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09 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°30


É il Direttore ospite Patrick Fournillier a dirigere il penultimo concerto stagionale, con un programma comprensibilmente (per lui) patriottico: Camille Saint-Saëns che incastona un desueto Gounod. Programma peraltro dalla struttura tradizionale: pezzo breve di apertura, concerto solistico e sinfonia.

Si parte quindi con la Danse macabre, un breve Poema sinfonico (come lo definisce lo stesso Autore) che Saint-Saëns derivò da un suo precedente Lied su testo di Henri Cazalis (di cui aveva musicato tre delle sette quartine) ambientato in un cimitero dove a mezzanotte spettri e fantasmi si sbizzarriscono in danze più comiche che spaventevoli, per la verità, sulle note di un violino scordato suonato dalla Morte in persona:



Il brano è sostanzialmente bitematico: dopo l’introduzione dell’arpa che scandisce la mezzanotte e del violino solista che accorda significativamente sul tritono LA-MIb (la prima corda è calante, al posto del MI naturale) ecco un primo tema agitato e macabro (esposto inizialmente dal flauto e dai primi violini) e il secondo, assai più cantabile, esposto poco dopo dal violino solista. I due temi vengono via via riproposti con sottili variazioni e vengono anche (come in uno sviluppo di forma-sonata) messi contrappuntisticamente in confronto, con l’apparizione, nella tromba, anche del Dies Irae.

Al posto della voce (protagonista del Lied originale) qui è ovviamente il primo violino che ha la parte del leone (anche Mahler nella sua Quarta evocherà la Morte che suona proprio un violino scordato) e così è Nicolai Freiherr von Dellingshausen a mettere in mostra le sue doti, trascinando l’Orchestra in un’esecuzione accolta da ovazioni.
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Ecco poi l’eclettico Roberto Prosseda arrivare per proporci il Concerto per piano pédalier di Charles Gounod.

Il pianoforte con pedaliera è un’invenzione assai antica, che apparenta lo strumento all’organo, consentendo all’esecutore di aggiungere alle 10 dita delle mani (che operano sulle corde dello strumento principale) anche i due piedi, che consentono di percuotere delle corde supplementari (tipicamente su un’estensione di due o tre ottave gravi). Usato come pianoforte consente ad un singolo esecutore di produrre un volume di suono che altrimenti richiederebbe la presenza di un secondo pianista (pianoforte a 4 mani) o anche di un secondo strumento (due pianoforti). Lo strumento è poi in grado - dal punto di vista della tecnica esecutiva - di surrogare l’organo senza richiedere sistemi (automatici o manuali, vedi i mantici) di produzione del flusso d’aria. Compositori famosi hanno scritto brani per il pedal-piano, a partire da Mozart, per passare a Schumann e su fino a Gounod, appunto, e allo stesso Saint-Saëns.

Roberto Prosseda da parecchi anni è diventato, si può dire, il profeta dello strumento, tanto da riproporne l’impiego attraverso numerosi recital e registrazioni, ma addirittura diventando protagonista attivo nello sviluppo tecnologico di questa specie di mostro che pareva ormai destinato alla totale estinzione. Dapprima valorizzando lo strumento (unico esemplare) prodotto dal vicentino Luigi Borgato, il Doppio Borgato, costituito da un pianoforte tradizionale cui è collegato (sistemato al di sotto) uno speciale pianoforte senza tasti a 37 corde (le prime tre ottave gravi, LA0-LA3, della tastiera standard) colpite da martelletti azionati direttamente dalla pedaliera. Successivamente ideando, insieme al costruttore Fratelli Pinchi, un sistema di pedaliera e registri (relativamente leggero e poco ingombrante, quindi più facilmente trasportabile) collegabile a qualunque coppia di pianoforti standard (i 37 pedali azionano delle dita meccaniche che percuotono i normali tasti del pianoforte inferiore) e con un’estensione di ben 5 ottave, impiegabili a gruppi di tre (LA0-LA3, LA1-LA4, LA2-LA5) attraverso registri che comandano la connessione pedale - dita meccaniche, consentendo anche raddoppi all’8va e alla 15ma.

Chi volesse approfondire i dettagli tecnici e storici può leggere due articoli di Prosseda, relativi al Doppio Borgato e al Pinchi. E proprio il PinchiPedalpianoSystem è stato installato in Auditorium per la bisogna, collegandolo a due strumenti Yamaha.

Bene, fatte queste pedanti premesse extra-musicali, veniamo all’oggetto specifico, intanto segnalando che su youtube è possibile apprezzare la prima esecuzione in tempi moderni del concerto, avvenuta a settembre 2011 a Forlì, dove Prosseda suonava sul Doppio Borgato, accompagnato dalla Toscanini diretta da Jan Latham Koenig: Allegro moderato, in MIb maggiore, dal piglio e dal sapore vagamente mendelssohniano, Scherzo, in SOL minore-maggiore, per la verità piuttosto blando rispetto agli stilemi tradizionali, Adagio ma non troppo, una mesta marcia funebre dalla caratteristica struttura a due sezioni in minore che ne incastonano una in maggiore (sempre DO) e infine l’Allegretto pomposo, ancora in MIb, dall’incedere davvero enfatico, ma dove il solista ha modo di esibirsi anche in qualche volata appariscente. Qui invece il primo movimento del concerto suonato da Prosseda con il nuovissimo Pinchi a Pordenone nel 2012.

Parliamoci chiaro, non si tratta certo di un capolavoro, e la sua scomparsa per più di un secolo dagli auditorium e dalle sale di registrazione non si spiega solamente con la difficoltà di reperire il complicato strumento... Rispetto alla cui resa sonora, pur dando atto al sistema Pinchi di consentire ampie varietà timbriche, resta il dubbio che un risultato apprezzabile si potrebbe ottenere eseguendo il brano a quattro mani su unica tastiera o al massimo impiegando due pianoforti per i quali trascriverlo appositamente. Ieri sera francamente la sonorità del pianoforte basso lasciava a desiderare tanto che spesso veniva coperto bellamente dall’orchestra (cui forse Fournillier ha lasciato troppa briglia sciolta).

In ogni caso la proposta di Prosseda e de laVerdi va accolta con interesse, e il pubblico di ieri ha lungamente applaudito orchestra, direttore e solista, che ha concesso ben due encore, dove effettivamente gli strumenti hanno offerto una resa migliore: Alkan e Schumann.  
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L’intervallo ha presentato alla parte del pubblico rimasta in sala un fuori-programma... logistico: lo smontaggio e successivo inabissamento nel sotterraneo sottostante al palco dei due pianoforti e della pedaliera. Il tutto avvenuto in meno di mezz’ora, e vi assicuro che è impresa non da poco.

Ha chiuso la serata la Terza Sinfonia, nella quale Saint-Saëns prevede una parte concertante per l’organo. A proposito, laVerdi ha lanciato un’iniziativa per dotare l’Auditorium di un organo in piena regola (oggi vengono usati strumenti elettronici amplificati). É quindi in corso il processo di reperimento delle risorse finanziarie che servono a raggiungere questo importante obiettivo. 

La Sinfonia è suddivisa formalmente in due sole parti, ma al suo interno in effetti è quadripartita, come nella tradizione classica. É famosa (anche) perchè vi compare un motto che richiama il Dies Irae, presentato fin dall’inizio, e poi protagonista - portato trionfalisticamente in modo maggiore! - nel finale. È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata da Franz Liszt, di cui Saint-Saëns era devotissimo e al quale dedicò la sinfonia.


Sinfonia francamente pretenziosa e piuttosto velleitaria, per la quale (per me) vale la classica definizione di interessante, ma non bella, ecco. Certo Fournillier, che la dirige a memoria, e i ragazzi, han fatto del loro meglio per farcela apparire anche bella... beh, se il bello si rapporta al fracasso del finale, allora ci siamo in pieno!

17 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 17


Programma di musiche dall’est-europeo per questa puntata della stagione de laVERDI: ed in particolare dalla Boemia  - il Centro ceco di Milano ha patrocinato la serata - con un terzetto di compositori formato da un sandwich in cui due (tardo) romantici imprigionano un (relativamente) moderno.   

L’impaginazione del concerto, di taglio assolutamente tradizionale (brillante brano di apertura + concerto solistico + sinfonia) ci fa viaggiare da Smetana (anni ’70 dell’800) a Martinů (metà del ‘900) per poi retrocedere alla fine dell’800 con Dvořák. E la circolarità del percorso non fa che sottolineare la continuità di una tradizione musicale che – invece di farsi corrompere dalle più drastiche innovazioni del ‘900 – ha saputo mantenere la propria identità, pur non chiudendosi in se stessa: se Smetana fu il pioniere della scuola nazionale boema, Dvořák e Martinů vi si mantennero fedeli pur non rinunciando – Martinů in particolar modo - a confrontarsi con tutto ciò che si muoveva nell’occidente europeo e americano.

Sul podio torna dopo anni un nipotino di Salonen, il 35enne Pietari Inkinen che in questi ultimi anni ha cercato (e trovato) fortuna assai lontano da casa (Nuova Zelanda, Australia, Giappone) e che tornerà prossimamente in Europa: guarda caso, proprio a Praga! Così deve aver cominciato l’ambientazione ceca studiando per bene i tre autori in programma qui in Auditorium. La sua impronta già si è sentita nella Moldava, affrontata con verve pari all’attenzione ai dettagli e ai mille colori della partitura più famosa del ciclo Má Vlast, aperta dai mirabili rigagnoli delle due sorgenti del fiume evocati dal duo di flauto Crepaldi-Petrella.

Un pianista boemo, Pavel Kaspar (tastiera 1) ha fatto poi coppia con il nostro Roberto Prosseda (tastiera 2) nel Concerto per due pianoforti di Martinů, del 1943: opera raramente eseguita, a dispetto della sua obiettiva bellezza, proprio perché richiede due pianisti di grande livello tecnico, date le difficoltà che presenta. E non a caso entrambi i solisti hanno suonato con lo spartito sul leggio dello strumento. Merito de laVERDI avere in repertorio questo pezzo, già eseguito nel 2011 con Wayne Marshall e la coppia Micallef-Inanga.

Kaspar e Prosseda hanno risposto alle ripetute chiamate con un bis alquanto particolare: la trascrizione per due pianoforti, opera di Debussy, del quinto dei sei Studi in forma di canone per il pedal-piano (pianoforte con pedaliera) di Robert Schumann (qui da 2’57” a 5’12”): evidente, nella scelta, lo zampino di Prosseda, che ultimamente si sta proprio interessando a quello strano tipo di pianoforte, in particolare incidendone le opere di Gounod. 

Ha chiuso la serata l’Ottava di Dvořák, una sinfonia magari un po’ pretenziosa, con momenti di eccessiva prosopopea nei due tempi esterni ma con grandi slanci lirici nei due tempi interni, dove più emerge l’autentico spirito boemo dell’opera. Inkinen anche qui ha sfoggiato sensibilità e misura, guidando un’orchestra in grande forma in tutte le sezioni, ma con gli splendidi violoncelli capeggiati da Scarpolini che si meritano una menzione particolare.

25 gennaio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.19


Ennesimo cambiamento di podio in questa strana stagione de laVerdi: il tulipano Otto Tausk (sul cui sito personale ancora figura l’appuntamento, anche se in compagnia di Shai Wosner, da qualche tempo rimpiazzato in locandina da Prosseda) viene sostituito dal casalingo Jader Bignaminia comporre quindi una coppia autarchica (ma non per questo meno apprezzabile).

Il programma è di quelli piuttosto corposi, anche se piuttosto, diciamo così… sbilanciati, con un concerto lungo più di una sinfonia (come tale era stato originariamente concepito) e una sinfonia corta come un… concerto

In un Auditorium ancora affollatissimo (buon segno…) il non ancora quarantenne Roberto Prosseda, che è un'autorità in Mendelssohn, qui ci presenta invece l’imponente Primo Concerto di Brahms

Il suo (e di Bignamini, che tiene l’orchestra su un basso profilo) è un Brahms tutto in punta di piedi (quasi… Mendelssohn, smile!) leggero e forse fin troppo contenuto, ma assolutamente pregevole. Così il successo non manca e allora Prosseda ci regala un bis col suo – indovina? - Mendelssohn.

Il quale arriva dopo l’intervallo con la Reformations-Symphonie, numerata come quinta (e ultima) della sua produzione, ma in realtà composta come seconda, in occasione della ricorrenza (1830) dei 300 anni dalla presentazione della Confessio Augustana (il documento recante la vision luterana riguardo i principii della Fede, presentato a Carlo V da sette nobili reggitori di Länder e da due Senati cittadini). 

La Sinfonia, composta da un Mendelssohn nemmeno ventenne e piuttosto retorico e pretenzioso, non trovò posto nelle cerimonie celebrative del 25 giugno, anche perché pare che l’origine ebrea dell’autore vi avesse gettato, agli occhi di molti, una luce ambigua…

Ma lo stesso Mendelssohn fu il primo a quasi ripudiarla, dopo alcune rare esecuzioni, come un maldestro e per nulla riuscito tentativo giovanile; anche l’amata sorellina pare ne fosse assai poco entusiasta; così l’opera fu per lungo tempo praticamente dimenticata. E in effetti ancor oggi non è che sia poi troppo di casa nelle sale da concerto, dove di norma si eseguono la Scozzese e l’Italiana e, caso mai, la più impegnativa Lobgesang.

A me pare che i principali difetti di quest’opera siano innanzitutto i suoi smaccati riferimenti extra-musicali, che la avvicinano ad uno spurio poema sinfonico a sfondo confessionale, e dall’altra la miriade di spunti, citazioni e scopiazzamenti di cui è infarcita. Insomma: qualcosa che si avvicina pericolosamente al classico vorrei, non posso… Si salvano i due movimenti centrali, che se non altro mostrano una certa vivezza di invenzione e sono scevri dalle pesanti incrostazioni che caratterizzano i due estremi.   
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La sinfonia è nei tradizionali 4 movimenti e rispetta (con alti e bassi) i canoni classici, sia nella disposizione dei tempi (lo Scherzo avanti all’Andante era ormai, dopo la nona, quasi una regola) che nella struttura degli stessi. La concatenazione tonale dei movimenti è abbastanza scolastica: passaggi di terza per i primi tre (RE maggiore-minore – SIb maggiore – SOL minore) e trasporto minore-maggiore per la prima parte del quarto, seguita poi da un ritorno al RE maggiore di impianto generale. L’opera presenta inoltre diversi caratteri di ciclicità (anche questa un’invenzione dell’ultimo Beethoven).

Il primo movimento si apre con una Introduzione (à la Haydn) in Andante di 41 misure, in RE maggiore-minore, con una modulazione anche a DO maggiore. Sono le viole, per prime, seguite dai violoncelli, ad intonare Il gregoriano Magnificat tertii toni, con cui molti anni addietro Mozart aveva caratterizzato il finale in DO della sua Jupiter e che molti anni più tardi anche Richard Strauss citerà, sullo stesso RE, nel suo Zarathustra (all’espisodio von der großen Sehnsucht):
Enfatiche fanfare, che anticipano il primo tema, insistono prevalentemente sui gradi di dominante, tonica e sopratonica di RE, finchè a battuta 33 e per 4 battute (e ripetendolo a battuta 38, dopo l’ultima fanfara) i violini, muovendosi per quinte parallele (primi e secondi) intonano il Dresden Amen. Una serie di accordi di ambigua interpretazione: se li riferiamo alla tonica RE (qui tonalità d’impianto) sono ottenuti con salita da dominante a sopratonica nella prima voce e da tonica a dominante (ma con quarta aumentata) nella seconda; se li riferiamo alla tonica LA, contemplano una salita da tonica a dominante (prima voce) e da sottodominante a tonica (seconda):

  
Mezzo secolo dopo, Wagner (anteponendogli l’incipit dell’Agape) lo renderà ancor più famoso nel Parsifal come motivo del Gral (ma anche Bruckner e Mahler lo infileranno in loro sinfonie).

A questo punto inizia l’Allegro con fuoco, rigorosamente in forma-sonata. E nell’Esposizione troviamo subito una chiara… reminiscenza? o proprio un plagio in piena regola? La vittima dello scippo è l’imparruccato Josephus Haydn, di cui il nostro giovin di belle speranze si appropria del motivo dell’introduzione di una delle ultime (se non proprio l’ultima) sinfonia, la 104. Per di più, nella stessa tonalità di RE minore:

Che anni dopo anche Schumann imiti Mendelssohn in questo… omaggio a Haydn (attacco della seconda sinfonia, in DO) sta solo a dimostrare come gli eredi del vecchio maestro fossero altrettanto… disinvolti che creativi!  

Il primo tema sviluppa furiosamente questo motto haydn-iano con una modulazione alla relativa FA maggiore, poi torna a casa per sfociare, dopo un fugace passaggio da FA e DO (sempre sul motto iniziale) in tonalità di LA, dove entra il secondo soggetto, che si caratterizza subito con tre poderosi accordi di LA minore e che vira momentaneamente – su una risposta delicata negli archi - anche a LA maggiore, per poi riprendere il minore, in un’atmosfera ossianica che ricorda i turbini di vento delle Ebridi o della Scozzese (rispettivamente composta e abbozzata quasi contemporaneamente alla Reformation) prima di chiudere l’Esposizione, che non prevede alcun ritornello, ma introduce direttamente lo Sviluppo.

Sviluppo ancora incentrato sul motto iniziale - presentato con accordi sempre più cupi e contrappuntato da veloci quartine di crome negli archi - e da una fugace apparizione del secondo tema che sfocia in un’autentica serie di ondate sonore in flauti e archi (anche qui paiono le folate della Terza) prima di chiudere con il ritorno ad accordi di dominante di RE. E sui quattro LA in unisono di tutta l’orchestra ecco prepararsi il teatrale ritorno (singolo, stavolta) del Dresden Amen, che a sua volta introduce la Ricapitolazione.

La quale è abbastanza breve, aprendosi con il primo tema, esposto però quasi in forma… depotenziata, insomma alleggerito (vedi le note puntate o pizzicate degli archi) e privato dello sviluppo che aveva avuto nell’Esposizione. Ecco poi subito il secondo tema, canonicamente trasposto in RE, che ci guida (comprese le sue triplette di accordi) fino al ritorno del motto iniziale nei fiati, cui gli archi fanno da scorta fino alla maestosa, enfatica e pesante reiterazione del motto che chiude su un RE in unisono di tutti gli strumenti, appena arricchito dal LA dei soli violini secondi. Poco prima i fiati avevano smaccatamente esposto una salita sulla triade di RE minore, dalla tonica alla dominante un’ottava sopra, che in un certo senso anticipa quella (ancor più estesa) in RE maggiore del Finale.

L’Allegro vivace (3/4 in SIb) è di fatto uno Scherzo con Trio. La prima sezione del motivo principale ricorda nell’incipit trocaico la seconda parte (battute 2 e 3) del motto di Haydn del primo movimento, e già con ciò insinua un vago elemento di ciclicità nell’opera:

Il tema principale si compone di due sezioni: alla prima, nei soli fiati e ripetuta, caratterizzata da una melodia per terze che scende e poi – modulando alla dominante FA - specularmente risale, ne segue una seconda (pure ripetuta) assai più ampia. Essa è costituita da un controsoggetto ancora nei fiati, cui subentrano gli archi con una progressione ascendente che porta alla riesposizione della prima sezione e poi ancora della prima metà di essa, la cui discesa si prolunga negli archi e quindi a canone anche nei fiati; quattro battute di cadenza in clarinetti e fagotti, con salita dalla dominante e ripiegamento sulla tonica chiudono lo Scherzo.

Il RE, mediante del SIb di impianto, diviene ora dominante del SOL maggiore su cui si dispiega il Trio, pure suddiviso in due sezioni: la prima (ripetuta) presenta una lunga e cullante melodia, ancora per terze, esposta dagli oboi con i flauti a trillare in una specie di idillio:


La melodia chiude sulla dominante RE. Dopo la ripetizione ecco una specie di sviluppo del Trio, con modulazione ancora a LA maggiore, da qui a minore e ancora a DO maggiore, da cui si torna al SOL per la conclusione del Trio, affidata ad una cadenza tonica-dominante negli archi. Essa porta, nei fiati, ad un brusco e abbastanza cacofonico ritorno al SIb dello Scherzo, le cui sezioni ora non vengono ripetute (come da sacre regole). Si arriva così alle quattro battute di cadenza di clarinetti e fagotti che però ora (a differenza dell’esposizione) vengono riprese dagli archi e poi anche dai fiati, che ampliano a dismisura tale cadenza, portando gradatamente ad una rarefazione del suono (crome intervallate da pause) fino al suo definitivo spegnersi in pianissimo, col pizzicato degli archi e il tappeto dei clarinetti che scendono, sempre per terze, da mediante-dominante a tonica-mediante.

Il brevissimo Andante che segue (54 sole battute in 2/4, SOL minore) è una vera e propria canzone, esposta praticamente dai soli primi violini, accompagnati dagli altri archi e da tre soli interventi dei fiati, rispettivamente di tre, cinque e sei battute. Come si vede, alla quinta battuta del tema rifà anche qui la sua comparsa il motto udito fin dal primo movimento.


Il tema si sviluppa toccando la relativa SIb maggiore, con il primo intervento di flauti e fagotti. Ancora gli archi con una divagazione che vira al MIb, per poi tornare al SOL minore. Qui i violini primi riespongono il tema e vengono contrappuntati a canone largo da flauti e fagotti (che entrano per la seconda volta).

Si noti al proposito la straordinaria rassomiglianza con un analogo passo - secondo tema, in SI minore, del movimento iniziale - della Terza Sinfonia di Ciajkovski:
Pura combinazione? Sappiamo che Ciajkovski scrisse la cosiddetta Polacca nel 1875, quindi 7 anni dopo la pubblicazione postuma della Sinfonia di Mendelssohn: che lui l’abbia potuta conoscere e ascoltare prima del 1875 non è dato sapere (la ascoltò a Parigi nel 1879, come risulta da una sua lettera al fratello); ma ciò che è certo è che il compositore russo (al contrario di tale Wagner, smile!) aveva di Mendelssohn la più alta considerazione, testimoniata dai numerosi articoli di stampa da lui vergati proprio in quegli anni. Le 4 note del tema sono le stesse usate dal compositore russo anche per aprire il suo primo Concerto per pianoforte, di pochissimo anteriore alla sinfonia.  Quindi…

Una cadenza finale che ricorda il secondo tema del movimento iniziale sfocia in SOL maggiore e prepara la tonalità con cui attacca il Finale. Il quale rappresenta probabilmente il lato peggiore di questa sinfonia. Intanto dal punto di vista della struttura, una cosa che definire bizzarra è un eufemismo: più che un tempo di sinfonia sembra una fantasia di motivi, uno più enfatico dell’altro, buttati lì quasi alla rinfusa. Vagamente possiamo distinguervi: un’Introduzione (il corale luterano) presentata in tempo lento e subito ripetuta in tempo veloce; poi l’esposizione di un’accozzaglia di motivi, proprio ammucchiati l’uno all’altro; quindi un ritorno del corale introduttivo; una specie di ripresa dei motivi precedenti, ma escluso il principale (!); infine la pesantissima perorazione del corale.

È il primo flauto ad esporre, in tempo Andante con moto (4/4), il motivo del corale luterano Ein feste Burg ist unser Gott (Una robusta fortezza è il nostro Dio):

Dopo che tutta l’orchestra (violini, contrabbassi e timpani esclusi) ne ha ripreso e sviluppato il tema, arriviamo all’Allegro vivace (6/8) dove quello stesso tema – su un tappeto giambico degli archi - si scatena nei fiati in una corsa degna di Quando passano per via gli animosi bersaglieri… dico, pare di vedere il povero Martin Luther correre con la lingua fuori (smile!)

Ma in fondo siamo ancora all’introduzione del movimento, che entra finalmente nel vivo dopo che gli strumentini hanno modulato il SOL come sottodominante di RE e lo hanno ribattuto con ostinate terzine, portandoci al RE maggiore dell’Allegro maestoso (4/4) di tutta l’orchestra. Qui l’esposizione ci presenta non meno di cinque (!) motivi, indicati nella figura con le lettere a), b), c), d) ed e):

Il primo di essi - mutuato da quello in RE minore prima della chiusa del primo movimento, e suonato a voce spiegata (quasi… sguaiata) da tutta l’orchestra - che sale dalla tonica alla mediante due ottave sopra, per poi scendere alla tonica e risalire alla sesta (un procedimento mutuato dal beethoveniano Imperatore) non verrà più ripreso nel seguito, quindi resta lì come un… cactus nel deserto (smile!) Segue il motivo b), sempre in RE maggiore e sempre a piena orchestra e subito lo incalza il c) ancora in fortissimo. Poi subentra il d), nella relativa SI minore, di chiara ispirazione bachiana, un motivo che Mendelssohn tratta ovviamente in contrappunto, poi lo espande con le note ribattute nei fiati e le crome spesso in tremolo negli archi. Si arriva così, modulando a LA maggiore, al motivo e) che nasce piuttosto sommesso nei fiati e si sviluppa poi nella sua seconda sezione, per portare dopo la sua fragorosa ripetizione ad accordi in fortissimo che conducono, su semiminime puntate e pesanti (anche qui Ciajkovski pescherà qualcosa…) ad un climax culminante in un accordo generale sulla dominante MI.

Ora subentra una specie di pausa di riflessione: prima il fagotto e i violoncelli, e poi il clarinetto ci ripropongono spezzoni del tema del corale luterano, subito raccolto dall’orchestra, tornata al RE maggiore (che non verrà più abbandonato) che ne espone una parte variata, sfociante nella ripresa del motivo b). Al quale ora segue direttamente il d) con il suo seguito di contrappunto, quasi esclusivamente negli archi.

Il tema del corale, ora dilatato a doppia ampiezza (anche se è cresciuto il tempo) torna enfaticamente nei fiati, prevalentemente tromboni, contrappuntato dal motivo d) negli archi; lo segue il motivo e) adesso esposto in fortissimo dall’intera orchestra, nelle sue due sezioni, la seconda delle quali viene ulteriormente ampliata e conduce ad un’atmosfera di preparazione alla chiusa, in cui qualcuno sente anche una spruzzatina di Weber (il passo dell’Ouverture del Freischütz che richiama l’esternazione di Max (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) alla gola del lupo:


La coda è aperta da un nuovo motivo, esposto da archi e strumentini, con gli altri fiati a suonare quelli che vengono intesi come rintocchi di campane (tonica-dominante):


Il motivo viene reiterato e poi lascia spazio ad un nuovo imperversare dello scampanìo negli ottoni, irrobustito dai rintocchi LA-RE del timpano, finchè il corale non arriva con ampiezza (ed enfasi e affettazione, di conseguenza) ulteriormente raddoppiata, a chiudere in modo francamente assai più cattolico che luterano questa controversa sinfonia.
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Devo dire che Bignamini, oltre ad aver messo a memoria tutta la (pur non sterminata) partitura, ha fatto del suo meglio per rendercela quanto più digeribile: nel movimento iniziale ha ben messo in risalto i chiaroscuri (i violini, guidati da Dellingshausen, hanno mirabilmente esalato l’Amen); nei due centrali ci ha messo la giusta liricità e in quello conclusivo ha tolto il vivace dall’Allegro della seconda apparizione del corale (così il buon Martin non ha rischiato di schiattare, smile!)

Quindi grande successo per Direttore e Orchestra e arrivederci fra sette giorni quando – si spera, con tutti questi contrattempi – tornerà Aldo Ceccato per riprendere il suo cammino in compagnia di Dvorak.