, tornato anni addietro dal fronte ukraino della Grande Guerra (e dalla conseguente prigionia in Siberia) con il solo braccio sinistro…

La decisione di imbarcarsi nell’avventura di comporre un pezzo per la sola mano sinistra (là dove avevano fatto cilecca Strauss, Prokofiev e Britten, tanto per far dei nomi illustri) deve averlo costretto per forza di cose a immaginare un soggetto assai diverso da quello sul quale stava lavorando. Un po’ come capitò a Beethoven che, componendo quasi contemporaneamente la sua 5a e la sua 6a (eseguite in prima nello stesso concerto del 22 dicembre 1808!) si vide praticamente obbligato a indirizzarsi su due contenuti contrastanti: uno drammatico e l’altro pastorale.

Per qualche plausibile ragione Gerstein ha affrontato per primo il lavoro che impegna… entrambe le mani, il Concerto in SOL. Come detto, il lavoro fa tesoro della lunga esperienza americana di Ravel, che aveva girato gli USA in lungo e in largo ed era quindi venuto a contatto diretto con la musica di laggiù (quantunque il jazz fosse già ampiamente di moda anche a Parigi) passando anche diverso tempo con Gershwin. E ascoltando il clarinetto piccolo esporre il motivo in FA# uno non può non pensare appunto a Gershwin e all’attacco della Rapsody in Blue.

Tutto il concerto (a parte l’Adagio) mostra chiare influenze jazzistiche, con ampio uso di ritmi sincopati; nell’iniziale Allegramente sentiamo anche del blues, mentre il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). Una vera perla il lungo, bellissimo intervento del corno inglese.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio, i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini. 

Pezzo davvero di grande effetto, che Gerstein interpreta splendidamente, ricavando dallo strumento sonorità liquide, come nei due movimenti esterni, o struggenti e crepuscolari, come nel bellissimo Adagio. Accoglienza calorosa e ripetute chiamate, con applausi speciali per Paola Scotti al corno inglese e per i fagotti di Andrea Magnani e Orsolya Juhasz.

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Ecco poi il Concerto in RE, quello amputato della mano destra che, come detto, fu pensato su un terreno drammatico e per molti versi innovativo. La cosa evidentemente si coniugava bene anche con la tragica vicenda umana del committente/dedicatario dell’opera, che in effetti richiama scenari più bellici che bucolici.

Dal punto di vista tecnico, Ravel ha cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una scrittura davvero innovativa che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti, cosa che per molti osservatori e interpreti ha quasi del miracoloso!

[I rapporti fra autore ed interprete non furono propriamente idilliaci e finirono nientemeno che con minacce di cause in tribunale: restano un esempio lampante dell’eterna diatriba relativa al rispetto che l’interprete deve alla lettera della composizione così come scritta sulla carta. Dato che Wittgenstein per un’esecuzione privata del Concerto a Vienna (presente Ravel) si era permesso interventi non marginali sulla partitura (modifiche non solo alla parte solistica, tagli e altre libertà) Ravel lo aveva subito apostrofato per lesa-autorità e gli aveva poi chiesto un impegno scritto al rispetto scrupoloso della partitura, pena la revoca della dedica del Concerto e l’intimazione a non eseguirlo mai più. Il pianista rispose con argomentazioni inoppugnabili, del tipo: ma allora, se anche per involontario errore sbagliassi una nota, dovrei per questo essere punito? Insomma, l’interprete rivendicava il diritto, per non dire il dovere, ad eseguire il brano secondo la propria sensibilità. Beh, fortunatamente il contenzioso andò via via depotenziandosi e alla fine i due si ritrovarono insieme, uno sul podio e l’altro alla tastiera, per la prima esecuzione a Parigi, il 17 gennaio del 1933.]

Il Concerto è in un solo movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni (chi dice due, altri più credibilmente tre) in agogica cangiante: la prima (Lento) ha un carattere grave e cupo, con quell’introduzione affidata quasi esclusivamente agli arpeggi dei contrabbassi che preparano la strada al controfagotto nel registro grave, che espone una lunga melopea puntata, per lasciare poi il posto ai corni. Questi espongono un nuovo motivo – siamo in RE minore – dal moto discendente e cedono poi strada ai clarinetti, quindi agli altri fiati e archi, infine ad un progressivo crescendo che sfocia in un accordo generale sulla dominante LA.      

Qui una prima (relativa) sorpresa, che pare avesse indispettito lo stesso Wittgenstein: il pianoforte si presenta da solo, direttamente con una lunga cadenza aperta da una poderosa introduzione e poi basata sul motivo puntato, il quale viene successivamente ripreso a piena orchestra e con splendenti sonorità (quasi da musical…) 

Nuovo intervento (Più lento) languido e sognante del pianoforte, che poi (Andante) dialoga con l’orchestra (in particolare con il corno inglese) sul primo tema fino a portare alla seconda sezione del concerto, in Allegro

Sezione dal piglio decisamente marziale, ostinato (chissà, forse ad evocare la vita del soldato al fronte). Peraltro vi troviamo elementi di chiara provenienza jazzistica, un lungo passaggio con interventi del solista e di strumenti diversi a proporre nuovi motivi di carattere più spensierato, ma anche una triste melopea del fagotto.

Dopo una grande accelerazione, dove si sentono quasi degli accenti del Bolero (scritto solo due anni prima) il tempo torna a calmarsi, e qui orchestra e solista dialogano accanitamente, in un’atmosfera davvero eroica, finchè si arriva (Tempo primo) alla virtuosistica cadenza conclusiva del pianoforte, che ricapitola i vari motivi del Concerto, e alla ripresa orchestrale che conduce in modo lussureggiante alla chiusa, che arriva su 5 battute di crome martellanti dell’intera orchestra.

Strepitosa anche qui la prestazione di Gerstein: da incorniciare le due splendide cadenze, dove davvero si ha l’impressione che le mani sulla tastiera siano addirittura più di due! Gran trionfo per lui, che ci ha già sommerso di suoni e comprensibilmente si astiene dai tradizionali encore.

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Ed eccoci al gran finale di stagione con l'assillante Bolero che fa l’ennesima comparsa in Auditorium. E come sempre il protagonista è il tamburino Ivan Fossati, che si prende sulle spalle l’onere di guidare, proprio in prima fila, i suoi musicanti in questa interminabile parata, dove a ciascun incrocio stradale nuovi bandisti si aggiungono al corteo, fino a diventare una massa enorme e a produrre un fracasso indescrivibile, degno di un ritrovo degli Alpini. Qualche curiosità sulla struttura di questo controverso oggetto è rintracciabile qui.

IIeri sera – a meno che io non stessi sognando o fossi ubriaco - abbiamo ascoltato un Bolero-Abarth! Escludendo che si sia trattato di iniziative spontanee dei ragazzi, devo pensare che sia stato il dissacratore (in senso buono!) Marshall a invitare le prime parti dei fiati, che espongono le melodie dei due temi, ad impreziosirle (per così dire) con personali abbellimenti. Il che ha sortito francamente effetti contrastanti (a volte si aveva la sensazione di… stonature o incespicamenti, ecco). Ma in fondo è un po’ come alla fine di un anno scolastico, dove agli studenti si concede un po’ di meritata libertà.

In ogni caso il trionfo non è mancato e non c’è bisogno di descrivere l’accoglienza delirante del pubblico.

Ora ci si comincia a preparare per la nuova stagione, che si aprirà, come sempre, alla Scala domenica 10 settembre e che – fra fine ottobre e metà novembre – accoglierà l’attesissimo Festival Mahler (Ottava compresa, in Duomo)!

10 dicembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 9

Fra la prima (TV) e la prima (in abbonamento) del Macbeth scaligero ecco infilarmisi il nono concerto stagionale de laVerdi, reduce da un ponte di due settimane.

É il redivivo Wayne Marshall (con qualche... libbra in più) ad occupare interamente la scena, nella duplice veste di direttore e solista all’organo. Programma classicamente articolato in: 1. Pezzo breve di introduzione; 2. Concerto solistico e 3. Sinfonia. Tutto in lingua (musicale) gallica.

Il primo brano in programma è Cortège et Litanie di Marcel Duprè. Ne esistono tre versioni:

1. Per pianoforte solo (1921, secondo dei Quatre pièces, con Étude, Chanson e Ballet);

2. Per organo solo (1923);

3. Per organo e orchestra (1925).

Qui un’esecuzione all’organo solo dello stesso autore. Sulla sua scia, Marshall ci propina la seconda delle tre versioni.

Le 142 battute sono strutturate su tre sezioni, sempre in 2/4, Très modéré:

a) Cortège, in MI maggiore, 36 battute;

b) Litanie, nella relativa DO# minore, 66 battute;

c) Cortège+Litanie, MI maggiore, 40 battute.

Quindi un brano con i due gruppi tematici (solenne il primo, Cortège; mosso e ostinato il secondo, Litanie) presentati dapprima separatamente e poi sovrapposti: una specie di forma-sonata tronca (esposizione e sviluppo).

Brano assolutamente diatonico ed orecchiabile, di carattere religioso e quindi assai appropriato per questo periodo di... Avvento (e di pandemia). Che il pubblico non oceanico (chissà, il programma inconsueto o i primi freddi e nebbioline di stagione calati su Milano?) accoglie comunque con calore. 
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Ecco poi Marshall tornare alla tastiera per il Concerto per organo, orchestra d'archi e timpani in Sol minore di Francis Poulenc. Lo aveva già eseguito e diretto qui nel 2013 e rimando quindi al mio post di allora per alcune note sulla composizione.
Come allora Marshall porta come personale valore aggiunto una lunga cadenza solistica all’attacco del Largo conclusivo e poi, per ricambiare gli applausi del pubblico, ci suona una sua impertinente BWV 565 con... appendice!
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La chiusura è riservata a Georges Bizet e alla sua deliziosa Sinfonia n. 1 in Do maggiore, udita qui ultimamente (2017) dalla bacchetta di Fournillier.

Propongo una storica esecuzione di un giovane (e un po’ anche... gigione) Georges Prêtre con la gloriosa Scarlatti di Napoli della RAI, introdotta da un altrettanto glorioso Roman Vlad, ai tempi in cui la musica classica occupava un posto di primo piano nei programmi radio-televisivi.

Marshall, che prima dell’intervallo aveva suonato indossando un camiciotto nero, si ripresenta vestendo un’improbabile giacca-smoking in vigogna color... mosto. Ma senza bacchetta. Ci regala comunque un Bizet pieno di verve e di freschezza schubertiana. Sugli scudi l’intera Orchestra, in cui ha spiccato l’oboe di Emiliano Greci, protagonista del mirabile Adagio, un’oasi contemplativa all’interno di questa festa della primavera e della joie de vivre.

27 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°5


Altro simpatico ritorno in Auditorium (ieri peraltro assai poco frequentato): è quello di Wayne Marshall (e poi dicono che a Malta non vogliono gente di colore...) che ci presenta un programma fluvial-marino snodantesi fra ‘800 e ‘900, ma sempre saldamente in acque territoriali tonali amiche.

Subito una considerazione che si applica a tutti e tre i brani in programma: Marshall ha tenuto tempi non stretti, ma strettissimi, trasformando i fiumi in rapide e mandando i mari in burrasca! Ma - dato che l’Orchestra non è... annegata - il risultato deve considerarsi più che accettabile.  
  
Si parte quindi con Vltava, il secondo dei sei poemi sinfonici che Smetana dedicò alla sua patria (ciclo Má vlast). La Moldava è in effetti il fiume simbolo della Boemia, che attraversa da sud-ovest a nord-est, sfociando nella più piccola Elbe poco sopra Praga. In poco più di 150 Km in linea d’aria (fra sorgente e foce) compie un percorso di ben 430 Km, il che rende bene l’idea della sua importanza per quei territori.

Seguiamo un’esecuzione patriottica della Filarmonica ceca diretta da Jiri Belohlavek: dopo che flauti e clarinetti (Allegro commodo non agitato, 6/8) hanno evocato le due sorgenti del fiume, ecco negli archi (1’31”) il famoso tema principale in MI minore (che viene dall’Italia e compare anche nell’inno nazionale d’Israele) che poi (3’15”) ci porta in DO e FA maggiore attraverso una caccia nei boschi, poi (4’13”, L’istesso tempo, ma moderato, 2/4, SOL maggiore) ad una festa di nozze di contadini; quindi, modulando a LAb maggiore (5’48”) ad una danza notturna di ninfe, in 4/4; dopo un passaggio in MI maggiore, a 8’26” ritorna in MI minore, 6/8, il tema principale del fiume, che poi (9’15”) si getta - con diverse modulazioni di tonalità - nei gorghi e nelle rapide di SanGiovanni; riecco (10’29”, Più moto) la Moldava nel poderoso procedere delle acque (ritorno del tema principale in MI maggiore) e poi si sale su fino a passare (10’57”) ai piedi del mitico castello di Vyšehrad, che riconosciamo musicalmente dalla comparsa del suo tema, protagonista dell’omonimo primo poema del ciclo, che ci accompagna... alla foce.

A proposito, non sarebbe male se laVerdi mettesse in cantiere l’esecuzione integrale del ciclo, che meriterebbe un concerto tutto per sè...

Encomiabile la prestazione di tutti, ma come non segnalare flauti e clarinetti per la magistrale esposizione delle sorgenti del fiume.
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Ecco poi Benjamin Britten, con i Four sea interludes dal Peter Grimes. La sequenza dei quattro brani non rispetta quella dell’opera (come si può dedurre dallo specchietto sottostante):


Nell’opera gli interludi sono in effetti sei, equamente distribuiti nelle sue tre parti (prologo incluso) e non sono titolati. Il primo serve come preludio - dopo il Prologo al tribunale - al primo atto, ed evoca un mattino grigio al borgo affacciato sul mare. La tonalità è (appropriatamente) LA minore, il tempo Lento e tranquillo. Il secondo evoca la tempesta che si abbatte sul borgo alla sera (Presto, con fuoco) ed è in MIb minore, con diverse modulazioni. Il terzo (Allegro spiritoso) è in LA maggiore ed apre il second’atto accompagnando la serena atmosfera del villaggio in un giorno di festa. Il quarto è una Passacaglia (Andante moderato) che precede l’arrivo di Grimes e del suo giovane aiutante verso la baita del marinaio, dove il ragazzo troverà la morte. Il quinto (Andante comodo e rubato) è in MIb maggiore, apre il terzo atto ed introduce la scena di una notturna festa danzante. Il sesto (Lento) fa da preludio alla conclusione dell’opera, riprendendo l’atmosfera del primo interludio.

Nella suite Britten ha invece impiegato quattro dei sei interludi (la Passacaglia l’ha isolata in un brano ad-hoc) disponendoli secondo un principio di opposizione luce-tenebre (o giorno-notte). Dapprima la coppia di brani diurni (LA minore e maggiore) e poi quella di brani notturni (MIb maggiore e minore). Significativo il fatto che le due tonalità (LA-MIb) siano separate da un inquietante tritono, figura musicale assai appropriata a rappresentare l’insanabile dissociazione fra la personalità ribelle e misantropa di Grimes e il perbenismo un po’ bigotto della società nella quale il protagonista vorrebbe integrarsi, essendone viceversa ripetutamente emarginato.

Marshall sta abbastanza... calmo per i primi tre brani, poi si scatena nell’ultimo, che non a caso evoca una tempesta, suscitando l’entusiasmo dei fedelissimi.
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Chiude il programma Die Seejungfrau di Alexander von Zemlinsky. La sua ispirazione alla novella di Andersen (La Sirenetta) è tanto dichiarata quanto labile, non avendo il compositore indicato precisi e dettagliati riferimenti sulla partitura (ne esistono però in appunti stesi durante la composizione). Antony Beaumont, che ha curato l’edizione critica della partitura (data per persa un secolo fa e poi fortunosamente ritrovata a pezzi qua e là e rimessa insieme) scrive nella prefazione all’edizione Universal che Zemlinsky avrebbe cominciato a comporre questa musica dopo la cocente delusione provata in seguito al fallimento della sua vicenda sentimentale con la giovane e bella Alma Schindlersua allieva che aveva stravisto per lui, sognando nientemeno che di dargli un figlio (!) ma che poi di punto in bianco lo piantò in asso per accasarsi con tale Gustav Mahler...  Mah, forse lui si sentiva come la sirenetta respinta dal principe (!?)    

A proposito di Principe, il grande Quirino, in un sapiente saggio pubblicato sul programma di sala (che mi permetto di riprodurre qui, sperando che nessuno chieda la mia testa per aver violato diritti) propone una plausibile associazione fra le note di Zemlinsky e il testo di Andersen.

L’opera, che reca l’attributo Fantasia in tre movimenti per orchestra da una novella di Andersen, è appunto tripartita (quasi fosse una sinfonia) e ci si sente tutta l’influenza della musica contemporanea (siamo a cavallo del secolo) a Zemlinsky, che in sostanza si rifà ad un nome ben preciso e conosciuto: Richard Wagner (cui ovviamente si accodano Strauss e Mahler) e più remotamente a Liszt e Berlioz.

Grazie al lavoro di Beaumont si possono oggi ascoltare due versioni dell’opera, che differiscono sostanzialmente nel secondo movimento: del quale era stata in un primo tempo ritrovata una versione riveduta dall’Autore, che ne aveva tagliato una parte (79 battute, 4-5 minuti di musica); parte scoperta successivamente fra le sue carte. Riccardo Chailly ha eseguito e inciso più volte la versione riveduta (qui con la Radio di Berlino); quella originale si può ascoltare in questa bella esecuzione finlandese di Storgårds (il taglio riaperto va da 22’45” a 27’15”).

A questo punto diviene spontanea la domanda: ma laVerdi quale versione ha suonato? Ebbene, ha suonato quella originale (con le 79 battute reintrodotte); ma, grazie ai tempi forsennati di Marshall, la durata ha eguagliato quella (ad esempio) di Chailly che invece taglia quelle battute.

Successo clamoroso e applausi ritmati: Marshall ringrazia facendo chiari cenni verso i ragazzi, come a dire: merito loro!

Sarà una pura combinazione, ma questa Seejungfrau è anche nel programma del prossimo concerto dell’OSN (su Radio3 sabato 3 novembre, 20:30).

21 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 10


Il flamboyant Wayne Marshall (uno dei tre Direttori Principali Ospiti) esordisce nella stagione con un bel pieno-di-RavelPieno e anche… piano, visti i due concerti offerti dal palinsesto e proposti da uno degli aficionados dell’Auditorium, Roberto Cominati.    

Anche il pezzo di apertura avrebbe in realtà a che fare con la tastiera: infatti è Alborada del gracioso (serenata mattutina del giullare) quarto dei 5 Specchi per pianoforte composti nel 1905. Noi però ascoltiamo la versione orchestrale che l’Autore produsse 13 anni più tardi. La maestria di Ravel in fatto di orchestrazione rifulge qui più che mai, basti pensare alla suddivisione degli archi, per i quali nella sezione centrale (Plus lent) del brano sono previste ben 24 parti (6-6-5-4-3)!

Questa di Ravel è una Spagna immaginaria perché… immaginata (forse dai racconti della madre) ma non per questo meno suggestiva ed accattivante. L’intera orchestra sembra impiegata come fosse un’unica, gigantesca chitarra, che accompagna danze sfrenate o languidi canti. Insomma, un breve ma straordinario affresco musicale, che l’orchestra ci porge nel migliore dei modi.
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Dal Ravel giovane passiamo direttamente a quello maturo, anzi ormai prossimo all’inesorabile decadenza, legata probabilmente all’incidente d’auto del 1932: sono i due concerti per pianoforte. Arriva quindi il… pilota di jet Cominati per cimentarsi dapprima con il Concerto in RE, quello amputato della mano destra, richiesto a Ravel dallo (e quindi dedicato allo) sfortunato quanto ricco pianista Paul Wittgenstein, tornato dal fronte ukraino della Grande Guerra (e dalla conseguente prigionia in Siberia) con il solo braccio sinistro…

Ravel ha cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una scrittura che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti! Il Concerto è in un solo movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni in agogica cangiante: dapprima c’è un rigido alternarsi fra strumenti e solista (introduzione in Lento degli strumenti gravi) poi il pianoforte solo con una prima cadenza, quindi ancora la sola orchestra e poi il solista in tempo Più lento. Ora abbiamo il dialogo (Andante) che sfocia nell’Allegro (6/8) di piglio marziale e sapore jazzistico, un lungo passaggio con interventi improvvisi del solista e di strumenti diversi. Dopo una grande accelerazione, dove si sentono quasi degli accenti del Bolero, torna il tempo lento iniziale, orchestra e solista dialogano accanitamente, finchè si arriva alla virtuosistica cadenza conclusiva, chiusa infine da 5 battute di crome martellanti dell’intera orchestra.

Possiamo ascoltare il dedicatario in brani (fra cui la cadenza) del concerto in questa esecuzione a Parigi, 1933.

Cominati ha fatto del suo meglio per farci digerire questo pezzo che è francamente ostico, oltre che per l’interprete, anche per l’ascoltatore: non è un caso che fra autore e dedicatario fossero insorte, ai tempi, divergenze e persino liti sui contenuti estetici dell’opera.
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Ancora Cominati nel celebre Concerto in SOL, da lui già eseguito e con grande successo qui in Auditorium più di 3 anni fa. Questo lavoro è praticamente contemporaneo dell’altro, ma ha una struttura assai più tradizionale, quindi più abbordabile, oltre a risentire ancor più dell’influsso americano (Ravel aveva viaggiato in USA) e così jazz e blues vi hanno una parte fondamentale (evidentissima già all’attacco del tema del clarinetto, che pare proprio Gershwin!)

Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). In esso compare, fra gli altri e verso la fine, un bellissimo intervento del corno inglese, ieri suonato dalla bravissima Paola Scotti.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini.

Cominati non si smentisce e ci offre ancora un’interpretazione davvero trascinante, accolta con grande calore.
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Tornando indietro negli anni (nella vita di Ravel, s’intende) ecco per finire la seconda suite di Daphnis&Chloé, che include tre brani (Alba, Pantomima e Danza generale) della seconda parte del balletto e dura poco più di 15 minuti, circa un quarto dell’intero balletto. La partitura prevederebbe anche la presenza del coro, che qui (come quasi sempre) non viene scomodato, anche perchè Ravel stesso ha pensato a come rimpiazzarlo con parti dell'orchestra.

All’apertura, flauti e poi clarinetti sono impegnati in incredibili virtuosismi (biscrome ondeggianti) sui quali ottavino e flauto paiono uccellini che cinguettano al sorgere del sole, sottolineato dall’esplosione di tutta l’orchestra, mentre Daphnis ancora dorme. Arriva poi a svegliarla il pastore con il suo gregge (accompagnato dal clarinetto). Quindi la Pantomime inizia con il flauto che suona il richiamo di Daphnis, fino al'abbraccio fra i due innamorati e al giuramento, che apre la travolgente Danza generale, in LA, dove si alternano il tempo zoppo di 5/4 (3+2) e quello ternario, fino alla conclusiva apoteosi in 2/4.


Marshall e soprattutto i ragazzi non si sono risparmiati,  meritandosi così l’applauso del loro pubblico, che peraltro non era proprio oceanico: chissà, forse parecchi frequentatori abituali dell’Auditorium hanno storto il naso di fronte ad un menu troppo a senso unico, un po’ come una cena a base di solo… camembert (smile!)

18 marzo, 2014

L’Orchestraverdi ancora alla Scala contro i tumori

 

Ieri sera laVerdi è stata ospite del Piermarini per un concerto a sostegno delle benemerite attività della LILT.

Il programma ricalcava in parte quello dell’ultimo concerto della stagione dell’Orchestra, ed anche i protagonisti erano gli stessi: Wayne Marshall ed Emanuele Arciuli. La prima parte della serata era infatti occupata dal Concerto di Grieg. Le tre repliche all’Auditorium dei giorni immediatamente precedenti devono aver fatto bene a tutti, così ieri abbiamo assistito ad una performance di alto livello, sia dal lato solistico (ma qui Arciuli aveva poco da migliorare…) che da quello del ripieno orchestrale. Che mi è parso assai più equilibrato, quanto meno rispetto alla prima di giovedì scorso in Largo Mahler.

A meno che la differenza non l’abbia fatta l’enorme spazio del teatro, che tende ad ovattare i suoni, rispetto all’acustica fortemente amplificatrice dell’Auditorium. Fatto sta che mi è parso di udire un Grieg più nordico e… algido di quello di giovedi scorso. E chissà che quest’atmosfera più fredda non abbia contagiato anche il pubblico, che dopo il primo ritorno sul palco dei due protagonisti si è subito azzittito, al che Luca Santaniello non ha potuto far altro che alzarsi e salutare, privandoci di un possibile bis.  
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Marshall ha poi proposto il suo amato Gershwin, ad iniziare dalla simpatica Ouverture da Of Thee I SingSono meno di 5 minuti di musica allegra e scanzonata, proprio come irridente è l’intero musical (del 1931) che satireggia il modo yankee di far politica, ma con una morale positiva (l’amore trionfa su ogni altro interesse e lobby). 
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Ha chiuso degnamente la serata An American in Paris. Riporto qui alcune note di presentazione, scritte quasi 3 anni orsono, allorquando fu Zhang Xian ad eseguirlo in Auditorium.
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Scritto nel 1928 dopo un viaggio nella capitale francese, questo balletto rapsodico subito si presenta con baldanza mista a spensieratezza:

È il turista che se ne va a spasso per la città, col naso all’insù e le orecchie tese. Parigi è una città dal traffico già caotico, e non mancano quindi automobili e taxi che strombazzano allegramente. In mezzo al trambusto arrivano anche le note di una filastrocca (Che cosa importa a me, se non son bella) forse nota altrettanto bene in Italia che a Parigi:
Ora, stanco per la lunga camminata, l’americano si riposa un poco e inevitabilmente sogna il suo paese, e il blues in primo luogo:


(Si noti la prescrizione di coprire la campana della trombetta con una guaina di feltro.?

Questo è il motivo che rimane poi al centro del brano, e che pure lo concluderà. Accanto ad esso però arriva anche un ricordo allegro, il charleston della Louisiana:

Un’ultima veloce scorribanda per le strade della Ville lumière culmina nel Grandioso dove corno inglese, clarinetti e sax contralto ribadiscono per l’ultima volta il tema americano, prima del poderoso accordo di FA maggiore che chiude il brano.
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Alla fine il pubblico si era evidentemente riscaldato e ha quasi preteso il bis: che è arrivato ed è stato poi ancora… bissato, protagonisti la tromba di Caruana e soprattutto il clarinetto di Ghiazza. Un bel regalo per uno come me che ha un quadrupede da custodire… Qui lo ascoltiamo dai PROMS e così scopriamo anche da dove è uscito fuori il nostro attuale PM (mega-smile!)

14 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°25

 

Riecco il simpatico Wayne Marshall sul podio dell’Auditorium per dirigervi un interessante programma (attenzione: interessante non significa automaticamente di alto livello…)       

Che si apre con una composizione giovanile di Richard Strauss: la Bläserserenade op.7 (per strumenti a fiato). Così la definì onestamente l’Autore nel 1909, 28 anni dopo averla composta: Null’altro se non il decoroso lavoro di uno studente di Conservatorio.  

Ma il sommo Quirino Principe non la pensa così. Ecco come analizza questo lavoro (da: Strauss – La musica nello specchio dell’eros):

Il piccolo prodigio venne alla luce 1'11 novembre 1881, quando Richard finì di comporre la Serenade in mi bemolle maggiore op. 7 (TFV 106) per 13 strumenti a fiato: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in si bemolle, 4 corni (di cui il primo e il secondo in mi bemolle, il terzo e il quarto in si bemolle), 2 fagotti, controfagotto (o basso tuba). I corni in si bemolle sono bassi. In alternativa al controfagotto o al basso tuba, la partitura reca l'indicazione: Contrabaß . Per la prima volta, egli si cimentava in una composizione per insieme di fiati (legni e ottoni), e anche per questo l'autunno 1881 segna un momento inventivo di assoluta novità, anzi, apre un nuovo solco: in tutta la sua vita, Strauss ideò soltanto quattro lavori con un simile organico (altra cosa sono le cinque composizioni per ottoni e timpani), e, con ammirevole simmetria, due quasi al principio (1881 e 1884) e due quasi alla fine (1943 e 1944-1945). Che egli fosse stato preso da un imprevedibile interesse per il "guter Klang" di un insieme di fiati è testimoniato anche da una sua fatica inversa sotto l'aspetto tecnico, quasi contemporanea alla Serenade: la riduzione per pianoforte a 4 mani del Nonetto in fa maggiore di Franz Lachner (AV 183, TFV 108).
Non c'è dubbio: in senso strettamente tecnico, quella è la direzione che orienta lo sguardo del giovane compositore. È un suono nitidamente disegnato in lavori di buona fattura, alcuni autentici capolavori purché dotati di libertà visionaria. In quell'ambito esistono sicuri punti di riferimento, a Richard certo non ignoti: da prodotti abili e di modesta inventiva, come lo stesso Nonetto di Lachner o l'analogo Nonetto op. 139 di Rheinberger, a esiti più vibranti come la Serenata op. 44 di Dvorak, su su fino a un miracolo solare qual è la Serenata in re maggiore op. 11 di Brahms, nota agli ascoltatori tedeschi fin dal 1859. In particolare, il primo Minuetto della composizione brahmsiana si configura come una delle possibili premesse del nuovo suono straussiano e dell'invenzione tematica in tutta la sua leggiadra vitalità.
Il nuovo suono si presenta levigato, spoglio di eloquenza: nessun grande gesto. Servendoci del modello brahmsiano per vedere controluce le divergenze insieme con le affinità, leggiamo nella partitura della Serenade un primo segreto di fabbricazione della musica straussiana: l'assenza assoluta della cosiddetta "melodia popolare" o del cosiddetto stilema armonico popolare o di tutto ciò che popolare non è ma che abilmente, come spesso accade in Brahms, è tagliato nella sua morfologia come se lo fosse. La Serenade è bitematica, in un tempo solo (Andante) articolato in sezioni con sfumature di movimento che attenuano ogni contrasto: esposizione del primo tema (btt. 1-24), breve ponte modulante (btt. 25-30, dalla lettera A), secondo tema (più animato, btt. 31-60), una parte centrale che drammatizza elementi del secondo tema (btt. 61-118) e in cui un'ulteriore drammatizzazione comprende le battute 89-111 (dal più animato al Tempo I, in cui si ritorna alla serenità iniziale), e infine la ripresa (btt. 119-162) e la coda (btt, 163-173).
La prima esposizione è costruita quasi sul nulla, e arricchita da esigue differenze nell'uso e nella ricomparsa delle idee. Questo secondo carattere s'impone anche all'esposizione del secondo tema, che è invece plastica e di forte rilievo: anche in essa il discorso procede e si dialettizza secondo varianti minime. Una melodia discendente parte dalla mediante e si sofferma sulla dominante alla fine del primo inciso. La risposta è ascendente-discendente, e conclude la prima semifrase (primo quarto della bt. 4) con una triade di tonica nel secondo rivolto. Stranamente, questo accordo che dovrebbe rendere un senso di conclusiva stabilità è singolarmente teso ed elusivo, poiché in suo luogo ci saremmo aspettati un'anticipazione o un ritardo armonico. La seconda semifrase ha l'antecedente e il conseguente entrambi modellati sulla risposta della prima semifrase, cioè su una linea ascendente-discendente, ma con intervalli meno ampi, come a smussare le curve. Ne risulta una significativa relazione tra la prima e la seconda semifrase: nella prima, il rapporto di opposizione lineare tra antecedente e conseguente corrisponde, nella seconda, a un rapporto di attenuazione della stessa linearità.

La seconda frase mostra come sia possibile agire con forza su un delicato organismo mediante varianti che scalfiscono appena il rilievo. Il lieve mutare della linea melodica è bilanciato dall' alternarsi degli strumenti. Se in principio il primo tema era affidato al primo dei due oboi, nella battuta 9 esso è reintrodotto dal primo flauto, che gli dà una sostanza eterea, candida e sfumata, in luogo del disegno incisivo tracciato prima dall'oboe. Lo schema della melodia discendente è immutato: dalla mediante SOL alla dominante inferiore SI bemolle. La lieve variante si presenta in due sottovarianti nella
prima semifrase. Nell'antecedente, il ritmo puntato dell'incipit è sostituito da una serie di note di passaggio con lo sdoppiamento, nella battuta 9, del secondo ottavo in due sedicesimi. L'aggraziata, apollinea solennità delle battute 1-4 si trasforma in una semplicissima cantilena infantile. Nel conseguente della prima semifrase, un lievissimo
tocco di pollice, un'impercettibile deformazione plastica nella creta, e lo spirito muta stato d'animo: la scaletta discendente è immutata nella linea, ma le prime tre note diventano altrettanti sedicesimi preceduti da una pausa di uguale valore. Basta quella pausa iniziale a dare slancio e fervore, come se si volesse meditare per un attimo prima di abbandonarsi alla musica.

Subito dopo, sull'onda di una piccola fanfara di corni e fagotti, lo slancio e il fervore conducono all'impercettibile ascesa cromatica delle battute 13-14, con la sostituzione enarmonica del DO diesis al RE bemolle, e all'incantevole appoggiatura sull'accordo di settima di dominante nella battuta 15. Qui davvero l'apollineo si concede a chi lo sfiora senza sforzo, come il ramo d'oro del mito si staccava dalla pianta a chi lo toccava dolcemente senza strapparlo. La grazia mendelssohniana del ponte modulante prepara il terreno alla comparsa del secondo tema, della cui felicità siamo grati al giovane autore.
Tocca al primo clarinetto introdurlo, prima con deliziosa esitazione, quasi a piccoli passi interrotti da pause di un sedicesimo, poi con il supremo incanto con cui la prima scaletta discendente, invece di concludersi, come sarebbe da credere, sulla tonica SI bemolle (il secondo tema, in ossequio alle regole, è in tonalità di dominante rispetto al primo), è seguita da un'altra scaletta che ne è quasi l'ombra, collocata più in alto a intervallo di quinta.
Franz Dubitzky ricorda che Friedrich Wilhelm Meyer, cui la Serenade fu rispettosamente dedicata, non gradì il modo con cui l'allievo disegnò l'intero contorno del secondo tema, poiché nelle battute 35-36 esso gli parve una reminiscenza dello Spinnlied delle fanciulle filatrici nel II atto del Fliegender Holländer wagneriano ". Un pedante, Meyer, ma quale occhio!
La Bläserserenade op. 7 apre al linguaggio musicale di Strauss una porta verso il grande spazio dei suoni, e sviluppa in misura decisiva la sua conquista dei timbri strumentali.
Il Festmarsch op. 1 era la prima composizione di un ragazzo già in grado di concepire una scrittura orchestrale. Cinque anni dopo, l'aurea partitura per tredici fiati non è ancora la piena rivelazione dello stile che legherà al nome del suo autore connotazioni inconfondibili, identificandosi con lui, ma testimonia, per la prima volta, che per scoprire quello stile e farlo suo egli possiede ormai tutti i mezzi.

Forse Principe esagera un filino nei peana per questa composizione del 17enne bavarese, tuttavia i 13 fiati de laVerdi sono bravi a farcene apprezzare le qualità… promettenti. Piuttosto, come accaduto tempo fa al pacchetto degli archi (in altra Serenata, quella di Ciajkovski) avrebbero anche potuto essere esentati dalla presenza del Direttore (smile!)
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Emanuele Arciuli arriva poi per presentarci il celebre Concerto di Edvard Grieg. Lui e Marshall hanno già fatto coppia qui quasi esattamente due anni orsono (allora per un grande affresco… ansioso).

In questo lavoro Grieg si rifà scopertamente a Schumann (stessa tonalità, analogo incipit) e anticipa di quasi 20 anni, sempre nell’apertura, un altro concerto in LA minore, il doppio di Brahms. Poi naturalmente ci mette molto di suo, compresa qualche atmosfera dei suoi fiordi.

Se Arciuli pare non voler calcare la mano (smile!) il vulcanico Marshall sottolinea in modo quasi esagerato tutti i chiaroscuri, sia di suono che di tempo, dando al concerto un’impronta… Liszt-iana.

Grande successo per i due e per Arciuli in particolare, che ripropone il bis del suo amato Debussy. Ritroveremo tutti i protagonisti di ieri fra un paio di giorni, alla Scala, impegnati in opere di bene.
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La serata è chiusa dall’esecuzione della Seconda sinfonia di Franz Schmidt, violoncellista prima ancora che compositore vissuto a Vienna dalla fine dell’800 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Dico francamente che lo scarso interesse che suscita questa sua opera (come le altre, del resto) mi pare proprio meritato: comporre nel 1911-13 una sinfonia scimmiottando modelli ormai superati (Bruckner, Brahms) mentre il suo vecchio – e non propriamente amato - Direttore alla Hofoper aveva appena composto, prima di andarsene da questa valle di lacrime, cosucce come Das Lied von der Erde, la nona e la decima sinfonia, ha davvero del velleitario e dell’anacronistico.

A proposito di Mahler, ecco come il grande boemo giudicò un’opera di Schmidt (Notre-Dame de Paris) che il violoncellista-compositore gli sottomise nel 1904 sperando di farla rappresentare alla Hofoper: Molto bella! Ma mi spiace dire che nella sua partitura mancano le grandi idee. Appunto…

Non stupisce quindi che Schmidt, da conservatore, si trasformasse in reazionario, plaudendo al nazismo e all’Anschluss, fino al punto da comporre Deutsche Auferstehung, la resurrezione tedesca, proprio all’indomani dell’annessione (di quella che peraltro era una sua patria putativa, essendo lui slovacco-magiaro di origine). 
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La sinfonia è formalmente in tre tempi, ma in pratica è in quattro, dato che il secondo movimento (un tema con 10 variazioni, che occupa più di un terzo dell’intera durata) si suddivide chiaramente in due: tema + 8 variazioni e Scherzo con Trio costituito dalle ultime due.

Il primo movimento (Lebhaft) è in forma-sonata con alcuna licenza (parafraso Ciajkovski…) Vi si possono distinguere le classiche componenti strutturali: esposizione di due temi (più transizione) sviluppo, ripresa e coda.

Le libertà che si prende Schmidt riguardano più che altro l’impianto tonale: primo tema in MIb maggiore, secondo (!) in SI maggiore; ripresa del primo tema (!) in SOL e SI maggiore. Per il resto, una buona dose di modulazioni, soprattutto nello sviluppo, e il rispetto delle regole nella ripresa del 2° tema, portato in MIb maggiore.  

In apertura, senza introduzione, viene esposto il primo tema, assai vivace e di carattere pastorale:


Il tema si sviluppa a piena (fin troppo!) orchestra, con soggetti secondari assai enfatici, poi il ritmo di tranquillizza, vira al minore lasciando spazio ad una transizione (pare l’Incantesimo del fuoco wagneriano…) che modula verso il SI maggiore in cui il pacchetto di 6 corni (degli 8) espone il secondo tema, più cantabile:


Anch’esso poi si anima per l’intervento di tutta l’orchestra (si odono qui atmosfere straussiane) e quindi sfuma lentamente perdendosi in lontani rintocchi dei timpani, col che si chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è canonicamente introdotto dal primo tema, in MIb, dopodiché si assiste a sue diverse modulazioni (SOL maggiore, DO minore, LAb maggiore); il secondo tema compare contrappuntando il primo sul LAb maggiore, poi modula a SI maggiore, da cui scende ancora al LAb, anzi alla sua relativa FA minore. Ci avviamo alla conclusione dello sviluppo, con una teatrale serie di pesanti accordi di corni e trombe, intercalati da sussulti di archi e legni, che sfociano in un RE maggiore, assai tranquillo, che chiude con fiati, timpani, piatti e tamtam, in pianissimo.  

La ripresa ripropone il primo tema in SOL maggiore alternato a DO e SI maggiore, la tonalità del secondo tema che viene poi esposto nel canonico MIb maggiore, sul cui sfumare dei timpani (come nell’esposizione) si passa alla conclusiva coda, che si costituisce come un nuovo mini-sviluppo dei due temi, e che chiude nella tonalità d’impianto dopo una serie di altre modulazioni.

Il secondo movimento è un Allegretto con variazioni, il cui tema in SIb, assai delicato ma anche piuttosto lezioso, è esposto da tutti e soli i legni:


Gli archi soli (contrabbassi esclusi) sono protagonisti della prima variazione, che si mantiene sul piano elegiaco del tema, esposto dai primi violini, semplicemente muovendolo con le semicrome dell’accompagnamento degli altri archi. La seconda variazione è ancora appannaggio dei soli fiati, i legni cui si aggiunge il primo corno: l’atmosfera bucolica non cambia.

La terza variazione, ancora esposta dai soli archi, imprime invece un nuovo ritmo, a partire dal tempo che, da ternario, diviene binario (2/4) oltre che dalla puntatura delle note. Una tecnica che pare mutuata dal Brahms delle variazioni op. 56. Dopo una lunga pausa ecco la quarta variazione, ancor più spedita nel tempo (Schnell, 4/4 alla breve) che comincia ad impegnare diverse sezioni dell’orchestra: mentre gli strumentini e i corni espongono il tema con note di lunghezza dilatata (semibrevi e minime) fagotti e violoncelli lo contrappuntano con svolazzi di semicrome, e i timpani e gli archi scandiscono un ritmo marziale. Si chiude con le veloci semicrome di archi, fagotti e clarinetto.

Nella quinta variazione il tempo si velocizza ulteriormente (Sehr schnell, 3/8) e muta anche la tonalità (REb maggiore, SIb minore): sono ancora i legni –divisi in due gruppi che si alternano (flauti-coboi-cornoinglese e clarinetti-clarinettobasso e fagotti - ad esporre la melodia, mentre gli archi l’accompagnano con un tappeto di tremolo, spalleggiati da timpani e piatti. La sesta variazione vede il tempo degradare ulteriormente (Langsam und ruhig) mentre la tonalità resta fra SIb e REb: un’oasi dall’atmosfera intimista ed elegiaca, cui segue la settima variazione, nuovamente veloce (Sehr schnell, 6/8, MIb minore-maggiore) e caratterizzata da una poliritmia ottenuta dalle crome (6 per battuta) dei fiati (ancora divisi in due gruppi) e le semicrome (8 per battuta) degli archi, pure divisi in due gruppi che spalleggiano il botta-e-risposta dei fiati.

L’ottava variazione è in agogica dolente (Sehr leidenschaftl, nicht zu schnell, 3/4). La tonalità di base è FA# maggiore, con una divagazione a LA. Qui l’atmosfera, dal sapore vagamente boemo, che ricorda Dvorak e Smetana, richiama forse le terre di origine del compositore.

Come detto, le ultime due variazioni si configurano come uno Scherzo con Trio. La nona, piuttosto vivace (Sehr lebhaft, 3/4) apre con 8 battute introduttive, di archi e legni (questi in corale) prima che gli archi attacchino il tema, subito inseguiti dal resto dell’orchestra. La tonalità prevalente è SIb, con digressioni al FA. Il ritmo è assai pesante e  marcato, spesso addirittura sgradevole, con eruzioni di corni, trombe e timpani piuttosto sgraziate. La decima variazione rappresenta il Trio, più lento (Sehr ruhig) prevalentemente in DO#, tempo 9/8, caratterizzato da un eccesso di strumentazione che non gli giova. Ci troviamo un po’ di Bruckner ed anche di Mahler, ma poca ispirazione. Lo Scherzo riprende (variazione 9) per concludere il movimento con una coda tanto affannosa quanto musicalmente modesta. 
  
Il Finale è un Adagio (Langsam, con qualche increspatura) che forse cerca di scimmiottare quelli di Mahler o di Bruckner: la buona volontà di sicuro c’è, ma i risultati sono assai meno… convincenti, ecco.

Anche qui c’è una prima sezione – a canone - suonata esclusivamente dai fiati, che poi cedono brevemente il posto agli archi, prima di riprendere il controllo esclusivo ed ancora lasciare poco spazio agli strumenti a corda. Poi ecco finalmente l’intera orchestra portare avanti il discorso fino alla fine, fra vaghe reminiscenze di Ciajkovski e Dvorak, e con qualche sussulto a turbare l’andamento pacato del brano.
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Che dire? Vorrei, non posso? L’orchestrazione è mediamente di una notevole pesantezza: è raro che i temi emergano chiaramente e pulitamente da un marasma sonoro dove troppi strumenti suonano note di puro riempitivo, che finiscono per disorientare l’ascoltatore e tradiscono verosimilmente una notevole carenza di narrativa. Insomma, un pezzo che al massimo può suscitare curiosità, più che ammirazione. 

Ma che non dev’essere per nulla facile da suonare, per cui i ragazzi (e Marshall con loro) si meritano comunque una lode, e si sono meritati l’applauso del loro affezionato - anche se non proprio oceanico - pubblico.