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31 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 19


Riecco Jader Bignamini con laVERDI in un programma davvero corposo ed interessante, dove Strauss racchiude Hindemith e Goldmark.

Apre la serata Till Eulenspiegel (I tiri burloni di…) dove Strauss fa un regalino al padre (famoso cornista) scrivendo quel tremendo passaggio che l’interprete deve suonare a freddo (battuta 7) e che prevede, dopo tre scalate apparentemente facili, un precipitare sulla triade di FA di quasi tre ottave, dal RE acuto al FA grave:
Oltretutto la prima volta va suonato piano, il che non aiuta, mentre subito dopo, in mezzo-forte sfociante a fortissimo, già lo strumentista può rinfrancarsi assai.

Come in tutta la musica a programma, la pertinenza dei suoni con il programma è lasciata alla nostra capacità di giudizio, o alle nostre reazioni di fronte ai suoni, una volta che ci sia stato chiaramente spiegato da chi, cosa o quant’altro siano stati, quei suoni, ispirati al musicista.

Che l’assolo del corno, come quello più avanti del clarinetto in RE, ci sbozzino la personalità del burlone Till è concetto che arriviamo a condividere soltanto dopo che siamo stati informati dell’identità del citato burlone. Mai e poi mai – ignorando tale identità – avremmo potuto sbottare, ascoltando di primo acchito quei temi: ma certo, come no! è quel mattoide di Till, lo si riconosce da lontano!

Insomma, sulla natura della musica aveva mille ragioni il tanto vituperato Eduard Hanslick, e se la musica a programma ci può piacere è solo - ed esclusivamente – perché è grande musica di per se stessa, alla faccia del programma!

Sarà che non lo suonano spesso, ma mi è parso che i ragazzi avessero qualche problema di affiatamento, che peraltro non ci ha impedito di ascoltare un Till più che dignitoso, anche se non eccezionale. Bignamini da parte sua ha mostrato ancora una volta le sue doti e la sua personalità, fin dal vibrante attacco del corno (Allmählich lebhafter) che ha velocità tripla rispetto all’introduzione (Gemächlich) mentre troppo spesso viene eseguito (per far un favore al cornista…) con eccessiva sostenutezza. Tutto sommato una prova ben accolta dal pubblico (anche ieri sera non oceanico).
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Ecco poi il virtuoso di casa Radovan Vlatkovic interpretare il Concerto per corno di Paul Hindemith. Ne fu dedicatario Dennis Brain, che ne eseguì la prima giovedi 8 giugno 1950 a Baden-Baden con Hindemith sul podio della Südwestfunkorchester. Ecco qui i due in una successiva registrazione con la Philharmonia.

L’orchestra, assai leggera, presenta archi, legni (1-2-2-2, mentre il corno solista è l’unico degli ottoni) e timpani. La struttura del concerto è nei classici tre movimenti, ma assai sbilanciata sul fronte delle durate, con i primi due che insieme occupano circa 6’ (73+138 battute) e il terzo che da solo supera i 9’ (274 battute). In omaggio alla sua seconda patria americana, le indicazioni agogiche sono presentate da Hindemith in inglese e, a fianco, in tedesco.
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Seguiamo l’esecuzione ascoltando Hindemith e Brain. Il Moderately fast iniziale presenta un tema principale, esposto dall’orchestra e poi dal solista, tema che la fa da padrone, e un secondo motivo esposto dal solista. È l’orchestra ad aprire il movimento (4”) con l’esposizione del tema principale, caratterizzato da diversi salti di tempo e costituito da tre sezioni di cui le prime due insieme coprono il totale cromatico dei 12 suoni. Qui la parte dei violini, che il flauto doppia per la prima sezione:

Siamo quindi in presenza di un classico esempio di quella dodecafonia tonale che Hindemith teorizzò e praticò in opposizione alla dodecafonia atonale di Schönberg.

(19”) Il tema viene ripetuto a uguali altezze da violoncelli e fagotti, che però alla quinta battuta lo variano senza chiuderlo, mentre flauto e clarinetti (28”) entrano sul tema in contrappunto, ma partendo dal DO#. (41”) Ora violini e flauto riespongono la sola sezione iniziale del tema, ripetendola per tre volte in 5 battute di 5/4 ma traslando, rispetto all’inizio, la scansione di una semiminima in ritardo e l’altezza di un semitono in alto (si parte da FA#).

(54”) Adesso (battuta 21) entra il corno solista, che espone, tornando al FA e con scansione più regolare (4/4 in prevalenza) il tema ampliato e leggermente variato: la seconda sezione presenta due inversioni di note della serie e viene ripetuta altre due volte. La chiusa (SIb - SOLb - FA) è enarmonicamente identica a quella dell’esposizione orchestrale:
(1’15”) Ancora sul FA archi e flauto espongono la sola sezione iniziale del tema. Il corno (1’18”) ne riprende il frammento finale (4 note) reiterandolo variato, prima di esporre (1’37”) un secondo motivo più mosso, che parte dal SOL#:
(1’50”) Archi e flauto tornano ancora sul tema principale (prima sezione) questa volta dal SOL#; i violini espongono la seconda sezione, che il corno contrappunta e poi sviluppa ulteriormente per tornare (2’14”) ad esporre il tema, canonicamente dal FA, ma variandolo ulteriormente.

(2’41”) Riecco nel corno il secondo tema, questa volta dal FA# e variato, fino a condurre (2’52”) alla cadenza finale, basata sul primo tema e chiusa (3’09”) da un inciso esposto in forte dal solista e poi in fortissimo dall’orchestra, seguito da una mesta fanfara sul FA grave del corno.

Abbiamo ora il tempo centrale, Very fast, che è in forma di Rondo con struttura A-B-A-B-A-C-C’-A-A’ e una Coda conclusiva. È di norma il corno a prendere l’iniziativa, mentre l’orchestra risponde con gli strumenti acuti (ottavino e violini).

(3’24”) Il corno espone il ritornello A (che parte e chiude sul FA) con timpani e celli ad accompagnarlo in contrattempo:
Il ritornello (3’33”) è ripreso, semplicemente arricchito nell’armonia, dall’orchestra, poi (3’41”) il corno espone il primo episodio (B), avente sempre il FA come nota di riferimento:
L’ultimo FA diviene anche il primo della ripresentazione del ritornello (3’51”) sempre nel corno, ma con traslazione di una semiminima (timpani e celli sui tempi forti della battuta, corno in contrattempo).

(4’00”) L’orchestra imita il solista riproponendo il motivo B seguito (4’08”) dal ritornello in contrattempo. Rientra ora il corno (4’17”)  che espone il motivo C, assai mosso, stavolta centrato sul SOL:

(4’27”) Il motivo C viene ripreso ed arricchito (C’) dall’orchestra con il solista ad accompagnare con sporadici interventi di semicrome. (4’33”) Riecco il corno con il ritornello, sempre dal FA, ora in tempo giusto, compreso l’accompagnamento dei fagotti, mentre i violini si sbizzarriscono con volate di semicrome. Il ritornello è proseguito (4’42”) dall’orchestra (A’) mentre il corno accompagna con un motivo diatonico e poi dialoga con l’oboe fino all’arrivo (4’58”) della Coda, che ha la inizialmente la forma del ritornello A. Poi tutto si stempera fino ad un esilarante sussulto (5’07”) del corno, prima della chiusura sul FA.

Il terzo movimento è, come detto, il più robusto ed articolato dei tre: si suddivide in sei sezioni, caratterizzate da motivi e tempi diversi.

(5’21”) Il corno, con discreto accompagnamento, attacca in tempo Very slow esponendo un tema costituito da due sezioni, di cui la seconda formata dalla ripetizione anche variata di un breve motivo:
L’orchestra riprende negli archi (5’59”) con agitatissime biscrome dei fiati, l’elemento (a) e subito il corno (6’13”) espone un nuovo motivo (c) accompagnato dai soli archi con incisi nervosi:

Ora il tempo muta (6’56”) in Moderately fast, una vasta sezione caratterizzata dall’esposizione di nuovi motivi, magari imparentati perché ottenuti attraverso trasformazioni:
Corno e oboe ci giocano, poi (7’53”) è il flauto a presentare un nuovo motivo, sul quale subito risponde il corno:

(8’06”) È ancora il corno a dare inizio alla parte finale della sezione, esponendo un nuovo motivo (d) la cui conclusione:
è ripresa dai clarinetti che poi si aggiungono al corno per la chiusura.

Inizia ora (8’53”) la sezione Very fast, dove il corno tacet (è il classico momento di pausa che il solista impiega per… svuotare lo strumento). Gli archi, poi raggiunti dai fiati, curiosamente ripropongono il motivo iniziale (a) con valori aumentati, equilibrando quindi l’effetto della diversa agogica. Si tratta di una serie di varianti del tema che viene magistralmente esposto e contrappuntato alternativamente da archi e fiati.

(9’43”) A questo punto sulla pagina della partitura Hindemith scrisse alcuni versi (in tedesco antico) sotto il titolo Declamation, in cui esalta i suoni del corno (che nelle successive 41 battute propone un motivo dal sapore arcano, quasi declamasse proprio quei versi) invitando l’ascoltatore a lasciarsi da essi trasportare nel passato, di cui onorare le vestigia:

“Mein Rufen wandelt
In herbstgetönten Hain den Saal,
Das Erben in Verschollnes,
Dich in Gewand und Brauch der Ahnen,
In ihr Verlangen und Empfahn dein Glück.
Gönn teuren Schemen Urständ,
Dir Halbvergessener Gemeinschaft,
Und mir mein tongestaltnes Sehnen.“
“Il mio richiamo trasforma
l’auditorium in un bosco di suoni autunnali,
l’erede nello scomparso,
te nelle vesti e nei costumi degli antenati,
la tua felicità nella loro nostalgia e accoglienza.
Concedi la resurrezione alle care ombre,
a te la comunione con loro, semidimenticati,
e a me la mia nostalgia plasmata nei suoni.”

È una specie di compendio poetico dell’estetica di Hindemith, che propugnava una rivalutazione dell’antico (non un ritorno tout-court all’antico) come motore per il progresso della musica. Insomma, lui vestiva un po’ i panni di Hans Sachs!

I primi tre versi, liberamente tradotti in inglese, sono incisi sulla lapide che allo Hampstead Cemetery di Londra ricorda Dennis Brain, prematuramente scomparso a soli 36 anni nel 1957, schiantandosi contro un albero con la sua Triumph TR2, mentre tornava a casa da Edinburgo, dove aveva suonato la Patetica con Ormandy:


Dopo la chiusura (11’30”) inizia ora una sezione in tempo Lively, che negli archi e poi (12’11”) nel corno e quindi nell’ottavino ripropone i motivi della precedente Moderately fast, sottoposti a sottili manipolazioni. Anche il motivo (d) ricompare (13’09”) nel corno, subito imitato dal clarinetto.

(13’57”) Nell’ultima sezione (Very slow) il corno, accompagnato discretamente dagli archi e alla fine anche da clarinetti e fagotti, riprende il motivo (c) e conduce serenamente alla conclusione, sul DO che si unisce al LA dei clarinetti, al DO dei fagotti, al FA dei contrabbassi e a due discese dei violini (DO-SIb-LA e poi LA-SOL-FA). Insomma, si chiude su un perfetto… FA maggiore!
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Il grande Radovan non si smentisce e cava dal suo corno magico bellissimi suoni – compresi quelli a campana chiusa alla fine della Declamation - che danno piena ragione ai versi di Hindemith! Per lui trionfo assicurato e quindi un bis che – come ha già fatto altre volte – non esegue da solo ma insieme a colleghi dell’orchestra: così con Ceccarelli, Amatulli e Buldrini ci porge il primo tempo della Sonata per 4 corni (1952) di… Hindemith!
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Ora è la volta del poco conosciuto Karl Goldmark e della sua ouverture Im Frühling. Che spiega perché questo compositore sia… poco conosciuto (smile!) Questo pezzo che sta, diciamo, fra Dvorak e Rimski, a me dà l’idea del tipico vorrei, non posso. Francamente mi sfugge il razionale di averlo proposto – vaso non di coccio, ma di cartavelina – fra tre vasi d’acciao. Come sempre in casi simili, va lodata l’abnegazione dei ragazzi che se lo sono studiato per proporcelo facendo del loro meglio.
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Ha chiuso la serata l’inflazionato Zarathustra, che a differenza del Till l’orchestra padroneggia ormai disinvoltamente e di cui anche Bignamini ha fornito un’interpretazione davvero pregevole, salutata da ovazioni per tutti e ripetute chiamate per il Maestro, che fra una settimana ci farà un’anteprima della Butterfly che lui dirigerà prossimamente alla Fenice

15 febbraio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°21

 

Zhang Xian si dedica in questo concerto al grande repertorio ottocentesco (una specie di DNA dell’Orchestra, del resto) presentando opere (poco o molto popolari) di Schumann e Schubert. 

Fra le meno popolari (si fa per dire) ci sono le due del genio (un po’ pazzo, smile!) di Zwickau: il concerto per 4 corni e quello per violoncello. Del viennese frequentatore di postriboli (beh, ognuno ha i suoi gusti, e la cosa è addirittura apprezzabile se conduce ad esiti musicali siffatti…) la Grande Sinfonia, che il pazzo di cui sopra – che l’aveva disseppellita dalle scartoffie del fratello dell’Autore - giudicava di lunghezza abnorme, ma… celestiale. (Siamo romantici o no?)
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Ad aprire la serata il Konzertstück per 4 corni e orchestra. È il residente Radovan Vlatkovich a guidare il pacchetto dei primi tre corni de laVerdi (Ceccarelli-Amatulli-Cardone) in questo autentico pezzo di bravura, composto da Schumann proprio per sfruttare tutte le possibilità espressive che (ai suoi tempi) erano state introdotte dall’invenzione del ventil-horn (il moderno strumento a valvole) che soppianterà progressivamente il corno naturale, certo più romantico, ma meno dotato sul lato cromatico. Inutile dire che i solisti sono chiamati a notevoli virtuosismi, compresi i LA sovracuti che il primo corno arriva a toccare verso la fine del Lebhaft e poi nel Sehr lebhaft conclusivo.  

In un pezzo di tale difficoltà qualche sbavatura è quasi scontata, e direi che quelle emerse ieri sera si possono tranquillamente perdonare. Cosa che il pubblico ha fatto volentieri, gratificando i quattro moschettieri di applausi ed ovazioni.
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L’invasione cinese continua (smile!): oltre al podio, è cinese anche il solista, Jian Wang, che si cimenta con il Concerto per violoncello, estremo lascito della grande (nonostante tutto) mente di Schumann. Concerto dalla struttura piuttosto anomala (a parte la suddivisione in tre tempi) dove singoli temi continuamente sviluppati occupano quasi interamente i diversi movimenti, quindi c’è relativamente poco dialogo. Insomma, poca forma-sonata e molta fantasia (del resto l’Autore aveva originariamente intitolato il pezzo come Konzertstück…)

Wang, e la Xian che lo ha spalleggiato, ne hanno dato un’interpretazione sofferta, non dico nichilista, ma insomma anche i pochi squarci di sereno sono sempre stati rapidamente oscurati da densi nuvoloni (forse Clara non avrebbe gradito, ma chi può dire avesse ragione lei a trovare in un pezzo come questo qualcosa di ottimistico?)  

Una curiosità: mentre molti interpreti se ne scrivono una propria, Wang ha eseguito la cadenza finale (quella accompagnata) predisposta da Schumann.

Successo pieno coronato da un bis: invece del solito brano da una suite bachiana, il simpatico Jian (ma in cinese vuol dire Gianni?) ci ha deliziato con una languida canzoncina della sua terra.
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Su Schumann allego un saggio del sommo Quirino Principe, apparso su Musica&Dossier del Settembre 1990.
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Quando è in programma la Grande schubertiana i bookmakers fanno affari d’oro accettando scommesse sulla durata e, soprattutto, sui… ritornelli. Questi ultimi riguardano, per la precisione:

- primo movimento: (1) l’intera esposizione (Allegro non troppo) per un totale di 176 battute su 684 (al netto);

- terzo movimento (escludendo la ripresa canonica dello Scherzo): (2) prima sezione dello Scherzo (Allegro vivace) di 56 battute; (3) seconda sezione dello Scherzo di 182 battute; (4) prima sezione del Trio di 48 battute; (5) seconda sezione del Trio di 102 battute; complessivamente 388 battute su un totale di 405 (al netto);

- quarto movimento: (6) l’intera esposizione (Allegro vivace) per un totale di 380 battute su 1154 (al netto).

È evidente come il rispettare o meno tutti o parte dei ritornelli abbia effetti anche sensibili sui tempi di esecuzione, che sono comunque egualmente influenzati dall’approccio alle agogiche tenuto dal Direttore.

Per fare degli esempi pratici: proprio qui in Auditorium, anni fa il venerabile Helmuth Rilling, rispettando scrupolosamente tutti e 6 i da-capo e tenendo però un piglio mediamente abbastanza spedito, fece durare la Sinfonia un’ora esatta.

Su Youtube si può ascoltare un’esecuzione di Giulini del 1990 (a Parigi) che dura ben 63 minuti. Eppure, di tutti i 6 da-capo, Giulini esegue – come è ormai prassi abbastanza consolidata - solo il (2) e il (4) (!!!) Per dire, Böhm (anni ’70) con gli stessi ritornelli impiega 12 minuti di meno!

Per divertimento si può calcolare quanto durerebbe una data esecuzione se fossero rispettati tutti i da-capo (oggi con diavolerie informatiche disponibili anche ai comuni mortali, e non solo agli studi delle case discografiche, si può persino ricostruirci un CD…) Nel caso di Böhm saliremmo da 51 a 62 minuti (cioè più o meno come Rilling). In quello di Giulini si arriverebbe addirittura ad un’ora e un quarto abbondante (neanche fosse… Mahler!!!)

Ai tempi dei vinili (non parliamo dei 78 giri!) una delle più banali ragioni del taglio dei ritornelli (o dei tagli tout-court, proprio da barbarie) era la durata registrabile di una faccia del microsolco, che faticava a superare (pena una gran perdita di qualità) i 25 minuti. Oggi certe scuse non reggono più e il razionale che giustificherebbe queste scorciatoie consisterebbe nelle mutate attitudini moderne all’ascolto (della serie: non facciamoli addormentare o esasperare, per carità, sennò non ritornano più…)

Razionale che si ammanta spesso di sopraffine considerazioni estetiche, del tipo: se passi due volte in 5 minuti a rivedere la Gioconda, la seconda volta ti viene da vomitare (smile!) Così potremmo dire che Giulini è un cicerone che ti fa stare mezz’ora di fila davanti alla Gioconda, spiegandotela lentamente e con parole pompose; Böhm ti ci fa stare solo 20 minuti, raccontandotela con fare più spedito; Rilling te la spiega ripetendo ogni concetto per due volte, il tutto in 25 minuti!

Beh, detto ciò prendiamo atto che anche la cinesina si è adeguata (e non certo da oggi, del resto) all’andazzo prevalente, però con una piccola deroga: ha eseguito il da-capo (1) dell’esposizione, così invece dei 48 minuti indicati sul programma di sala ne ha impiegati 53!

Un filino troppo spedito (per i miei personali gusti) l’Andante introduttivo. Emozionante l’Andante con moto, soprattutto all’entrata del secondo soggetto. Strepitoso lo Scherzo e travolgente il Finale, con qualche chilo di enfasi di troppo (smile!) in quei gruppi di quattro minime che precedono la chiusa. 

Insomma: nessuno si è addormentato né ha lasciato l’Auditorium anzitempo in preda a convulsioni isteriche. Tutt’altro: il successo è stato proprio travolgente. Bene così (?!)

11 gennaio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.17


Per il secondo concerto del 2013 torna sul podio Martin Haselböck (al posto di Claus Peter Flor) a dirigere laVerdi in un programma direttamente (Britten) o indirettamente (Mendelssohn) legato al mondo d’Oltremanica.

L’apertura è con l’Ouverture Meerestille und Glückliche Fahrt del compositore amburghese di casa a Lipsia.

Come per Beethoven (che ci costruì una cantata) l’ispirazione viene a Mendelssohn da due poesie di Goethe: Meeresstille, dove il marinaio osserva impietrito e tremebondo una calma piatta che impedisce alla nave di veleggiare verso la sua destinazione; e Glückliche Fahrt, dove finalmente la brezza si rialza e la nave si rimette in moto.
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Per la verità l’iniziale Calma di mare (che occupa solo 44 battute, pur in Adagio, 3 sole delle 46 pagine della partitura e meno di un terzo della durata totale del brano - in Beethoven è parecchio più della metà...) non ci trasmette proprio l’atmosfera rabbrividente di Goethe (Una quiete mortale che fa spavento! Todesstille fürchterlich! sentire per confronto come la evoca Beethoven…) bensì un’immagine di siesta sonnolenta e tranquilla, in assenza totale non solo di vento, ma anche di pathos. Al più si potrebbe pensare ad un equipaggio composto da pii marinai, che religiosamente pregano fiduciosi il buon Dio che gli mandi qualche refolo (smile!)

Le lente e ondeggianti volute degli archi, qua e là contrappuntati dai fiati, si muovono dal RE maggiore d’impianto al LA maggiore, poi tornano al RE, che chiude la prima parte sulla dominante LA, ove avvertiamo i primi soffi di vento, portati dal flauto.

La seconda parte è in una specie di forma-sonata. Innanzitutto troviamo un’abbastanza lunga e parecchio retorica introduzione (addirittura 51 battute!) tutta costruita attorno all’arpeggio di settima di dominante, e poi finalmente arriva il primo tema, in RE maggiore, che dalla mediante FA# scende cromaticamente alla sopratonica MI, per poi innalzarsi alla dominante LA; quindi la risposta poderosa – una citazione assai scoperta, anche se non letterale, di Beethoven - nell’unisono degli archi, che scende da mediante a dominante, passando per sopratonica e tonica. Il tutto ripetuto una seconda volta, prima della modulazione alla dominante LA del secondo tema, vagamente mutuato dalla beethoveniana Leonore.   

In una specie di sviluppo abbiamo uno squarcio quasi di tempesta e di vento che fischia attraverso i cordami della nave, di cui si ricorderà il pochissimo riconoscente (anzi!) Wagner nel suo marinaresco Holländer. Si transita brevemente anche da DO maggiore, poi la nave fila veloce - la ripresa ripresenta i due temi principali, col secondo accodatosi ubbidiente al RE maggiore - e arriva a destinazione, fra enfatici martellamenti di timpani (intesi come strumenti musicali, ma anche come componenti dell’organo uditivo umano, smile!) dove è accolta trionfalmente da una fanfara in piena regola, prima di ammainare le vele e riposare al riparo dal vento, sullo specchio d’acqua del porto, piatto come un olio… 
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Esecuzione, a mio modesto avviso, un pochino piatta (smile!) soprattutto nel Fahrt, dove anche i momenti di maggior vivacità mi son parsi assai molli e poco incisivi: insomma, una prestazione senza infamia e senza lode.

In omaggio al centenario della nascita del compositore, ecco poi la poco eseguita Serenade di Benjamin Britten, opera composta in piena Seconda Guerra Mondiale (1943, più o meno coeva del Peter Grimes) e ispirata da due musicisti con cui Britten aveva rapporti speciali: di natura artistica (Dennis Brain) ed anche affettiva (Peter Pears): ciò spiega l’originale organico del pezzo, scritto per tenore e corno solista, più una modesta (per dimensioni, ovviamente) orchestra d’archi.


La struttura del pezzo, dedicato ad Edward Sackville-West (scrittore e musicista, sponsor di Britten cui consigliò i testi da musicare) prevede sei liriche di autori britannici (dal 1400 al 1800) in qualche modo improntate alla notte (da qui il titolo) cantate dal tenore e accompagnate (tranne l’ultima) in primo piano dal corno, più un Prologo e un Epilogo, suonati dal solo cornista con armonici naturali (ciò che rispetto al temperamento equabile implica che alcuni gradi siano calanti o crescenti). L’Epilogo è perfettamente identico al Prologo, ma è da suonarsi da dietro le quinte, e ciò spiega perché l’ultima lirica non abbia l’accompagnamento del corno, per dar tempo all’esecutore di abbandonare il palco e andare a… nascondersi. Qui un’esecuzione agli Arcimboldi, nel maggio del 2002, della Filarmonica scaligera e della sua prima parte, il grande Danilo Stagni, che per Prologo ed Epilogo imbraccia direttamente un corno… naturale, al posto di quello moderno.
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Prologue (Epilogue, come detto, è identico) consta di 14 battute che il cornista può intonare sempre ad libitum pur in presenza dell’indicazione agogica di Andante e metronomo 80 semiminime. Il tempo non è esplicitamente indicato, poichè continua a variare: 5 – 4 – 5 – 7 – 5 – 5 – 4 – 4 – 7 – 5 – 6 - 6,5 - 4 - 5 (semiminime per battuta). La tonalità è FA, quella di base del corno (qui la parte non trasposta):


La melodia richiama proprio atmosfere da guardiano notturno: vengono toccati tutti i gradi della scala diatonica di FA, ad eccezione del settimo, che è abbassato (battute 7 e 9). Si noti come tutte le battute (tranne la quintultima e l’ultima) abbiano un incipit in metro giambico (nota breve seguita da nota lunga): anche le prime tre liriche saranno caratterizzate da questo metro.

Pastoral (Lirica originale: The Evening Quatrains di Charles Cotton - 1630-1687 – 10 quartine, di cui musicate le 1-3-4-10) – Lento, 3/8, 4/8, 5/8, RE bemolle.

La sera scende e le ombre si allungano: così le formiche assomigliano a mostruosi elefanti; il pastorello ad un maestoso Polifemo; la gente siede e ciarla, finchè Febo, tuffandosi nell’Occidente, indica a tutto il mondo la strada del riposo.

Bellissima la melodia principale della voce (ricorda atmosfere del contemporaneo Grimes) che scende da dominante a dominante lungo la triade maggiore, per poi risalire alla mediante, contrappuntata dal corno (che si inabissa fino al MIb grave):


La seconda strofa è simile alla prima, ma dal terzo verso sale di un semitono, chiudendo poi sul SOL#, invece che sul FA. La terza strofa (dove le ombre ingigantiscono gregge e pastorello) è quasi tutta in puntato, prima di adagiarsi sulla tonica REb. L’ultima strofa riprende la forma originale, ma modula a MIb, prima di tornare a REb, con una discesa della voce dalla sottodominante SOLb alla dominante LAb, imitata dal corno che rimane da solo a chiudere sull’arpeggio discendente LAb-FA-REb-LAb.

Nocturne (Lirica originale: The splendour falls, dalla raccolta The Princess di Lord Alfred Tennyson - 1809-1892 – 3 strofe, tutte musicate) – Maestoso, 4/4, 5/4, 6/4, cadenze libere, MIb-LA-MIb.

Splendido poema di contemplazione della natura (con castelli, monti, valli, sommessi suoni di corni di elfi, echi che si perdono lontano) ma con indiretti riferimenti anche ai concetti di vita e di morte.

Le tre strofe (le estreme in MIb maggiore, l’interna in LA minore) sono accompagnate dagli archi con brillanti incisi giambici, che sembrano gettare lampi di luce su oggetti e panorami, e ripetono una specie di ritornello (Blow, bugle, blow, set the wild echoes Flying / Bugle blow; answer, echoes, dying, dying, dying Suona tromba, suona, fai volare echi selvaggi / rispondete, echi, morendo, morendo, morendo) che Britten musica come Cadenza (senza misura) e in cui il corno – che per il resto tace - è chiamato a veloci e concitate terzine in staccato:


La melodia delle tre strofe ha la stessa base, ma con diverse varianti, di armonizzazione e altezza. Dopo l’ultimo ritornello il corno chiude restando sulla dominante grave (SIb) accompagnato dai quattro incisi giambici degli archi.

Elegy (Lirica originale: The Sick Rose da Songs of Experience di William Blake - 1757-1827 – 2 strofe) – Andante appassionato, 4/4, MI minore, maggiore.

Brevissima lirica (8 versi) che piange una rosa malata, rosa dall’invisibile verme notturno, il cui oscuro amore la distrugge. Evidente qui la simbologia rosa=amore e verme=morte e sotterranea l’allegoria della relazione amore-peccato ancora così radicata nella società di allora, ma anche dei tempi di Britten (che ne doveva saper qualcosa) e pure di oggi…   

Il corno incastona il recitativo (lento) della voce (sul quale si tace) con due lunghe melopee che sul pedale giambico degli archi si caratterizzano per una serie di seconde minori (SOL#-SOL, SOL-FA#, SI-SIb, SIb-LA, MI-MIb, MIb-RE, RE-DO#, DO-SI, SI-SIb, FA-MI, …) che bene evocano la lenta azione erodente del virus; qui la seconda (parte non trasposta) che chiude sul SOL#-SOL-SOL#:


Dirge (Lirica originale: Lyke-Wake Dirge di autore anonimo - 15° secolo – 11 strofe, tutte musicate tranne le 6-7) – Alla marcia grave, 4/4, SOL minore.

Lungo canto funebre (Lyke-Wake significa vegliare una salma) in lingua arcaica e in forma di filastrocca. Vi si promette il Paradiso o l’Inferno a seconda dei comportamenti – caritatevoli o egoisti - dell’individuo. Ma sempre… Christe receive thy saule, Cristo riceva la tua anima.

Il motivo principale è un ostinato ondeggiare, a mo’ di cantilena, su una seconda minore: SOL-LAb-SOL, che in sostanza riprende, a note invertite, la battuta finale della lirica precedente:


Il corno entra solo nella quartultima (From Brig…) e terzultima (If ever…) strofa, con spettrali figurazioni, mentre il passo di marcia si fa più pesante:


Hymn (Lirica originale: Hymn to Diana da Cynthia’s Revels di Ben Jonson - 1572-1637 – 3 strofe, tutte musicate) – Presto e leggiero, 2/4, 6/8, SI bemolle.

Inno a Diana (Cinzia) che trasforma la notte in giorno e impedisce così alla terra di cadere preda delle tenebre. Scoperto (ai tempi) il riferimento alla Regina Elisabetta I, assimilata a faro dell’impero britannico!

È l’unica lirica caratterizzata da grande gaiezza e umorismo. Qui il corno è chiamato a difficili passaggi, con veloci terzine e scale ascendenti e discendenti:

E dove anche la voce deve eseguire lunghe volate:


La chiusa del corno, sul SIb grave, sembra quasi un’amabile… sberleffo alla sovrana!

Sonnet (Lirica originale: To sleep di John Keats - 1795-1821 – 14 versi, tutti musicati) - Adagio, 4/4, chiave di RE maggiore – SI minore, ma tonalità in perenne modulazione.

Inno al sonno, che ci fa dimenticare ogni dispiacere: le melodie sono lente, cullanti e le armonie continuamente cangianti.

È però anche un inno al sonno eterno, la morte, in cui trovare finalmente pace. E la pace per Britten arriva proprio sulla battuta conclusiva, sulla parola Soul (Anima) allorchè gli archi virano all’accordo di RE maggiore.

Come detto, in questa lirica il corno tace e l’esecutore si rifugia dietro le quinte, per suonarvi l’Epilogue.
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Radovan Vlatkovich ha fatto tutto con un corno moderno limitandosi, in Preludio ed Epilogo, a non mettere le dita sulle… valvole e consegnandoci quindi gli sgradevoli suoni armonici (SIb e RE) come da prescrizione britten-iana! Come sempre ha fatto sfoggio della sua tecnica sopraffina e della sua grande sensibilità.

Il 29enne Julian Prégardien ha cantato abbastanza bene, peccato che la sua sia proprio una vocina, che fatica a passare.

In complesso comunque un’esecuzione più che apprezzabile, che rende pieno merito a questa originale partitura.

La chiusura del concerto è ancora riservata a Mendelssohn, ma un Mendelssohn… Scozzese. I cui suoni si sono diffusi ultimamente in Auditorium meno di un anno fa, tramite la bacchetta del venerabile Sir Neville Marriner.

Miracolosamente, qui un bel cipiglio si manifesta fin dalle prime battute e così orchestra e direttore riscattano in pieno la scialba apertura di serata con un’esecuzione davvero convincente. Fausto Ghiazza sciorina un’inebriante cascata di note nel Vivace non troppo e Sandro Ceccarelli trascina il pacchetto dei corni in un superbo Maestoso conclusivo. Ma l’Adagio resta sempre il momento più sublime della sinfonia. Bravi! 

Il prossimo è un appuntamento di quelli capitali: il Requiem di Brahms!

30 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 26


Ieri è tornato sul podio dell'Auditorium il grande sir Neville Marriner con un programma che spazia su tre secoli di musica.

Si parte infatti dal secolo XX (quasi esattamente 100 anni orsono, peraltro) con Ralph Vaughan-Williams, di cui ascoltiamo la Fantasia su un tema di Thomas Tallis. Tallis fu un musicista rinascimentale (1500) che fra l'altro compose 9 salmi per l'arcivescovo Matthew Parker, di cui il terzo (Why Fum'th In Fight) è stato preso da RVW come base per la sua fantasia, composta dopo una proficua residenza a Parigi per… sciacquare i panni chèz-Ravel

L'Autore prescrive di distribuire le parti su tre diversi complessi, esclusivamente formati da archi: due orchestre, una corposa, l'altra smagrita (di soli 9 elementi: 2+2+2+2+1) e il classico quartetto (violini I-II, viola e violoncello). La cosa ha un senso pratico solo se i tre complessi vengono dislocati in posizioni ben diverse, in modo da creare effetti eco-stereo come quelli che si hanno in chiesa quando i cori vi cantano le antifone… altrimenti la suddivisione serve a ben poco. E in effetti la prima della Fantasia fu eseguita nella cattedrale di Gloucester, nel 1910, in occasione di un celebre festival.
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La melodia originale è in modo frigio (la scala che parte dal MI, in pratica, e percorre i tasti bianchi) che secondo gli antichi greci era il modo collerico (non per nulla melodie frigie venivano suonate per dar la carica ai soldati in battaglia!) che ben supporta il testo di Tallis, che tratta di guerre e odio. Consta di 20 battute, suddivise in 4 (quanti sono i versi del salmo) sezioni di 5:

Vaughan la presenta trasposta sulla tonica di SOL (minore-maggiore) e impiega soprattutto le linee melodiche di soprano e tenore (1° e 3° rigo). Mirabile l'uso del contrappunto per creare atmosfere armoniche continuamente cangianti, dal modo frigio al minore e maggiore del SOL, quindi mescolando intelligentemente stilemi musicali antichi con moderni. 

In tempo Largo, sostenuto, già alla quarta battuta - dopo i cinque accordi iniziali e il RE in unisono - viole, violoncelli e contrabbassi presentano in pizzicato il primo frammento del tenore, e subito dopo la chiusa del primo verso:

Poco più avanti ecco motivi ricavati dal terzo verso e dal quarto, fino alla conclusione in maggiore:

Quindi l'esposizione dei temi continua con l'insieme degli strumenti e con arpeggi in semicrome dei secondi violini. 

Poi si distinguono tre episodi: nel primo (Largamente) sono le due orchestre che si fronteggiano con domande-risposte; nel secondo (Poco più animato) è la viola solista ad esporre la melodia, subito seguita dal violino e poi dagli altri due strumenti solisti, contrappuntati dalle due orchestre; quindi un terzo episodio, assai lungo (Ancora più animato) di cui è protagonista il quartetto dei solisti supportato dall'orchestra da camera e poi anche dalla principale, fino a sfociare in un tutti

Improvvisamente il tempo rallenta, con quattro battute in Molto adagio. Poi ancora violino e quindi viola solisti, sul Tempo del principio, ripropongono il tema, con sommessi interventi delle orchestre.

Infine la coda, col suono che subisce una progressiva rarefazione, sia nel tempo (Molto ritardando) che nel volume, fino al conclusivo accordo (in pppp) di SOL maggiore.
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Intanto, come ha disposto le orchestre Marriner? Allora, la seconda è stata dislocata sul fondo (area solitamente occupata dalle percussioni): contrabbasso al centro, a sinistra (per l'osservatore) i quattro violini (2 primi e 2 secondi) e a destra i 2 violoncelli e le 2 viole; l'orchestra principale disposta secondo tradizione moderna; i solisti del quartetto erano in realtà le prime parti dell'orchestra principale. Tutto sommato mi è parsa una scelta più che opportuna ed efficace.

Il pubblico, abbastanza folto anche se non proprio oceanico, ha mostrato di gradire quest'opera interessante certo, ma che si può definire un capolavoro solo se si restringe il campo alla perfida albione (smile!

Poi si fa un salto indietro di 2 secoli (in realtà di circa 120 anni) con il Quarto Concerto per corno di Mozart. Che si è scoperto essere per la verità il secondo in ordine di composizione (ma son problemi di scarsa rilevanza) dato che la numerazione di Köchel era imprecisa al proposito.

È il residente Radovan Vlatkovic a proporlo – dopo il Terzo eseguito un paio di mesi orsono - come sempre con grande sfoggio di virtuosismo e maestrìa. Qui lo vediamo impegnato qualche anno fa (ancora imberbe) in una specie di kermesse estiva pugliese, con contrappunto di gaie vocine da scuola materna (!)

Anche ieri prestazione di altissimo livello, accolta da ovazioni e scroscianti applausi, inclusi – ed è proprio una bella cosa – quelli del primo corno scaligero, Danilo Stagni, presente in platea e salito poi nel retropalco per salutare e – immagino – felicitare il virtuoso croato. 

Che ha concesso un bis collegiale (Reicha) insieme ai due cornisti che lo hanno accompagnato nel concerto.

Chiude la serata l'ottocentesca Scozzese di Mendelssohn. Forse – ma è solo la mia personalissima convinzione – la più ispirata delle cinque sinfonie del ragazzino-di-buona-famiglia nato più di 200 anni fa in quel di Amburgo e poi diventato quasi il re-di-Lipsia, oltre ad aver conquistato – more Handel – anche i cuori albionici. E del resto è anche l'ultima – a dispetto della numerazione – ad essere stata completata, quindi certo la più matura.

È noto come tale Richard Wagner – incallito antisemita – abbia detto e scritto peste e corna del mite Felix, considerato un traditore della… natura, che gli avrebbe dato enormi talenti da lui – in quanto ebreo - regolarmente dissipati (si legga il Das Judenthum in der Musik). 

Epperò quando si trattava di trovare spunti interessanti per le proprie creazioni, ecco che Wagner non esitava a saccheggiare anche la bisaccia dei suoi cosiddetti mostri. E la Terza Sinfonia ne è un eclatante esempio, laddove il suo tema introduttivo fu impiegato da Wagner per costruirci uno dei principali Leit-motive del Ring, quello che si ode all'inizio della quarta scena del second'atto di Walküre, passato alla storia come tema del presagio di morte (che Brünnhilde annuncia a Siegmund):

Mendelssohn trasse lo spunto per la sinfonia da sensazioni e ricordi di un suo viaggio giovanile in Scozia (così come accadde per l'Italiana, ispirata da un soggiorno romano) ma solo quasi al termine della sua breve esistenza vi mise mano con decisione. 

Uno dei punti più alti della sinfonia mi pare essere l'Adagio, che presenta questa sublime melodia:

Il Finale ha una conclusione inaspettata, almeno per Mendelssohn, solitamente poco propenso a gesti di smaccata teatralità (cosa invece normale in Schumann, tanto per dire): l'Allegro vivacissimo, 4/4 tagliato, in LA minore, invece di arrivare ad una prevedibile stretta finale, pare progressivamente arenarsi, fino a spegnersi sulla dominante grave dei violini. Da qui – a velocità più che dimezzata (Allegro maestoso assai, in 6/8) – parte un corale in LA maggiore, tanto enfatico quanto (apparentemente almeno) avulso dal contesto. Che ha peraltro il pregio di dare una chiusura solare ad un'opera su cui aveva imperato un notturno Ossian

Grande prestazione dell'orchestra, clarinetti e corni in primo piano, e trionfo per il Maestro, accolto con il classico pestone ritmato di tutti i professori.

Prossimamente entriamo in clima pasquale con una celebre Passione.