XIV

da prevosto a leone
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14 maggio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 29


Il penultimo concerto della stagione (inserito nella prestigiosa rassegna Milano Musica) vede il gradito ritorno in Auditorium di Stanislav Kochanovsky (un russo sfuggito chissà come dalle grinfie del CoPaSir!!!) che dirige un programma est-europeo del ‘900. 

I primi due brani sono di Witold Lutosławski. Ecco la Musique funébre, per soli archi (da 44 a 66, divisi in 4 parti di violini e 2 parti di viole, celli e bassi) composta a partire dal 1954, 10° anniversario della scomparsa di Béla Bartók (protagonista della seconda parte del concerto) e terminata nel 1958.

Composizione davvero singolare per concezione e realizzazione, che si può ben definire di alta ingegneria combinatoria, in particolare per la struttura dei due movimenti esterni dei quattro in cui si articola.
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Esploriamola a volo d’uccello in questa interpretazione di Daniele Gatti con la ONF. Il Prologo (1’15”) si fonda sull’impiego di serie dodecafoniche ottenute per trasposizione, inversione e retrogradazione di due serie di base (S1 e S2, le prime entrate a canone dei due violoncelli) costruite alternando tritoni (a partire da FA-SI e SI-FA rispettivamente) seguiti da una seconda minore discendente (a); l’inversione delle due serie dà luogo a serie che alternano tritoni a seconde minori ascendenti (b):

Altre serie sono poi costruite a partire dalle restanti 10 note della scala cromatica. Possiamo interpretare (almeno io così mi sento di fare) il tritono come elemento di negatività (la morte, in effetti, e per di più crudele, come quella di Bartók) e la seconda minore come evocazione del lamento per quella morte.

La sequenza di entrate successive, dopo l’apertura dei due primi violoncelli, vede l’entrata delle prime viole, e via via dei violini e infine dei contrabbassi, che si aggiungono proprio a preparare il culmine di questa prima parte (3’19”) dove il tritono FA-Si viene reiterato pesantemente, poi sempre decrescendo con l’abbandono degli archi alti che lasciano solo celli e bassi (4’45”) a chiudere sommessamente sul FA.

Segue poi (5’09”) Metamorfosi, che parte da sordi pizzicati per poi (6’13”) evolvere in un continuo e lento crescendo melodico. La serie del Prologo viene ancora trasformata, la melodia culmina in volate di semicrome, che portano (10’07”) al breve...

Apogeo, solo 12 battute in fff dove l’intera compagine suona soltanto pesanti accordi di 12 note, tenuti e poi ribattuti. Un progressivo aumentare della lunghezza delle note (semicrome, crome, terzine di semiminime, semiminime, minima e breve) introduce (10’57”)...

l’Epilogo, che vede il ritorno in primo piano (11’31”) delle serie del Prologo, con il tritono SI-FA in posizione preponderante.

La chiusura (15’05”) è ancora riservata, come l’apertura del brano, al primo violoncello, che ripercorre spezzoni sempre più minuscoli delle ultime 4 note dell’inversione della seconda serie, che degrada di un semitono da quella fondamentale: MIb-LA-SIb-MI / LA-SIb-MI / SIb-MI / SIb / MI:

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Che dire? Musica che non è proprio delle più digeribili... Tuttavia, se diretta e suonata come si deve merita di essere apprezzata, come ha fatto il pubblico abbastanza folto non lesinando lunghi applausi a Direttore e musicisti, con il violoncello di Tobia Scarpolini sugli scudi.
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Ancora di Lutoslawsky ecco un brano vocale, Chantefleurs et Chantefables per soprano e piccola orchestra. Si tratta di un ciclo di 9 canzoni per bambini, scelte fra gli 80 testi surrealisti di Robert Desnos e composte fra il 1989 e il 1991:

1.   La Belle-de-Nuit

2.   La Sauterelle

3.   La Véronique

4.   L'Eglantine, l'aubépine et la glycine

5.   La Tortue

6.   La Rose

7.   L'Alligator

8.   L'Angélique

9.   Le Papillon

Ad interpretarle è il soprano Łucja Szablewska-Borzykowska, connazionale del compositore e al suo esordio qui in Auditorium. Musica atonale e canto che si avvicina allo Sprechgesang (tipo Pierrot lunaire...) La bionda Lucja sfoggia una bella voce lirica con la quale illustra tutte le sfumature di questi canti. L’Orchestra sottolinea discretamente la voce, salvo scatenarsi proprio nell’ultimo brano: l’invasione delle farfalle! 

E così - come premio - il Papillon ci viene bissato!
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Come detto, si chiude con Béla Bartók e il suo Divertimento per archi, commissionato dal, e dedicato al, mecenate della musica Paul Sacher e alla sua Orchestra di Basilea, che tenne a battesimo il brano l’11 giugno del 1940. Brano composto di getto in una villa di Sacher sulle Alpi svizzere nell’estate del ’39, quando Bartók ormai si stava rassegnando ad andarsene in esilio negli USA, abbandonando dolorosamente la sua amata Ungheria, sempre più risucchiata nell’orbita nazista.

Tre movimenti che richiamano, come spesso in Bartók, ritmi e melodie popolari, con chiare inflessioni modali, ma sono costruiti su forme classiche, dal settecentesco Concerto grosso all’ottocentesca forma-sonata.
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Ecco come li interpreta il compatriota di Bartók Eugene Ormandy. Si parte (9”) con un Allegro non troppo, che ha struttura di forma-sonata... con qualche libertà. Il primo motivo (in atmosfera di FA maggiore, con caratteristico accompagnamento di triplette) si sviluppa su 13 battute, poi viene ripreso (35”) per altre 11 battute. Cui segue un rallentamento che introduce (1’07”) un secondo motivo (Un po’ più tranquillo) - un passaggio tipico del Concerto grosso, con dialogo fra le prime parti (il concertino) e il pieno orchestrale - che parte in LA e si chiude su un unisono di FA. Il quale prepara il terreno al secondo tema (1’47”) assai lezioso, in ambientazione di RE minore (relativa del FA del primo tema) e sempre con dialogo soli-tutti. Lo sviluppo (3’09”) vede classicamente protagonisti i due gruppi tematici, con passaggi a canone più mossi alternati a prese di respiro; e porta poi (5’40”) alla ripresa: il primo tema viene riproposto, anzichè sul FA, sul SOL e sul DO, mentre è il secondo (6’31”) ad accodarsi al FA minore. Una coda (7’49”) basata su una rielaborazione (Più tranquillo, poi Sempre più lento) del primo motivo porta ad una sommessa conclusione.

Il centrale Adagio (9’02”) apre con l’esposizione di una cellula di tre note nei violini secondi, poi nei primi su un accompagnamento degli altri archi che passa da un ostinato serpeggiamento ad una certa increspatura (10’07”) proprio su una melodia (mahleriana?) nei primi violini. Dopo un breve rallentamento ecco un fortissimo RE acuto che introduce (11’02”) un’irruzione delle viole, che poi passano il testimone a violini primi, fino al sopraggiungere di un passaggio (12’34”) caratterizzato da instabilità agogica: ecco un‘alternanza di sostenuto, lento e agitato, ed un progressivo crescendo che culmina a 13’45”, seguito da un decrescendo. Ancora il dialogo fra soli e tutti (14’28”) e poi ecco (15’17”) il ritorno della cellula primigenia, fino (16’59”) ad un autentico grido di dolore prima della mesta chiusura.

Il terzo movimento (17’25”) è un Rondo in Allegro assai. Anche qui torna spesso e volentieri l’alternanza soli-tutti del Concerto grosso. Dopo 13 battute introduttive che stabiliscono il ritmo, ecco (17’35”) esposto il tema del Rondo, una derivazione di quello del movimento iniziale, quindi dalle chiare connotazioni della musica popolare magiara. Seguito (17’45”) da un controsoggetto dl carattere diatonico (MIb maggiore) che dopo un breve ponte a canone, sfocia (18’13”) in un perentorio unisono di FA# e prepara l’ingresso (18’26”) di una nuova sezione bipartita: un tema che peraltro riprende tratti del primo, seguito (18’45”) da un controsoggetto. Il primo tema si ripresenta a 18’52” per chiudersi su un nuovo unisono che introduce (19’13”) una sezione occupata da una fuga, il cui soggetto è presentato anche in inversione. Il tempo rallenta e a 20’03” (Più lento) abbiamo un assolo del primo violino chiuso da una classica cadenza virtuosistica. A 20’51” ecco 7 battute introduttive e poi riappare il tema principale, immancabilmente variato sia nel soggetto che nel controsoggetto. Un crescendo, con ritorno del dialogo soli-tutti, ci porta (21’43”, Meno mosso) ad una sezione che ripropone, sempre in nuove forme, i motivi del Rondo. A 22’34” (Più mosso) ecco un sottofondo di terzine di violini secondi e viole che supportano la ricomparsa del tema principale, che viene sottoposto ad un vorticoso sviluppo, che poi va progressivamente calmandosi fino a... fermarsi completamente su una battuta di pausa. Adesso (23’43”, Grazioso) abbiamo un intermezzo tutto in pizzicato, dal sapore di una polka leziosa e ...settecentesca, chiuso (24’08”) col ritorno all’arco per un accordo che dà il la alla stretta conclusiva (Vivace, poi Vivacissimo e ancora Stringendo) basata sul tema principale ostinatamente reiterato. A 24’36” ecco un ritorno (per 12 battute) al Tempo I per un’ultima leziosa comparsa nei soli del tema del Rondò. Cui seguono (24’42”) le 4 battute di esilarante chiusura.
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Un brano davvero geniale e ispirato, che Kochanovsky ci porge con la consueta compostezza di gesto, mentre - inutile aggiungerlo - l’Orchestra, capitanata da Luca Santaniello, ci mette... il resto. Grande successo per tutti.

08 ottobre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 2

Dopo aver fatto il suo esordio con laVerdi in primavera (concerti in streaming) e in estate (apertura e chiusura del ciclo dei 9 concerti in presenza) Krzysztof Urbański torna sul podio dell’Auditorium per questo secondo appuntamento della nuova stagione. Che presenta un programma incentrato sulla Quarta di Ciajkovski, uno dei tanti cavalli-di-battaglia dell’Orchestra, oltre che uno dei titoli più inflazionati di tutta la storia della musica.

A far da antipasto al piatto-forte è una piccola composizione di un compatriota del Direttore, quel Vitold Lutoslawski del quale ascoltiamo la breve Little Suite, del 1950, composta per piccolo ensemble e poi rivisitata per un organico più ampio. Siamo ancora nel periodo neoclassico e folk del compositore, che anni dopo (tramontato lo spauracchio della censura di stampo sovietico che aleggiava anche sui satelliti di oltre-cortina) si sentirà libero di volgersi al serialismo ed anche alla musica aleatoria.

Viceversa qui si tratta, sull'esempio della suite barocca, di una sequenza di (4 in questo caso) danze in diversi tempi e ritmi, prese dalla tradizione popolare polacca, in particolare dalla zona di Machów, nella provincia di Rzeszów, ai confini con l’Ukraina:

1. Fujarka (Il piffero).

2. Hurra Polka (La polka).

3. Piosenka (Il canto).

4. Taniec (La danza).

Si tratta di deliziosi quadretti, poco più di 10 minuti di musica, che si lascia davvero ascoltare con piacere. Tuttavia la struttura dei brani mostra, ad un più attento esame, una certa complessità e rigore costruttivo. Rimando quindi per qualche ulteriore dettaglio alle note in appendice al post.

Urbański - che ha già registrato il brano con la Elbphilharmonie - ce ne ha fatto apprezzare tutta la freschezza e la brillantezza. Sugli scudi in particolare Ilaria Ronchi, protagonista con l’ottavino del primo brano della Suite.
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Ecco quindi il clou della serata, quella Quarta di Ciajkovski che tante volte è risuonata in Auditorium sotto la bacchetta di altrettanti Direttori.

Urbański l’ha diretta, come sua consuetudine, a memoria e ne ha messo in evidenza ogni dettaglio, con pieno rispetto dell’agogica (mai sconfinamenti indebiti o gigionerie assortite, solo un uso discreto del rubato) e con grande cura alle dinamiche, facendo emergere, a fianco delle grandi perorazioni dei fiati (ottoni in particolare) gli squarci più intimistici ed espressivi (negli archi soprattutto).

Per lui un autentico trionfo e devo dire che più lo si ascolta più ci si rende conto di essere di fronte ad un (quasi) giovane che farà molto parlare di sè.

É proprio fresca-fresca la sospirata notizia della rimozione del contingentamento dei posti nei teatri: ultimo passo per il ritorno - si spera definitivo - alla completa normalità.
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Note sulla Little Suite

1. Fujarka. Allegretto, 3/8, SOL maggiore e LAb maggiore.

La struttura generale è costituita da tre sezioni (A-B-A’) più una breve coda.

La sezione A è a sua volta composta da tre elementi di base, P>, A1 e A2, indicati in figura, dove P rappresenta il richiamo - la sequenza della triade di SOL maggiore - del Piffero (l’ottavino solista) e P> il richiamo protratto:

La struttura della sezione A è la seguente: P> | A1-A1 | P> | A1-A1 | P> | A2 | P> | A2 | P>. Qui la comparsa del richiamo P> è sempre accompagnata dal rullo del tamburino senza corde. Le ripetizioni di A1 e A2 si differenziano sottilmente nell’accompagnamento, che si irrobustisce fra una esposizione e la successiva.

La sezione B - dove l’ottavino tace salvo per due singole battute - vira a LAb maggiore e si caratterizza soprattutto per il ritmo molto più marcato. É costituita da tre parti, subito ripetute, più una breve coda.

La prima parte presenta un ostinato pedale degli archi sul quale si inseriscono interventi dei fiati (corni e fagotti). Nella seconda parte emerge un intervento impertinente (a) delle trombe, chiuso dalla discesa sulla triade MIb-DO-LAb. Nella terza parte il flauto riprende questa figurazione e la sviluppa con una melodia (b) prettamente diatonica. La ripetizione, come accaduto nella sezione A, non varia la melodia ma potenzia l’accompagnamento. La coda è costituita da sette reiterazioni (a canone) della cellula a’ che riconducono la tonalità al SOL, ribadito tre volte dall’ottavino.

Qui ritorna la sezione A variata (A’) che ha una struttura semplificata e mutata rispetto all’originale, in particolare per quanto riguarda l’elemento A2, che ora assume quattro forme ridotte:

Abbiamo quindi A’ così strutturato: A1-A1 | P> | P>’ | A2’ | P> | P>’ | A2” | P>’ | A2’’’ | P>’ | A2’’’’ | P>’. P>’ si differenzia dall’originale perchè scala la triade di RE maggiore (qui settima di dominante del SOL) ed è esposto dalla tromba in luogo dell’ottavino. Variata anche la presenza del tamburino. Da notare come l’armonizzazione si vada progressivamente sporcando per poi rasserenarsi nella breve coda di sei battute che si chiude con un’ultima comparsa nel solo ottavino del richiamo P>
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2. Hurra polka. Vivace, 3/4 (2/4, 4/4), RE maggiore.

Ciò che colpisce a prima vista in questo brano è il tempo con il quale attacca: 3/4! Davvero strano, visto che la Polka è una danza in tempo pari. Tuttavia ciascuno dei tre tempi della battuta può essere interpretato come una battuta in 2/8... Poi, lungo il percorso del brano troveremo anche passaggi in 2/4 (o 4/8) e 4/4 (8/8).

La tonalità di RE maggiore resta costante, e l’unico tema viene continuamente reiterato, in tutto (a) o in parte (a”) e da strumenti diversi.

La struttura generale è assai semplice: due sezioni (soggetto e controsoggetto) ripetute, più una coda. Il soggetto si compone del tema a alternato da tre battute di puro ritmo (r) come segue: r - a - r - a - r - a - r.

Il controsoggetto, prevalentemente in 2/4, riprende la parte a” del tema, ed ha questa struttura: a”-a”-a” | 1(2) | a”-a”-a” | 1(3) | a”-a”-a” | 1(4) | a”-a”-a”,

dove 1(2), 1(3) e 1(4) rappresentano battute singole di collegamento in 2, 3 e 4 quarti.

Dopo che le due sezioni sono state ripetute (anche qui arricchendone la strumentazione) abbiamo una coda che sviluppa una progressione di a” raggiungendo un culmine di suono a piena orchestra, e poi chiude con il clarinetto che riprende, separandole, le parti a’ e a” del tema.
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3. Piosenka. Andante moto sostenuto, 3/4, SOL maggiore, DO maggiore, FA maggiore, SIb maggiore.

Presenta un unico tema, composto da soggetto (a) e controsoggetto (b) che vengono reiterati su tonalità diverse, muovendo sul circolo delle quinte, dal SOL iniziale al SIb.

Attacca il primo clarinetto in SOL maggiore con a (che chiude sul LA, dominante di RE) e b, che dal RE torna al SOL. Il flauto lo segue riproponendo b ma dal SOL e chiudendo quindi sul DO maggiore.

Ora è l’oboe, partendo dal DO, ad iniziare un nuovo ciclo, presentando a (chiuso sul RE, dominante di SOL) e b, che dal SOL torna al DO. Il flauto lo segue riproponendo b ma dal DO e chiudendo quindi sul FA maggiore.

Adesso un terzo ciclo è iniziato dai violini primi che, partendo dal FA, presentano a (chiuso sul SOL, dominante di DO) e b, che dal DO torna al FA. L’armonizzazione però si intorbida sempre più (come già accaduto verso la fine del primo brano). I violini ripropongono b ma dal FA e chiudono quindi su un irriconoscibile SIb maggiore, affogato in un mare di... rumore.

Il brano si chiude con una coda che dal SIb torna, su spezzoni di b, al FA, e da qui a RE minore e infine alla triade di SOL maggiore esalata da archi e clarinetto.
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4. Taniec. Allegro molto, Poco più largo, Tempo I, Presto, 2/4 (3/4, 1/2), FA maggiore, LA maggiore, MI minore, DO minore, FA maggiore.

La macro-struttura del brano è così schematizzabile: A - A | B - B | C - C - C - C’ | A - A | coda. 

É la tromba ad attaccare il tema A in FA maggiore; dopo 4 battute di ponte sono i violini primi a ripetere A. Altre 4 battute di ponte ed arriva l’esposizione negli oboi del tema B, in LA maggiore, chiuso da 4 battute di cadenza. Il tema B viene ripetuto col da-capo

Ora, Poco più largo, eccoci al tema C, in MI minore, di mozartiana ascendenza, esposto dai violini in quarta corda e poi ripreso dall’oboe, quindi da flauti, corni e tromba mentre l’accompagnamento si ispessisce assai, culminando in un tutti dell’orchestra su veloci semicrome dei legni. Adesso il primo corno e il primo violino espongono una variante di C (C’) in DO minore, costituita dal solo segmento c’, ripetuto dal clarinetto con troncatura dell’ultima battuta.

Torna quindi (Tempo I e FA maggiore) il tema A, esposto dagli oboi e poi ripreso - dopo il ponte di 4 battute - da tromba e trombone. Ora il ponte si sdoppia in 8 battute, nel fragore delle crome ribattute di tutta l’orchestra: è il passaggio verso il Presto conclusivo, tempo 1/2, 26 battute travolgenti con un’iniziale scalata di crome, alcuni strappi e una finale discesa (su spezzoni di a’) verso lo schianto in FA maggiore.

11 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°16

 

Dopo il Bach de laBarocca all’Epifania, è di ritorno Zhang Xian per aprire il 2014 della stagione principale, salendo sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione particolare, dove si mescolano e si alternano il moderno, il moderno-ma-non-troppo-quasi-tradizionale e il tradizionale-che-di-più-non-si-può: infatti nella prima parte abbiamo un Bartók che si può ormai definire classico, messo in sandwich fra due contemporanei, Witold  Lutosławski (che ci ha lasciato da una ventina d’anni) e Rolf Martinsson (oggi non ancora sessantenne) di cui ascoltiamo composizioni che impegnano la sola sezione degli archi; chiude il concerto Dvořák con la sua composizione più inflazionata.  

Di Lutosławski viene eseguita una cosa abbastanza bizzarra, come molta, diciamolo pure, della musica del compositore polacco, sempre preso dalla fregola delle sperimentazioni più cervellotiche e poi regolarmente insoddisfatto dei risultati: la Uwertura Smyczkova (Ouverture per archi) del 1949, un periodo particolare per l’evoluzione estetica del compositore, oltre che per i rivolgimenti politici che si producevano in una Polonia ormai rinchiusa inesorabilmente nella gabbia del comunismo reale (la Conferenza di Łagów importava proprio in quei giorni dall’Unione Sovietica i princìpi e i dettami, in fatto di arte, della premiata ditta Stalin-Ždanov). 

Meglio e più di ogni altra critica, sono le parole stesse dell’Autore a gettare una luce piuttosto… obliqua su questa composizione:

Il lavoro è assolutamente poco pratico, dato che richiede un sacco di fatica, ma dura solo cinque minuti. Per la gran parte, dopo averlo ascoltato, l’uditorio rimane completamente disorientato, a dispetto del lungo accordo finale che incorona il brano. Evidentemente la gente si aspetta che duri di più. Quando Wisłocki lo diresse alla Filarmonica di Varsavia, alla fine non ci fu il benché minimo applauso. Lui non sapeva che fare, così fece alzare l’orchestra e se ne andò via…

Mah… giudicate voi: che qualcuno si aspetti che duri di più è tutto da vedere, a meno di non sostituire il verbo aspettarsi con il più verosimile paventare (smile!)
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Si, perché anche se uno si prende la briga di scoprire cosa c’è dietro (o dentro) quest’opera non è che per questo il fascino del brano aumenti sostanzialmente di livello. Possiamo scoprire o verificare che vi vengono impiegate delle scale ottofoniche, inventate con speciali criteri. Una è costituita da due tetracordi (s-t-t) separati da un semitono: LA-SIb-DO-RE/RE#-MI-FA#-SOL#; una seconda dalla successione cromatica da DO a SOL (DO-DO#-RE-RE#-MI-FA-FA#-SOL). Si vedano questi due esempi di temi costruiti con tali scale:


Possiamo anche contare (qualcuno l’ha fatto, non certo io…) ivl numero delle ricorrenze di un frammento, esposto proprio all’inizio dalle viole come SI-LA#-SOL#-LA, che torna 132 volte (in 188 battute!) a viso aperto o variamente camuffato (ad esempio partendo da altezze diverse oppure travestendosi a mezzo inversione):


Quanto ai cambi di tempo, questi li ho personalmente contati: sono 99, mediamente uno ogni 2 battute! Possiamo anche stupirci (!?) nel sentire i temi riproposti nella ripresa in ordine inverso rispetto all’esposizione e anche restare a bocca aperta davanti all’accordo finale, una politonalità di due triadi di RE e SOL maggiore, FA# nei primi violini, RE nei secondi, RE e LA nelle viole, RE e SI nei violoncelli e SOL grave nei contrabbassi:
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Mah, pur con tutta la buona volontà, è davvero difficile entusiasmarsi per questo pezzo (che nemmeno il grande Alex Ross si degna di citare!) e ai ragazzi de laVerdi si può soltanto riconoscere l’abnegazione con cui hanno affrontato la prova. A loro e alla Xian comunque è andata meglio rispetto ai colleghi della Filarmonica di Varsavia e al povero Wisłocki: sì, perchè loro almeno qualche applauso (di cortesia?) l’hanno comunque portato a casa (smile!)
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Béla Bartók compose la sua Tanc-szvit (Suite di sei danze) nell’agosto 1923, in occasione delle celebrazioni del mezzo secolo di vita di Budapest (vita del nome, intendo, non certo delle chiese e dei ponti della città). Celebrazioni  che compresero, a novembre di quell’anno, un concerto di musiche (nuove e non) di sapore magiaro. Le nuove composizioni furono commissionate, oltre che a Bartók, a Zoltan Kodály (lo Psalmus hungaricus) e al direttore del concerto, Ernő Dohnányi (la Festival Overture). Inoltre si eseguirono le due marce di Racoczy (di Liszt e Berlioz).

Il nome dell’opera deriva evidentemente dalle classiche Suite barocche, dove però all’Allemanda, Corrente, Sarabanda e Giga si sostituiscono danze popolari (peraltro inventate dall’Autore, sia pure a simiglianza di quelle originali) di diversa provenienza: Europa orientale (Ungheria, Slovacchia, Romania) e mondo arabo (prima e dopo la Grande Guerra Bartók aveva visitato l’Africa settentrionale proprio per acquisire impressioni di prima mano sulla musica araba).
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La Suite consta di sei brani, con un Ritornello (di ascendenza magiara) che si presenta, in varianti diverse, al termine del primo, secondo e quarto brano e all’interno del Finale:


1. Moderato. Percorso da temi derivati da musica araba primitiva, come questo esposto dal fagotto subito dopo il rullo di apertura del tamburo:


Invece i ritmi, scanditi tipicamente dagli archi, ricordano abbastanza quelli dell’Europa orientale.

Il tema arabeggiante passa dai fagotti al corno inglese, poi anche all’oboe e infine al clarinetto. Una sezione centrale (Vivo) impegna l’intera orchestra, poi un progressivo allargamento del tempo ed una rarefazione dei suoni conducono alla prima apparizione del Ritornello (protagonisti violini e clarinetto) che chiude languidamente questa danza d’apertura.

2. Allegro molto. Un unico motivo di sapore chiaramente magiaro (continui intervalli di terza minore) che poi sfocia in pesanti glissando, proprio come a ricordare il tema del Mandarino (miracoloso) che Bartók aveva composto per pianoforte anni addietro, ma che stava orchestrando proprio nello stesso periodo di composizione della Suite:


Dopo diverse ripetizioni di questi squarci, fa la sua seconda comparsa il Ritornello, questa volta prima nel clarinetto, poi nei violini e infine chiuso con una breve cadenza dell’oboe.

3. Allegro vivace. In forma ABACA, con un motivo – anzi un gruppo tematico - di danza di origine ungherese con cui si inseriscono spunti di danze dal piglio tipicamente romeno, come questo:

La presentazione del tema B si conclude con una sezione molto lenta, caratterizzata da un trillo sul SOL sovracuto del flauto accompagnato da arabeschi della celesta e chiuso da un glissando dell’arpa, che contrasta assai con ciò che precedeva e con il tema principale che segue. La chiusura del brano è magistralmente condotta da Bartók, che propone il primo tema Vivacissimo, poi allarga molto il tempo, e quindi, dopo una corona puntata, riprende il Vivacissimo per le due battute conclusive!

4. Molto tranquillo. È una melodia di sapore arabo, che emerge in unisono nei legni (corno inglese e clarinetto basso, all’inizio) alternandosi ad un tappeto di accordi vagamente dissonanti di archi, pianoforte e fiati (RE-DO-LA-SOL):

Questa alternanza si protrae per più volte, sempre con minore lunghezza, fino a sfociare, nelle ultime battute, nel tema del Ritornello.

5. Comodo. È la più breve delle sei danze, una specie di intermezzo prima del finale (che è la danza più lunga) costruita su un inciso dal ritmo assai spiccato, ripetuto prima dalla viole e poi dai violini a distanza di quarte (MI-LA, RE-SOL) e seguito da una cadenza sincopata dove archi e fiati dapprima si alternano per poi riunirsi in vista dell’attacco della danza conclusiva.

6. Finale, Allegro. Ricapitola i movimenti precedenti, con una struttura che prevede Introduzione (dove si riprendono temi della quinta, prima e seconda danza), Esposizione (con temi della prima, terza e seconda danza), Trio (che ricapitola le due forme del Ritornello) e Ripresa.
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Come l’Uwertura di Lutosławski, anche quest’opera non fu propriamente accolta alla prima da deliranti entusiasmi, anche a causa della mediocrità dell’esecuzione, raffazzonata con pochissime prove. Però il tempo ha finito per renderle ragione: non sarà certo un capolavoro, ma forse aveva torto Adorno a snobbarla come musica d’occasione (quante sono le musiche d’occasione che sono divenute immortali?) Insomma, l’estro (per non dire il genio) di Bartók vi si sente e come.

Nervosa e vibrante la lettura che ne ha dato la Xian, il che ha consentito ai ragazzi – percussioni in testa - di mettere in mostra tutta la loro bravura tecnica.
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Lo svedese Rolf Martinsson è un contemporaneo ammiratore di Schönberg, se è vero che gli ha dedicato ben tre versioni (predisposte in tempi diversi) dal suo A.S. in Memoriam (A.S. sono appunto le iniziali dell’inventore – o millantato tale – della dodecafonia). In realtà l’Autore è abbastanza alieno da certi gratuiti estremismi divenuti di moda nel ‘900 – anche grazie a Schönberg, e ahinoi, dico io - tanto è vero che si è ispirato, componendo la prima versione del brano nel 1999, al tonalissimo Verklärte Nacht, che quell’anno compiva giusto un secolo.

Qui ascoltiamo la seconda versione (2001) per orchestra d’archi (la prima è per ensemble di 15 archi e pianoforte e la terza del 2007 è per pianoforte solo). Beh, Lutoslawski mi perdonerà, ma questo ggiovane (classe 1956) almeno nel pezzo qui in programma si fa assai più rispettare. Dimostrando anche che la tonalità – per superare la quale Schönberg, dopo una buona partenza, aveva finito per arenarsi, vedendosi costretto per… sopravvivere a inventare un sistema talebano di regole di composizione che, ai miei orecchi perlomeno, farà più danni che altro – poteva e può ancor oggi dare frutti del tutto apprezzabili.  

E non per nulla il brano di Martinsson, pur presentando diverse e frequenti modulazioni fino a sfiorare l’atonalità, ha un chiaro centro di gravitazione tonale sul SOL, e apre e chiude con accordi in minore in questa tonalità! Mirabile anche l’uso dei pianissimo e delle pause di silenzio, che impreziosiscono la parte finale del brano.

Grande successo per gli archi de laVerdi, per Xian e per l’Autore, presente per l’occasione della prima esecuzione italiana della sua opera, ulteriore indice della caratura internazionale dell'Orchestra.
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Chiude il concerto la celeberrima Sinfonia dal Nuovo Mondo, altro cavallo di battaglia de laVerdi, che ce la ripropone di frequente.

Xian si permette qualche preziosismo oltre i… righi, soprattutto nel movimento iniziale, poi cava fuori un Largo letteralmente da sogno, quindi scatena i suoi nei due conclusivi movimenti veloci. Successo strepitoso. Che mi fa tornare, chissà perché, da Lutosławski per riportarne un concetto da lui espresso nel 1965, a proposito dell’evoluzione della musica:

Finche perdurerà  una situazione che non favorisce la nascita di nuovi dettami stilistici, di nuove convenzioni artistiche, non cambierà nulla. Possiamo, comunque, restare fiduciosi che arriverà il momento in cui perfino i maestri più grandi dei tre secoli precedenti potranno condividere il destino dei loro predecessori e la loro produzione musicale lentamente comincerà a trasformarsi nei reperti musicali, oggetto di interesse dei soli specialisti. Solo in quel momento assisteremo al vero fiorire della musica scritta ogni giorno.

Bene, non sapete quanto io sia entusiasta della certezza che ho di non campare abbastanza per vivere quel momento prefigurato dal compositore polacco… (amen)