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05 maggio, 2023

laVerdi 22-23. 28

Il concerto n°28 della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano (sul podio il Direttore Residente, Andrey Boreyko) presenta un soggetto assai particolare (il mito di Edipo) esplorato da due diverse angolazioni musicali: Pizzetti e Stravinski. Lo stesso accostamento era stato proposto meno di un anno fa al Maggio, con direzione di Daniele Gatti. E così come a Firenze, anche qui il brano stravinskiano è stato proposto in forma concertante, senza le pur scarne ed essenziali scene(/costumi) previste in origine per la rappresentazione dell’oratorio.

Si apre con Ildebrando Pizzetti e i suoi Tre Preludi Sinfonici per l'Edipo Re di Sofocle, del 1903. In origine furono composti come musiche di scena (Intermezzi fra i diversi episodi, verosimilmente) ma successivamente sono quasi sempre stati eseguiti – come qui - in concerto.

Mi viene di paragonarlo, alla lontana, con lo schumanniano Ouverture, Scherzo e Finale: il primo tempo che presenta, dopo un’introduzione sulla dominante FA#, un primo tema in SI minore, assai mesto e cupo, caratterizzato da terzine ribattute; il secondo di sapore romantico, che arriva a sorpresa in MIb maggiore, ma cangiante presto al minore; quindi un ponte dalla natura ansiogena conduce alla ripresa del secondo tema, adesso direttamente in MIb minore e poi – dopo il ritorno del FA# introduttivo - del primo, ancora in SI minore, a spegnersi lentamente.

Il secondo tempo è di fatto un anomalo Scherzo in tempo ternario (tema concitato in FA# minore, di sapore quasi bruckneriano) con Trio che presenta un tema elegiaco e giocoso, nella stessa tonalità, ma in modo maggiore, poi però rimpiazzato dal ritorno – in FA maggiore – del secondo tema del primo Preludio per lasciare spazio quindi ad un mesto recitativo dell’oboe, in FA minore. Chiude il Preludio un poderoso ritorno del FA#, che reitera a sua volta il secondo tema del primo preludio e poi alterna – mahlerianamente - minore e maggiore. 

Il finale è tutto in DO, inizialmente in minore, con un lamentoso recitativo del primo violino, per poi sciogliersi in una chiusura quasi serena, in maggiore, ma con la sesta (mahleriana!) a dargli una sfumatura compassionevole.

Pare che Pizzetti non abbia lasciato alcun esplicito programma, così esegeti e musicologi hanno avanzato ipotesi più o meno plausibili, ad esempio: la desolazione di Tebe, l’arrivo di Edipo che sfida la Sfinge e – dopo la tragica rivelazione e le relative conseguenze - il vagare di Edipo, ormai morto al mondo, con la fedele Antigone.

Una possibile interpretazione della musica potrebbe venire applicandole i criteri che un tale Christian Friedrich Daniel Schubart già a fine ‘700 aveva codificato in fatto di espressività delle tonalità musicali, elencando per ciascuna delle 24 (maggiori+minori) i caratteri distintivi. [Chissà se Pizzetti si sia rifatto a quella classificazione…]

Così il SI minore di apertura evocherebbe la rassegnata attesa del popolo tebano per il realizzarsi del volere divino, rappresentato dal MIb maggiore, al quale si contrapporrebbe il Mib minore, evocante invece pessimismo e disperazione.    

Così il FA# minore dell’inizio del secondo Preludio potrebbe rappresentare risentimento e frustrazione, compensati però dal trionfante FA# maggiore e dal riposante FA maggiore, poi subito scacciati dal FA minore (oboe) che evoca profonda depressione e desiderio di morte. L’alternarsi di FA# maggiore e minore dà al brano una chiusura… enigmatica.

Infine, Il DO minore conclusivo evocherebbe desiderio d’amore, ma anche pena per un amore contrastato e infelice. Il DO maggiore delle ultime battute potrebbe applicarsi alla ingenua semplicità di Antigone, ultimo e unico, pietoso sostegno per il padre distrutto.   

Ma questi sono solo esercizi accademici; resta il fatto che si tratta di musica di alto profilo, che Boreyko e laVerdi hanno saputo trasmetterci in tutta la sua nobiltà. Meritati quindi i consensi del pubblico, tornato a livelli… pre-Rachmaninov, ecco (però con consistente presenza di giovani e giovanissimi, il che rappresenta sempre una confortante notizia).
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Il clou del concerto è l’Opera-Oratorio Oedipus Rex di Igor Stravinski, del 1926-27, poi revisionata nel 1948. Il testo originale è dello stesso Stravinski e di Jean Cocteau, che decisero però, piuttosto bizzarramente (anche se con qualche ragione…) di farlo tradurre dall’originale francese in lingua latina (traduzione affidata a Jean Daniélou, un religioso latinista, che divenne molto più tardi Cardinale…) Del testo francese rimangono soltanto i 6 interventi parlati del Narratore, qui recitati in italiano dal grande Massimiliano Finazzer Flory

Insieme al Coro maschile (diretto da Massimo Fiocchi Malaspina) che impersona il popolo di Tebe, i protagonisti dell’Oratorio sono:

Tuomas Katajala (tenore, Œdipus)
Petra Lang (mezzosoprano, Jocasta)
Robert Bork (basso-baritono, Créon)
Dongho Kim (basso, Tirésias)
Patrick Vogel (tenore, Pastore)
Bruno Taddia (basso-baritono, Messaggero)
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Avvicinarsi a quest’opera non è semplice: di primo acchito si fatica a entrare in sintonia con una narrativa musicale apparentemente astrusa, un pot-pourri di stilemi diversi e poco coerenti. Per questo conviene, ad un ascoltatore che non voglia farsi prendere alla sprovvista, esplorarne il testo (con la traduzione italiana) e poi una dotta esegesi, come questa dell’indimenticabile Sergio Sablich. A questo punto è consigliabile passare all’ascolto dell’opera con la parte narrata in italiano: qui Giancarlo Sbragia nel 1969 in un’esecuzione della RAI di Roma diretta da Claudio Abbado. Approfondimenti più strettamente musicali sono possibili esplorando questa lezione del prof. Nicola Sfredda.

Ma la più sconvolgente presentazione dell’opera è quella fatta dal sommo Lenny Bernstein ad Harvard, nell’ultima delle sue fulminanti lezioni del 1973: a 1h37’37” del video Bernstein comincia a parlare dell’Oedipus, suonando le battute introduttive in SIb minore, caratterizzate da quattro note (SIb-DO-LA-SIb), che presentano il carattere dell’opera, il suo soggetto (per ora) enigmatico (!?) 

L’enigma si svelerà di lì a poco (1h45’50”) quando Bernstein riassumerà l’essenza dell’Oedipus nel binomio: pietà e potere. Che sono anche alla base di un’opera famosa del melodramma ottocentesco: Aida! (ora si capisce perché Bernstein all’inizio della lecture ne aveva strimpellato al pianoforte uno dei ballabili.) Dove troviamo l’origine di quelle quattro note del tema che introduce l’Oratorio (siamo sulla dominante di SIb, FA minore): Aida che risponde ad Amneris (Atto II) con le parole: tu sei felice, tu sei possente… Io vivo solo per questo amor!

Certo, Bernstein era un ammiratore di Stravinski, a differenza di molti musicisti e musicologi che invece lo disprezzavano, ma insomma, qualcosa di vero o di interessante mi pare proprio che ci sia nelle sue appassionate argomentazioni…

Subito dopo questa rivelazione (1h57’12”) possiamo ascoltare l’opera dalla BSO diretta da lui, che poi chiuderà la lezione con il suo incrollabile credo nella tonalità (la poesia della terra…, come appunto titola la sua lezione).
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Bene, devo dire che – ancora una volta – laVerdi ci stupisce per coraggio di proporre opere impegnative quanto poco conosciute e capacità poi di realizzarle con risultati davvero eccellenti. Come detto, si è optato per la forma di concerto, con i sei solisti di canto alternatisi al proscenio, su due postazioni ai lati del podio. Finazzer ha invece declamato gli interventi del Narratore dall’alto della balconata, sulla sinistra. I due schermi ai lati del palco recavano uno l’originale latino cantato e l’altro la traduzione italiana: stessa scelta che viene fatta in ogni occasione, quanto mai preziosa per la comprensione da parte del pubblico.

Encomiabile la prestazione delle voci, a partire dal coro che esterna lo stato penoso del popolo di Tebe, o ne sottolinea le implorazioni al Re perché li liberi dalle piaghe che hanno colpito la città, o richiama e commenta i comportamenti dei protagonisti. I quali sono intrepretati da sei voci tutte da elogiare, fra le quali mi limito a citare quella che Tuomas Katajala (grandi ovazioni per lui) ha prestato ad Edipo; e quella della 60enne Petra Lang (13 stagioni a Bayreuth, dal 2005 al 2022, nei ruoli di Brangäne, Ortrud, Isolde, Brünnhilde, Kundry) che ha illustrato il breve ma intenso intervento di Giocasta, tutta tesa a screditare gli oracoli, che invece la inchioderanno alle sue responsabilità. 

L'Orchestra, che Boreyko ha guidato con il suo gesto secco e tagliente, ha supportato da par suo questo grande affresco, così ricco di riferimenti classici ma anche modernissimi. Insomma, una proposta che poche orchestre possono permettersi oggi: ci sono altre due repliche per approfittarne!

21 settembre, 2020

laVerdi riparte dalla Scala

Continuando, pur in tempi di virus, una tradizione ormai consolidata, laVerdi si è presentata ieri sera alla Scala per quello che solitamente è il concerto di apertura della nuova stagione (della quale in realtà per il momento si conosce soltanto la prima parte, fino a fine 2020, poi... si vedrà). 

Sul podio il Direttore Musicale Claus Peter Flor con un programma di musiche di inizio ‘900 di due autori nativi del vicino est europeo, Gustav Mahler (Jihlava, Boemia) e Leoš Janáček (Hukvaldy, Moravia):

Due musicisti che ebbero rapporti assai diversi con l’establishment musicale (e anche politico!) della mitteleuropa: Mahler pienamente integrandovisi, Janáček cercando una via artistica legata profondamente alle radici della sua terra, e propugnando (proprio con Taras Bulba) la lotta di liberazione di quella che diverrà la futura Cecoslovacchia dal dominio austro-ungarico.
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Il mio primo incontro con la Scala post-lockdown è stato abbastanza (ma anche prevedibilmente) straniante, fin dall’ingresso nel foyer e dall’accesso alla platea, rigorosamente guidati da maschere e percorsi obbligati. Anche qui il distanziamento fra gli spettatori crea del disagio psicologico, mentre appena un poco meglio vanno le cose sul palco, dove l’enorme disponibilità di spazio consente a laVerdi di schierare quasi l’organico standard. Tuttavia anche l’Orchestra intera è distanziata dal pubblico (resta deserto l’intero tetto della buca) e quindi il suono arrivato in sala non mi è sembrato per nulla ottimale.

Il concerto - tuttora le regole-Covid ne limitano la durata e vietano gli intervalli - si è aperto con il ciclo di 5 Lieder mahleriani su testi di Friedrich Rückert (per qualche breve nota rimando ad un mio vecchio post del 2012) proposti dalla quasi 58enne Petra Lang, nata come mezzosoprano ma col tempo salita di tessitura (e di fama) fino a... Brünnhilde e Isolde.   

La sequenza dei cinque canti (composti fra il 1901 e il 1902 con accompagnamento di pianoforte e successivamente orchestrati dall’Autore – salvo l’ultimo, strumentato da Max Puttmann) è lasciata alla scelta dell’interprete, dal momento che Mahler non diede precise indicazioni in proposito. La Lang ha optato per il seguente ordine, spesso proposto dalle voci femminili (fra parentesi quello cronologico di composizione):

a. Ich atmet' einen linden Duft! (2)

b. Liebst du um Schönheit (5)

c. Blicke mir nicht in die Lieder! (1)

d. Um Mitternacht (4)

e. Ich bin der Welt abhanden gekommen (3)

 
La Lang non mi è parsa propriamente al meglio della condizione: proprio nelle note più gravi, che da mezzosoprano di nascita dovrebbero esserle più congeniali, ha mostrato qualche logoramento, compensato dal mestiere e da un’apprezzabile sensibilità interpretativa. Flor ha trattenuto al massimo l’orchestra - già cameristica per volontà dell’Autore - accentuando il carattere intimistico e quasi crepuscolare di queste canzoni nella cui atmosfera Mahler sembra identificarsi in pieno. Applausi e un paio di chiamate hanno comunque gratificato l’esecuzione.
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Breve intervallo per far posto in palcoscenico a qualche sedia aggiuntiva, occupata ora dalle co-primeparti dell’Orchestra, entrate per accrescerne la potenza di fuoco di fronte alla rapsodia Taras Bulba (un esordio, per laVerdi). Trattasi in realtà di un poema sinfonico (da Gogol) in tre parti, ciascuna evocante vicende assai luttuose (con una spruzzata sentimentale): è il battagliero cosacco Taras che vede i due figli morire (uno per la verità lo fa secco proprio lui!) prima di essere a sua volta mandato arrosto dai suoi acerrimi nemici polacchi. Il patriota Janáček stravedeva per tutto ciò che sapeva di russo e così esaltò questo sanguinario condottiero come fosse un grande eroe, forse solo perchè anche lui ce l’aveva con i polacchi... (Chissà però se nel 1968 avrebbe esaltato la passeggiata in piazza SanVenceslao dei tank dell’eroico... Leonid Bulba Brezhnev!)

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Il racconto di Gogol (12 capitoli, terminato nel 1842) tratta delle imprese dei cosacchi della Seč - la comunità militare insediatasi a Zaporizzia, occupando la grande isola sul Dnepr - che nella prima metà del ‘600 si opposero alle invasioni turche e tartare e soprattutto alla dominazione polacca. In apertura del racconto Gogol ci presenta un loro condottiero, Taras, già in età matura (il più giovane dei suoi due figli ha ormai passato i 20 anni) nella propria casa nel momento in cui i due giovani (Ostap e Andrei) vi fanno ritorno avendo concluso il loro tirocinio in Accademia a Kiev. Taras non vede l’ora di aggregarli alla Seč e di portarli con sè sui campi di battaglia.  

Gogol non ci dà indicazioni geografiche precise sulla posizione della casa di Taras, ma abbiamo alcuni indizi che ci possono aiutare a localizzarla, almeno approssimativamente. Il primo ci informa che Taras, i due figli e la scorta di 10 uomini cavalcano nella steppa verso sud; poi sappiamo che - dopo un giorno e una notte passata all’addiaccio - il gruppo si trova ad attraversare un piccolo fiume, il Tatarka, affluente del Dnepr (quindi dalle parti dell’odierna Dnipro); infine, da lì impiegano quasi tre altri giorni per arrivare in vista della Seč di Zaporizzia. Da tutto ciò si può indurre che la casa di Taras fosse situata parecchio a nord della stessa Dnipro. Orbene, da quelle parti si trovano, guarda caso, luoghi assai cari a Gogol: il suo villaggio natale (Sorochyntsi) poi la cittadina di Mirgorod, che diede il nome alla collana di racconti di cui fa parte Taras, e infine Dikanka, altro teatro di storie gogoliane.

Nella mappa sottostante sono schematicamente rappresentati gli spostamenti di Taras nella narrazione dello scrittore russo:

1. Trasferimento di Taras con i due figli dalla loro casa alla Seč di Zaporizzia.

2. Restati a lungo inoperosi contro i turchi (avendo concluso un trattato di pace con il Sultano) i cosacchi di Zaporizzia, aizzati da Taras, trovano la giusta causa per muoversi finalmente alla guerra (loro attività prevalente) apprendendo delle continue soperchierie che gli occupanti polacchi (spalleggiati dai ricchi ebrei) stanno perpetrando nell’intera Ukraina. Così cominciano a risalire verso nord-ovest per liberare la loro terra, che consideravano venduta ai Polacchi con la creazione della Confederazione polacco-lituana. Dopo aver commesso atrocità di ogni genere arrivano infine presso Dubno (600 Km in linea d’aria da Zaporizzia) dove pongono l’assedio alla ricca città. Qui il giovane Andrei tradisce i suoi per amore di una bella giovane e nobile polacca conosciuta a Kiev, così non solo diserta, ma addirittura combatte contro padre e fratello, a fianco dei polacchi che cercano di rompere l’assedioÉ Taras in persona a punirlo a sangue freddo, con una pallottola in fronte. I polacchi dopo alterne vicende hanno la meglio sui cosacchi, riuscendo a far prigioniero Ostap. Invano il padre cerca di difenderlo, ma viene a sua volta ferito ed è salvato da un suo fedelissimo.

3. Mentre Ostap viene portato via dai polacchi, Taras ferito e ignaro della sorte del figlio maggiore viene ricondotto agli accampamenti della Seč di Zaporizzia, nel frattempo visitati dai nemici tartari.

4. Qui partecipa ad alcune scorribande contro i Turchi nel MarNero, ma è incapace di resistere al desiderio di conoscere il destino di Ostap. Così Taras si reca ad Uman (circa 300 Km in linea d’aria) presso un commerciante ebreo...

5. ...dal quale si fa trasportare (nascosto nel sottofondo di un carretto) fino a Varsavia (altri 600 Km in linea d’aria) dove immagina sia prigioniero il figlio. E infatti arriva giusto in tempo per assistere, mescolato alla folla, alla tortura e all’esecuzione di Ostap sulla pubblica piazza. Allora si fa avanti e grida alla folla esultante tutta la sua ira, promettendo vendetta.

6. (?) Non si sa come, ma riesce a sfuggire a linciaggio e cattura: Gogol ci racconta solo che Taras torna in Ukraina e si mette alla guida di un reggimento di cosacchi che - con altri sette, ciascuno forte di 12000 uomini - dà la caccia ovunque ai polacchi, che nella cittadina di Polonnoie sono costretti infine a capitolare e a promettere pace e libertà agli ukraini.

7. Ma Taras non accetta quella che considera un’ennesima resa e con i suoi seguaci marcia sulla Polonia, arrivando fino a Cracovia mettendo a ferro e fuoco ben 18 città e 40 chiese cattoliche.

8. I polacchi a questo punto impiegano tutte le loro forze armate e riescono a ricacciare indietro i cosacchi di Taras. Il quale - attardatosi a recuperare pipa e tabacco cadutigli dal cavallo, per non farli cadere in mano nemica! - viene catturato lungo il corso del Dnestr, presso l’attuale confine, quindi legato ad un albero e infine bruciato vivo, non prima di aver lanciato contro i nemici la sua profezia: la Russia dominerà il mondo! 

Quanto ai tempi dell’azione, Gogol ci dà solo vaghe indicazioni. Una abbastanza precisa riguarda l’assedio di Dubno, che avviene in luglio. Possiamo quindi posizionare l’inizio del racconto verso la fine di maggio (lo spostamento 2 non può durare meno di 30-40 giorni). Taras viene poi riportato a Zaporizzia (diverse settimane) dove si rimette in sesto (per almeno un mese e mezzo, racconta Gogol) prima di partire - presumibilmente quindi a fine settembre - per Uman (spostamento 4, fatto in una sola settimana, precisa Gogol!) e da qui per Varsavia (spostamento 5). Nella capitale polacca arriverà quindi non prima di novembre inoltrato. Qui abbiamo il black-out informativo, poichè Gogol non ci dà indicazioni su come e quando Taras sia tornato in Ukraina (spostamento 6?) e quanto tempo sia passato prima delle vicende di Polonnoie (ma ci sono di mezzo scorribande e battaglie contro i polacchi, quindi mesi e mesi...) Il blitz in terra polacca (Cracovia, spostamento 7) non può durare a sua volta meno di 30-40 giorni e una settimana trascorre (lo riporta Gogol, spostamento 8) prima della cattura e morte di Taras. Insomma, il tutto assomma a non meno di un anno. 

In preparazione al concerto, il Professor Fausto Malcovati, insigne russologo, ha tenuto una interessante conferenza trasmessa in rete, dove si inquadra la figura di Gogol nella storia della letteratura russa e - per le opere che ispirò - in quella della musica russa, da Musorgski a Shostakovich... e oltre.

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Orbene, da tutto questo po’po’ di avventure - ma Gogol ci infilò anche lunghe descrizioni di usi-e-costumi di quell’epoca - cosa cavò fuori il buon Janáček? Un grand-opéra di 4 ore à-la-Berlioz? Un ciclo di poemi sinfonici à-la-Smetana? No, tre movimenti di meno di 25 minuti, intitolati alla morte dei tre Bulba:

1. Il primo tratta dell’amore di Andrei per la bella nemica e della sua morte violenta.

2. Il secondo evoca i momenti della cattura di Ostap - e della successiva esecuzione.
3. Il terzo ricorda proprio la fine del condottiero, esaltandone lo spirito patriottico.

A differenza da quelli di Strauss, per dire, che impiegano sapientemente temi e motivi musicali per evocare - in modo per quanto possibile appropriato - ora le caratteristiche psicologiche e... somatiche dei personaggi, ora l’ambiente teatro delle loro avventure, questo di Janáček si ispira forse più a Liszt, cioè ad una concezione tendente, del soggetto ispiratore, a conservare solo pochi tratti salienti.
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Seguiamo la trama musicale in questa registrazione amburghese, facendoci aiutare dall’esegesi di Jaroslav Vogel, che raccolse informazioni di prima mano direttamente dalla voce dell’Autore.

Il primo movimento è incentrato sull’amore di Andrei per la bella polacca, e inizia (25”, Moderato quasi recitativo, con dolore) con un tema esposto dal corno inglese a rappresentare il desiderio del giovane per la donna amata, tema poi chiuso (54”) dall’oboe. Ora ecco (1’13”, Andante) la rocambolesca fuga di Andrei dal campo cosacco per penetrare attraverso un passaggio segreto nella chiesa cattolica della città assediata (a 1’25” si odono rintocchi di campana). A 1’39” ecco subentrare timore e apprensione che assalgono Andrei al suo ingresso nella chiesa, dove risuonano a due riprese le note di un organo sulla melopea dell’oboe; poi (2’36”, Allegro vivo) è Andrei ad affrettare il passo in cerca dell’amata. Con la quale si riunisce infine (3’30”, Adagio) accompagnato dal classico love-theme nell’oboe e poi (4’00”) nel clarinetto, tema che si sviluppa successivamente - in due ondate - con piglio sempre più incalzante (Un poco più mosso) come la passione (5’19”) che travolge i due amanti. Dopo una parentesi di calma (5’44”, Adagio e quindi Lento) appare (6’34”, Allegro) minacciosa e proterva, la figura di Taras, con il crudo inciso dei tromboni seguito dalle scosse degli archi bassi. Segue la battaglia che vede Andrei schierato contro il padre, dal quale viene raggiunto e accusato di tradimento. Andrei si sottomette, ma resta fedele (7’49”, Adagio) al suo amore anche di fronte all’estremo castigo comminatogli dal padre, che se ne va al galoppo (8’18”, Presto) lasciando il figlio morente (ultime due battute in Adagio)

Il secondo movimento ha a che fare con la morte di Ostap, ma il suo contenuto musicale è di ardua decifrazione (lo riconoscono musicologi ed esegeti, incluso lo stesso Vogel) riguardo all’attinenza con il soggetto letterario. Le prime 10 battute (8’54”, Moderato) ci presentano verosimilmente la figura del primogenito di Taras, con quattro apparizioni (in violini primi, secondi e viole) di un tema che sembra evocare una personalità austera, caratterizzata da forza di volontà e grande determinazione. Ecco (9’29”) un passaggio in Allegro che richiama evidentemente cavalcate e scontri bellici, cui segue (10’00”, tornando al Tempo I) la riapparizione (3 volte, in violini e archi bassi) del tema di Ostap. Riprende (10’28”, Vivo) la battaglia, ma subito Ostap viene sopraffatto e catturato, come testimonia (10’32”) lo schianto in orchestra. Il passaggio successivo (Moderato) è una vera e propria via-crucis, caratterizzata da una melopea di legni e archi che evoca con pesante mestizia (tema di Ostap negli archi bassi, poi nei legni) il lungo e penoso trasferimento del prigioniero da Dubno a Varsavia. Dove (12’43”, Vivo) c’è grande agitazione seguita da manifestazioni di tripudio popolare a suon di... mazurka, che scimmiotta il tema di Ostap. Il quale è portato verso il patibolo e il clarinetto in MIb ne raccoglie (13’36”) l’eroica resistenza alle torture e il disperato appello al padre. Il quale (13’54”) risponde, palesandosi alla folla dei polacchi e promettendo vendetta.

Il movimento conclusivo si apre (14’23”, Con moto) con un motivo guerresco (terzina arpeggiante e nota lunga) nei corni, che evoca la battagliera personalità di Taras. Gli esegeti non concordano sul significato di queste prime battute musicali: seguendo Vogel, immaginiamo Taras già legato all’albero e in procinto di essere bruciato, mentre ricorda il diletto figlio Ostap, accompagnato da un mesto e dolente motivo che si ripete in varie sezioni dei fiati, accompagnato da ondeggianti sestine degli archi e poi si conclude (16’07”, Maestoso) con un sereno REb maggiore. Ora sono i nemici polacchi ad inscenare (16’35”, Presto) un’irridente krakowiak, che si prende gioco del motivo di Taras. Ma ecco che l’inciso protervo del condottiero cosacco, già udito al momento di punire Andrei, si fa largo (16’57”) a sottolineare la soddisfazione di Taras che vede i suoi (17’14”) scampare alla cattura con una discesa forsennata conclusa gettandosi con i cavalli nel Dnestr. A 17’57”, Allegro, ecco ancora il motivo di Taras udito in apertura che riappare in corni e trombe con sordina e introduce un crescendo (18’26”) che porta infine alla Coda (19’00”) dove il motivo lamentoso di poco prima si trasfigura mirabilmente, chiudendo (20’08”, Maestoso) con cinque battute di enfatica introduzione al patriottico tema (20’36”, con interventi di campane e organo!) che chiude l’opera, con la morte di Taras trasformata in realtà in trasfigurazione, un’autentica beatificazione - in RE bemolle - dell’eroe tanto caro a Janáček.

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Flor qui ha tenuto tempi davvero degni di una cavalcata cosacca, credo abbia stabilito il record di durata minima del Taras. Non che la cosa debba fare scandalo, anzi... L’Orchestra ha risposto da par suo e il pubblico ha mostrato di apprezzare assai. Quindi, ecco Flor tornare sul podio quasi di corsa per un bis ancora più indiavolato (come da partitura...): l’Ouverture di Ruslan&Ljudmila di Glinka, che scatena l’entusiasmo generale.
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Ora l’appuntamento è per il 24 prossimo, con il ritorno in Auditorium, e ancora con il Mahler (smagrito pure lui!) di inizio ‘900.