XIV

da prevosto a leone
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11 dicembre, 2024

La Forza dal vivo

Ieri sera ecco la vera prima (con tutto il rispetto per giovani e vip) della stagione scaligera 24-25.

Confermo subito il mio personale giudizio, formulato dopo la visione TV: una produzione complessivamente apprezzabile, ma come media ponderata di componenti che si posizionano su una forbice (dal dignitoso all’ottimo) abbastanza ampia. E in ogni caso, nulla di mai visto-sentito prima e di cui rimanga indelebile ricordo…

Vediamo quindi per prima la messinscena di Muscato. Il quale deve pur metterci qualcosa di suo, per giustificare onori e… parcella: il risultato è per certi versi apprezzabile, per altri un po’ meno.

Come il regista stesso aveva apertamente annunciato, il suo Konzept (cioè il messaggio che intende mandare allo spettatore per tramite del suo allestimento) verte sull’attualità più pesante che accompagna ogni nostro santo giorno: la guerra.

Il tutto presentato, va riconosciuto, con maestria ed efficacia… ma: siamo proprio sicuri che fosse questo il succo (e il messaggio) che Verdi ci ha voluto inviare con quest’opera? Farci cioè riflettere sugli orrori delle guerre (che pure erano notizia di tutti i giorni ai suoi tempi)? Il mirabile Pace, mio Dio, si riferisce a questo tipo di guerre? O non, invece, alla pace interiore che la povera Leonora implora dal Signore?

Verdi si era innamorato del Wallenstein di Schiller. Dovendo musicare un testo (di Saavedra) che tratta anche di guerra sì, ma con poche righe (a Velletri) a descriverne le fucilate e gli scontri all’arma bianca, per il resto raccontandoci la prosaica vita nella guarnigione spagnola, Verdi incaricò Piave di scrivere le scene di Velletri mutuandole dalla trilogia schilleriana. Ma quale parte del Wallenstein scelse? Proprio quella più vicina al testo spagnolo: non scene cruente di guerra, ma la prosaica vita nella guarnigione (il prologo Wallensteins Lager) dove ufficiali e soldati disquisiscono e spettegolano di generali, strategie e rivalità e dove i soldati si lasciano andare a deplorevoli azioni contro la cittadinanza che li ospita.

E per questo passaggio Verdi scelse (impiegando la traduzione di Maffei) la scena 8 di Schiller (divenuta la 14 dell’opera), quella del Cappuccino (reincarnatosi in Melitone) che rimprovera i militari per la loro ignavia e dissolutezza, mentre al fronte si muore… Le scene che chiudono l’atto terzo, Rataplan incluso, sono quasi da avanspettacolo, una parodia della guerra. Dopodichè Verdi, per preparare il terreno a… Schiller, inventò di conseguenza (e di sana pianta, rispetto a Saavedra) anche la colorita scena di Petrosilla simpaticamente guerrafondaia ad Hornachuelos. 

Muscato invece ci mostra continui riferimenti alla guerra, calati in epoche diverse: settecento, otto/novecento e… oggi. Ne vediamo già nel primo atto qualche traccia: la presenza - non prevista dal libretto, anche se didascalicamente utile - di Carlo, militare di carriera, al momento dell’uccisione del padre. Le guardie armate che puntano i loro archibugi contro potenziali intrusi attorno alla residenza dei Calatrava, e persino Leonora, nella transizione al second’atto, che si traveste da soldato per raggiungere in incognito Hornachuelos.

Dove – invece che in una locanda frequentata da qualche personaggio locale, da carrettieri e magari da pellegrini diretti al Giubileo – troviamo un vero e proprio centro di arruolamento di reclute e volontari, crocerossine incluse, tutti allegramente pronti a seguire Preziosilla in Italia per combattere l’odiato tedesco. 

A Velletri la guerra si fa più vicina a noi, prendendo le sembianze della WWI (gli archibugi diventano moschetti M91…) Un po’ di forzatura esiste (nel libretto la battaglia è solo descritta con poche righe di didascalia e in musica occupa la scena 3, poco più di 100 battute…) tuttavia fin qui l’idea di Muscato regge abbastanza bene, mescolando i riferimenti bellici con le goliardate di Hornachuelos e Velletri.

Ma dove francamente Muscato eccede è nel volerci presentare anche le guerre di oggi impiegando come scenario il Convento, dove Melitone distribuisce la sbobba ai poveracci. E dove (è proprio l’attualità più spinta) assistiamo ad una scena che ricorda odierne distruzioni e genocidi, o campi di concentramento (o magari i nostri C.A.R.A.) ben presidiati da agenti anti-sommossa equipaggiati con kalashnikov (???)

Insomma, a me pare che la centralità della guerra che caratterizza la messinscena di Muscato sia magari accattivante, ma anche sovrabbondante. Il regista ha – come accade spesso e volentieri – creato il suo Konzept prendendo, del soggetto, una parte per il tutto. Come isolare una tessera di un mosaico e ingigantirla a scapito di altre che vengono così penalizzate. Non leggiamo in ogni studio sulla Forza che si tratta di un unicum nella produzione verdiana, proprio dal punto di vista della poliedricità della forma e dei contenuti? Dove troviamo dramma, tragedia, lutti e omicidi tutti interni ad un ambiente famigliare (i Calatrava e Alvaro) e dove la guerra rappresenta poco più di un pittoresco accessorio.

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Dal punto di vista tecnico, l’idea, ormai diventata quasi uno standard registico, di impiegare una piattaforma girevole per agevolare la rapidità dei cambi-scena è azzeccata, proprio in ragione della struttura dell’opera, che presenta diverse occasioni in cui quell’accorgimento mostra la sua efficacia.

Apparentemente bizzarra (ma invece coerente con l’idea di mostrarci la guerra nei… secoli) la scelta di vestire protagonisti e masse con costumi da emporio di trovarobe: dalle parrucche settecentesche alle uniformi ottocentesche agli odierni kalashnikov.  

Scene più o meno appropriate ai diversi ambienti, con vasto impiego di cartapesta e flora finta. E, a proposito di foglie, quelle che alla fine spuntano rigogliose da un tronco rinsecchito ad accompagnare la Verklärung di Alvaro, vengono direttamente da… Tannhäuser!

Luci (e oscurità…) ben dosate. Movimenti di masse e singoli che vanno da staticità tipo tableau-vivant ai caotici assembramenti. Il regista ci mostra talvolta in scena personaggi che non vi dovrebbero essere: la cosa ha ora aspetti positivamente didascalici (Carlo presente all’uccisione del padre, in modo che sia più facilmente riconoscibile quando lo si incontra per la prima volta a Hornachuelos) o francamente stucchevoli (FraMelitone che compare clandestinamente qua e là senza ragioni particolari, come ad esempio nel terz’atto, ben prima delle scene schilleriane).

Altro dettaglio di dubbia efficacia, a proposito della morte di Calatrava: la sfortunata accidentalità dell’episodio (che di fatto scagiona il povero Alvaro da ogni accusa di omicidio) viene smentita dal gesto del giovane indio che, invece di gettare la pistola a terra e lontano, va a depositarla con forza sul tavolino a fianco del quale si trova il Marchese: qui come minimo, vostro onore, si tratta di omicidio preterintenzionale!

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Chailly, l’Orchestra e il Coro di Malazzi hanno il merito principale di innalzare decisamente la media dei voti per questa produzione. Il Direttore rende alla perfezione tutte le sfaccettature che fanno, giova ripeterlo, di questa partitura davvero un pilastro di tutta l’opera di Verdi. Già la mirabile esecuzione della Sinfonia anticipa tutte le meraviglie che si scopriranno nelle successive tre ore!

Orchestra in stato di grazia, in tutte le sezioni come nei singoli: Il clarinetto di Meloni e il violino della Marzadori sono solo le punte di un iceberg di eccellenza.

Il Coro ormai si supera ad ogni nuova prova: per compattezza, accenti e – non da ultimo e grazie al regista – presenza scenica.

Le voci? Qui, come per la regìa, note più… mixed, ecco: dall’eccellenza all’onesta e dignitosa prestazione.

Top-down, quindi: Tézier mattatore della serata. Il suo Carlo si presta solo ad elogi: voce senza sbavature in tutta la gamma, baldanza (Pereda) cameratismo (con Alvaro) e poi odio cieco e insensato, fino alla finale (tardiva e… ipocrita?) richiesta di perdono. Davvero una prestazione superlativa.

Netrebko (ancora qualche buh dalla seconda galleria?) ormai non fa più notizia, tale e tanta è la sua eccellenza (ormai di antica data) nel puro canto, ma anche (e questa cresce ad ogni nuova prova) nell’interpretazione.   

Jagde ha una gran voce, passante e corposa (il timbro però non è proprio pulitissimo…) assai appropriata per il personaggio così combattuto e disperato di Alvaro. Forse gli manca qualcosa nell’espressione, quel quid che emozioni l’ascoltatore. Per curiosità cito un piccolissimo particolare, che ieri si è ripetuto dopo la prima del 7. Nella lunga scena con Carlo del terz’atto, Alvaro deve eseguire per due volte (sempre sul verso Vi stringo *** al cuor mio) un gruppetto (*** sta per FA-MI-RE#-MI) che invece Jagde semplifica in RE#-MI. Più avanti invece canterà altri gruppetti in modo canonico, dal che si deve dedurre che la cosa non sia dovuta a casualità, ma a preciso approccio interpretativo.

Berzhanskaya è una scatenata Preziosilla, forse portata ad andare fin troppo sopra le righe, ma la voce c’è e come, coniugata con la giusta verve che si addice al personaggio.

Vinogradov ha un vocione fin troppo cavernoso (ricorda antichi bassi… orientali) e mi pare gli manchi qualcosa della pietas che dovrebbe caratterizzare il Padre Guardiano.

Bosi e Romano hanno eseguito con dignità e onore i loro compiti, come Trabuco e Melitone.

Rahal, Beggi, Li e Hyseni (Curra, Calatrava, Alcade e Chirurgo) su un onorevole massimo sindacale, ecco.

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Pubblico entusiasta e parecchi minuti di applausi per tutti, Tézier, Netrebko e Chailly in testa.

07 dicembre, 2024

SantAmbrogio in TV

Aforistiche note a caldo.  

Anfitrioni: Carlucci recita regolarmente le stesse frasi, buone per tutti i titoli, da 10 anni. Vespa fa panegirici alla Rai come da clausola del suo contratto milionario.  

Orchestra, coro e rispettivi Direttori da lode.

Cast di livello grazie a Tezier e (un filo sotto) a Netrebko (qualche buh?) e (due fili sotto) a Jagde. 

Berzhanskaya e Vinogradov appena accettabili.
Meglio di loro Bosi e Romano.

Regia pretenziosa e… guerrafondaia: militari, guardie e poliziotti ovunque, inclusi Hornachuelos e il convento! L’uccisione di Calatrava non è accidentale, ma omicidio preterintenzionale! Melitone prezzemolo: fa anche gli straordinari…

Insomma: una produzione dignitosa ma non epocale. Di più fra qualche giorno.


18 settembre, 2024

Chailly e i Gurre alla Scala

Ieri sera la Scala - affollata, ma non proprio esaurita - ha ospitato il terzo ed ultimo dei concerti dedicati da Riccardo Chailly alla riproposta dei monumentali Gurre-Lieder di Arnold Schönberg (di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita) che non risuonavano nel teatro da più di 10 lustri (Mehta, 1972 e 73). Da parte sua, Chailly ci ha lasciato una pregevole registrazione dell’opera, datata 1990 a Berlino.

Per l’occasione, al Coro della Scala (Alberto Malazzi) si è aggiunto quello – altrettanto prestigioso – della Radio Bavarese (Peter Dijkstra).

Le voci protagoniste erano Andreas Schager (Re Waldemar) e Camilla Nylund (Tove), affiancati da Okka von der Damerau (Waldtaube), Michael Volle (Bauer e Sprecher) e Norbert Ernst (Klaus Narr). Come si vede, un cast davvero di prim’ordine.
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È lo Schönberg che transita dal tardo-tardo-romanticismo (1900, stesura originaria della composizione) verso l’atonalità (1911, completamento della strumentazione).

Il soggetto, tripartito, basato su poemi del danese Jens Peter Jacobsen, presenta, dopo un’introduzione strumentale, un primo ciclo di 9 Lieder (regolarmente alternati per la voce maschile di Re Waldemar e quella femminile della piccola Tove, di cui il Re è follemente invaghito) che sembrano seguire il modello della grande scena d’amore Tristan-Isolde, e si chiudono con presentimenti di morte.

Dopo un nuovo interludio, ecco l’esplosione del dramma: una colomba (Waldtaube) annuncia – nel 10° Lied - la morte violenta di Tove per mano della gelosa regina Helwig.

La seconda parte, relativamente breve, consta di un unico Lied cantato da Re Waldemar, che impreca contro Dio per il tremendo dolore che gli è stato inflitto con la morte dell’amata.

La terza parte (La folle caccia) ha un sapore misterioso, onirico e (salvo un siparietto buffo) parecchio truce, per poi sfociare in un finale ottimistico. Waldemar (Lied 1) richiama dalla tomba i suoi guerrieri, per marciare su Gurre. Un Contadino (Lied 2) si prepara al peggio, paventando distruzioni da parte di quelle orde. I Guerrieri di Waldemar (Lied 3) si preparano alla caccia selvaggia. Re Waldemar (Lied 4) crede di vedere la povera Tove in ogni angolo: bosco, lago, stelle e nuvole. È il suo autentico delirio d’amore.

Klaus, il buffone (Lied 5) ricorda a sua volta il passato e si augura che nel giorno del giudizio il Creatore lo chiami lassù…  Re Waldemar (Lied 6) sfida ancora Dio a tenerlo separato dalla sua Tove: non accetterà che lei finisca in Paradiso, e lui all’Inferno! Al levar del giorno i guerrieri di Waldemar (Lied 7) si preparano a tornare nelle tombe.

Un lungo interludio evoca ora la folle caccia del vento estivo. Tutta la natura ne è sconvolta, come ci descrive il Recitante (Lied 8). Poi il giorno si fa largo, e i fiori tornano ad aprirsi!

La chiusura è riservata al Coro misto (Lied 9) e al suo inno al sole.     
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Schager e Nylund – non a caso apprezzati Tristan e Isolde nelle recenti recite della Handlung wagneriana sulla verde collina – hanno dato vita ad una prima parte assai coinvolgente, ricca di pathos, in piena integrazione spirituale (ed erotica, va detto…) con la natura circostante, romanticamente amica, complice e protettrice dei loro impulsi amorosi.

Molto efficace il Lied della von der Damerau, che ha drammaticamente evocato la devastante atmosfera seguita alla scoperta della morte di Tove.

Con lei ha sciorinato tutte le sue eccellenti qualità vocali ed espressive il grande Michael Volle, altrettanto convincente come Singer che come Sprecher. Norbert Ernst ha messo la sua chiara voce tenorile al servizio dello stralunato buffone Klaus.

Impeccabili i cori della Scala e della Radio bavarese, che hanno suggellato, nella terza parte, una prestazione complessivamente memorabile, grazie all'Orchestra e a Chailly, che ha guidato tutti con l’autorità e l’autorevolezza che ne contraddistinguono la consuetudine con questo repertorio.

Esito a dir poco trionfale!

05 aprile, 2024

Una rondine fa primavera alla Scala

Felice davvero il ritorno al Piermarini - dopo 30 anni - de La rondine, accolta con gran calore da un pubblico abbastanza folto e partecipe: un meritato riconoscimento per quest’opera troppo a lungo snobbata e guardata con sufficienza, ma da qualche anno tornata alla ribalta di molti teatri, italiani e non.

Riccardo Chailly non ha voluto smentire la fama di venditore-di-primizie (riguardo i contenuti di questa produzione) potendo avvalersi in prima assoluta della nuova edizione critica (ancora fresca di stampa) di Ditlev Rindom (per Ricordi, tornato così a prevalere per questo titolo sullo storico rivale Sonzogno…) Si tratta di questioni (solo apparentemente?) di discussione fra addetti-ai-lavori, ma che in realtà testimoniano della serietà dell’approccio del responsabile musicale di questa proposta scaligera.

Giusto per citare un dettaglio che differenzia ciò che si è visto e sentito ieri da quanto si ascolta nelle diverse registrazioni disponibili, citerò la seconda strofa dell’aria di Doretta (Prunier, Atto I) che non si trova nell’edizione relativa alla prima di Montecarlo (1917): dunque, il poeta ha raccontato del rifiuto della piccola Doretta alle avances del RE (che le promette ricchezze ed onori!) e qui la storia termina, nelle tradizionali esecuzioni. Nella versione presentata ieri (antecedente alla prima monegasca) Prunier canta una seconda strofa, dove è un umile vicino di casa di Doretta a chiederla in sposa, promettendole un futuro di moglie e madre, ma ottenendo la stessa risposta negativa: così come la ricchezza, neanche la prospettiva del tranquillo focolare domestico basta a dare la felicità! Insieme alla successiva riesposizione di Magda (Doretta si innamora perdutamente dello studente che l’ha baciata) è proprio il distillato quasi nichilista del soggetto dell’opera: Magda non trova la felicità né nel lusso/ricchezza/status, né poi nella prosaica prospettiva della famiglia tradizionale, seguita all’ubriacatura presa al Bal Bullier!

Altre differenze di qualche rilievo riguardano il second’atto: una variante all’apertura e l’aggiunta di interventi di vari avventori dopo l’arrivo di Rambaldo. Nel terz’atto spicca l’assenza dell’invito di Prunier a Magda perchè torni a Parigi da Rambaldo, il che ribalta totalmente la situazione: laddove quell’invito lasciava Magda addolorata (quanto male mi fai a dir così), la sua assenza, dopo la presa d’atto di Prunier della felicità della donna, la porta a dire quanto bene mi fai a dir così! Infine cambia l’ultima esternazione di Ruggero: Guarda un tramonto ardente, dal sapore squisitamente romantico, al posto di Ma come puoi lasciarmi, carico di crudo risentimento.
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La dedizione del Direttore si è poi materializzata nella concertazione dell’opera, che ci ha restituito tutta la brillantezza, la leggerezza e il disincanto che pervadono questa controversa partitura: la vacuità dello scenario del primo atto, lo strabiliante sincretismo fra walzer e ritmi moderni che imperversa nel second’atto e la finale, cinica presa d’atto del totale fallimento delle velleità romantiche dei protagonisti.

Orchestra e coro - di Malazzi - sempre splendidamente all’altezza del compito, e una compagnia di canto di buon livello hanno garantito il pieno successo all’impresa. Sul quale avanzo personalmente solo qualche ombra per la regìa, come chiarirò più sotto.

Mariangela Sicilia è stata una pregevole Magda: bella voce penetrante ed espressiva e acuti svettanti. Sulla presenza scenica sono certo che abbia rispettato il volere della regista (…)

Rosalia Cid è stata una Lisette simpaticamente efficace: al suo ruolo la concezione registica ha fatto solo favori, ecco.

Matteo Lippi ha sfoggiato una voce penetrante con qualche ombra nella parte bassa della tessitura: il suo Ruggero ne è comunque uscito in modo più che apprezzabile.

Giovanni Sala manca di qualche tacca al volume e alla proiezione della voce. Per farsi perdonare ha fatto di petto (invece del prescritto falsetto) il DO del terz’atto (…fuori del mondo). Anche a lui la regìa ha permesso di mettere in mostra qualità attoriali (da avanspettacolo?) interessanti.

Pietro Spagnoli ha onorevolmente interpretato il disincantato Rambaldo, che forse ha una parte meno impegnativa di tante altre dei comprimari, tutti lodevolmente all’altezza.
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L’allestimento di Irina Brook - che si avvale di scene e costumi di Patrick Kinmonth e luci di Marco Filibeck (un team ben collaudato nel Matrimonio segreto del 2022) cui si aggiunge la coreografia (second’atto) di Paul Pui Vo Lee – mi è parso eccessivamente sbilanciato sul Kitsch. Ma del resto la 62enne regista aveva confessato (sul programma di sala) di essere cresciuta fin da giovane a pane-e-musical, e questo forse l’ha portata a creare (come minimo nei primi due atti) un’ambientazione proprio da operetta (chissà come l’avrebbe presa Puccini…)

Fra la dimora di Magda e il Bal Bullier dovrebbe pur esserci qualche differenza (aristocrazia, pur frivola, vs sbracature goderecce): invece anche chez-Magda si scade in avanspettacolo, per quanto innocente e soprattutto è proprio la presentazione scenica della protagonista a lasciare perplessi. La vediamo subito in atteggiamenti che scimmiottano… Lisette (!?) Da Bullier poi si comporta come se stesse prendendosi gioco del povero Ruggero, da consumata femme-fatale invece che da timida ragazza per bene. Difficile così spiegarsi come di punto in bianco in lei nasca l’amore romantico…

La trovata della Brook (che ha almeno una quarantina di precedenti) consiste nel mostrare in scena la stessa regista (che lei fa impersonare dalla docente dell’Accademia Anna Olkhovayaa preparare lo spettacolo ancor prima che entri Chailly… e poi si trasforma – second’atto -  in controfigura della protagonista, poi – terz’atto – persino in immobile sirenetta che poi si anima e impersona per un attimo la madre di Ruggero… Sì, è vero che l’opera presenta tratti di teatro-nel teatro, ma mi pare che qui si sia un po’ esagerato con la meta-teatralità, ecco.
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In conclusione, al netto di queste (mie personalissime) riserve sulla messinscena, mi pare trattarsi di un’altra proposta di ottimo livello, che il pubblico alla fine ha mostrato di gradire assai. Punte di consenso per la Sicilia, Lippi e, ovviamente, Chailly. Nessun danno per la Brook… meglio così!

01 aprile, 2024

La rondine torna al tetto della Scala

Milano dà inizio alle celebrazioni per il centenario della morte di Giacomo Puccini (29 novembre) riproponendo, dopo 30 annila sua opera forse meno amata (o più trascurata e snobbata dalla critica e dai teatri, quindi semi-sconosciuta al vasto pubblico): La rondine. Dal 4 aprile (sciopero a quanto pare scongiurato...)

Paradossalmente, opera incompresa per primo dal suo stesso Autore! E ancor prima di musicarla! Quando arricciò il naso di fronte all’allettante proposta viennese (1913) di comporre un’operetta (à-la-Lehár) per suggerire in cambio una commedia (genere considerato più serio?) Poi (1914) accettando (ma poi modificandolo di suo, in combutta con Giuseppe Adami) un soggetto che è un minestrone a base di Traviata, Fledermaus e Bohème, con ampie annaffiate in 3/4 di Rosenkavalier! Come si può facilmente dedurre da questa liofilizzata descrizione del plot (versione originale del 1917):

I. Parigi. Ricevimento a casa di Magda de Civry, una bella (e ricca) mantenuta dal facoltoso banchiere Rambaldo Fernandez. Magda ha al suo servizio Lisette, ragazza vulcanica e disinibita, che se la fa con il cantautore Prunier, ospite abituale di quella lussuosa dimora. Magda canta un suo ricordo di gioventù, quando ebbe una fugace relazione sentimentale nata (e subito conclusa) nel locale Chez Bullier, noto (e un po’ equivoco) ritrovo di giovani in cerca di avventure. Giunge, raccomandato dal padre, amico di Rambaldo, Ruggero Lastouc, giovane provinciale ansioso di fare esperienze nella Ville Lumière. Tutti gli consigliano di rompere il ghiaccio recandosi proprio da Bullier. Lì vanno anche, ignari gli uni dell’altra, Lisette-Prunier e Magda (abbigliata da modesta ragazza e quasi irriconoscibile) che sogna di ripetere quella lontana esperienza.  

II. Serata da Bullier. Ruggero se ne sta timidamente in disparte. Arriva Magda che lo vede ma è subito assediata da un nugolo di giovani, per liberarsi dei quali inventa di avere lì un appuntamento con qualcuno che la sta aspettando. Viene indirizzata da Ruggero, che la ospita al suo tavolo. Walzer a più non posso, con intrusioni di ritmi moderni, suggellano la romantica ubriacatura della strana-coppia: l’amore ormai è deflagrato. Nel frattempo sono arrivati Lisette e Prunier: lei crede di riconoscere la padrona e si preoccupa; lui la convince che si sbaglia, ma fa un cenno d’intesa a Magda; così i quattro si riuniscono e brindano all’amore. Arriva lì sorprendentemente anche Rambaldo: Ruggero viene allontanato mentre il protettore cerca di convincere la protetta a tornare all’ovile, perdonandole l’innocente scappatella. Lei invece gli annuncia la sua decisione di licenziarsi, ormai decisa a vivere fino in fondo il suo folle amore con Ruggero. Rambaldo signorilmente le augura di non pentirsene.

III. Villetta in Costa Azzurra, tre mesi dopo. Magda e Ruggero vivono il loro travolgente amore, ma qualche nube appare all’orizzonte: il denaro scarseggia e Ruggero comincia a pensare borghesemente ad una vita normale (famiglia e figli): ignorando il passato di Magda, ha già chiesto alla madre il consenso a sposarla. Lei comincia a preoccuparsi e proprio in quel momento arrivano Lisette e Prunier che cercano di convincerla a chiudere la romantica ma effimera avventura con Ruggero per tornare a Parigi, dove c’è chi l’aspetta, disposto a perdonarla. Magda cerca di resistere e li congeda. Ruggero torna esultante dall’ufficio postale con la missiva materna che reca l’approvazione al matrimonio… a patto che la sposa sia una ragazza per bene! Lei gli rivela la verità: per lui può essere solo un’amante, mai una moglie! Ruggero si dispera, giura di voler ignorare il suo passato, ma Magda è ormai decisa e lo invita a tornare alla sua casa paterna, lasciandolo lì, distrutto e singhiozzante come un bambino cui hanno tolto il giocattolo preferito, mentre lei esce mestamente, sorretta da Lisette.
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Completata la composizione nel 1916 e rappresentata (con discreto successo) l’opera a Montecarlo (1917, in piena WWI) Puccini deve preparare la prima rappresentazione (1920, preceduta da un test a Palermo) presso gli esigenti sponsor viennesi, che poco avevano gradito le libertà che lui e Adami si erano presi sul soggetto concordato. Nasce così la seconda versione dell’opera, con mutamenti non da poco: Prunier che da tenore viene declassato (o promosso?) a baritono; nel primo atto Ruggero guadagna una seconda aria (Parigi è la città dei desideri) tramite riciclaggio di una romanza (Morire) composta in precedenza. Il finale viene sostanzialmente modificato (vedi tabella più sotto). Ma già all’indomani delle rappresentazioni di Vienna Puccini è all’opera per nuovi interventi e predispone una terza versione (1921).

Tanto per cominciare, revoca le precedenti scelte riguardo a Prunier (che risale a tenore) e a Ruggero (che riperde l’aria del primo atto). Dopodichè ricambia ancora radicalmente il finale, trasformandolo in un tragico scenario verista (vedi qui sotto).  

Si noti infine come le tre versioni, così distanti drammaturgicamente e tali da dare nientemeno che diversi sapori all’intera opera, siano supportate praticamente dalle stesse note (!)  

Le tre versioni dell’Atto III (passaggi principali)

Versione 1 (1917)
Versione 2 (1920)
Versione 3 (1921)

 

Piccola villa in Costa Azzurra. 
Ruggero e Magda vivono felici, ma a corto di denaro.

 

 
Tre venditrici di articoli di moda restano a bocca asciutta: non ci sono soldi.

 

Ruggero chiede a Magda di sposarlo e di seguirlo nella sua casa natale. 
Lei si preoccupa, indecisa se rivelargli il suo passato.

 

 
Ruggero dona a Magda un anello di fidanzamento.
 

 

Ruggero si reca alla posta: attende la lettera della madre con il consenso al suo matrimonio.

 

Arrivano Prunier e Lisette per incontrare Magda.

 

Prunier manifesta dubbi sulla felicità di Magda, così lontana da Parigi. Lei lo smentisce.
 
Prunier cerca di convincere Magda a tornare a Parigi.

 

Prunier spiega a Magda che Rambaldo la aspetta a Parigi per riprendere la loro relazione. Lei rifiuta, ma i suoi dubbi restano.
Prunier e Lisette cercano di convincere Magda ad abbandonare Ruggero e il suo sogno d’amore.
Arriva Rambaldo con una borsa di gioielli e denaro per riportare Magda a Parigi.

 

Ruggero torna dalla posta con la lettera della madre di approvazione al suo matrimonio.
Ruggero torna dalla posta con un telegramma anonimo che lo avverte del passato di Magda.

 

Magda legge la lettera, dove viene immaginata come una giovane pura e casta, futura moglie fedele e madre premurosa.
 

 

Magda rivela a Ruggero il suo passato: lei può solo essergli amante e non moglie!
Ruggero trasmette a Magda la sua gioia ed esce per preparare il matrimonio.  
Ruggero scopre la borsa di Rambaldo, maledice Magda e fugge, disperato.

 

Ruggero è pronto a ignorare tutto pur di averla con sé, ma Magda è irremovibile: lei non vuole rovinarlo; lui, disperato, tornerà alla sua casa e lei, disillusa, al suo passato.
Prunier convince Magda a tornare a Parigi da Rambaldo. Lei lascia per Ruggero l’anello e un biglietto d’addio. Poi si avvia con Prunier.
Magda si dispera a sua volta e Lisette cerca invano di consolarla.

[? Magda si getta in mare ?]


Come si vede, è il finale dell’opera ad aver dato a Puccini le maggiori preoccupazioni e infiniti grattacapi e ripensamenti. E sono proprio le figure dei due protagonisti a subire radicali mutazioni.

Prendiamo Magda. Per lei l’amore romantico (di per sé effimero, salvo che per eccezioni tipo Tristan&Isolde, dove peraltro non si realizza in terra…) si è ridotto ad un fugace incontro giovanile e poi ad una quasi auto-forzata imposizione (Ruggero agendo poco più che da fuco) null’altro… Nella prima stesura dell’opera la sua sincerità riguardo il sacrificio di se stessa per non rovinare Ruggero appare come una foglia di fico con la quale nascondere la vergogna derivatale dalla constatazione dell’insostenibilità dell’idilliaco rapporto con il compagno. Le ristrettezze economiche e il di lui richiamo della foresta al matrimonio borghese avevano ormai convinto Magda (magari il suo subconscio) di tale fallimento. La vera spiegazione del suo addio a Ruggero è di natura squisitamente razionale (quindi proprio anti-romantica!): agire pragmaticamente per il meno-peggio, per entrambi.

La seconda versione mortifica ancor più, se possibile, la sua figura, in quanto la decisione di lasciare Ruggero è praticamente presa su imposizione di Prunier, che quasi la costringe a scrivere il biglietto d’addio e la trascina via, verso Parigi.

Nella terza versione la sua figura si riduce ulteriormente a quella di oggetto potenzialmente ri-acquistabile con il denaro (Rambaldo) o proprio per questo disprezzabile come naturalmente impuro (Ruggero).

Quanto a Ruggero: dapprima fa la figura del povero Athanaël, redentore di donne perdute (!) Poi viene letteralmente estromesso dalla chiusura dell’opera: immaginiamolo tornare a casa tutto euforico per l’imminente matrimonio e trovare ad attenderlo il biglietto d’addio di Magda (!!) Nell’ultima versione poi fa proprio la figura del povero pirla, uno che scambia una prostituta d’alto bordo per Maria Goretti (!!!)
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Insomma, un soggetto piuttosto bizzarro (e per di più zeppo di circostanze assai poco plausibili o di coincidenze più che sospette o gratuite…) che lo stesso Puccini faticò a metabolizzare, come testimoniano i diversi interventi fatti su libretto e partitura. Il che spiega lo scarso successo del lavoro, che solo di recente comincia a vedere un certo interesse a parte dei teatri d’opera. Ma non solo, perché  c’è anche chi addirittura considera La rondine come un capolavoro, da mettere sullo stesso piano di Tosca, Butterfly, Bohème, … e fra questi c’è anche qualcuno che sta in un remoto porto del Pacifico, Guayaquile si riunisce per ascoltare la presentazione dell’opera e guardare il video della produzione del MET del 2009: prima versione, con Alagna (con l’aria dalla seconda versione), Gheorghiu, Oropesa, Brenciu, Ramey e Armiliato sul podio.

A questo punto a noi non resta che chiederci cosa ci propinerà Chailly, che ha il vezzo di riesumare reperti mai uditi prima. Questa volta gli viene in aiuto Ricordi, che ha appena predisposto una sua nuova edizione critica dell’opera, dopo il fortunato ritrovamento dell’autografo originale negli archivi Puccini di Torre del Lago). Trattandosi di un documento anteriore addirittura al materiale impiegato per la prima di Montecarlo, contiene dettagli finora rimasti ignoti, come il Direttore spiega in questa intervista alla brava e simpatica Elisabetta Fava. Staremo a vedere e sentire…

Intanto, chi vuol ascoltare la terza versione (1921) il cui finale è oggetto di orchestrazione aliena (Lorenzo Ferrero) di passaggi che Puccini lasciò solo in spartito voce-pianoforte, può scegliere su youtube fra Torino (1994), Washington o Zagabria. (Quanto alla seconda versione, molti critici - Budden in testa - concordano trattarsi solo di un momentaneo cedimento di Puccini ai committenti austriaci, in vista della prima viennese del 1920.)

Appuntamento quindi a dopo la visione live.

10 dicembre, 2023

Un DonCarlo d’antan

Oggi pomeriggio un'affollatissima Scala ha ospitato la prima (per gli abbonati) di un vecchio DonCarlo (non scaligero): quello del venerato HvK degli anni’80 (!)

Per carità, questo potrebbe anche essere un complimento (quindi riprendere Abbado-Ponnelle del 1968 sarebbe stato altrettanto plausibile): sempre meglio di qualche ardita attualizzazione che trasponga Filippo II in Juan Carlos I, Don Carlo in Felipe VI, Rodrigo in Carles Puidgemont e l’Inquisitore in Santiago Abascal!

Insomma: siamo proprio nella Spagna del 1560, come ci ricordano anche gli appropriati costumi della Squarciapino, e quindi niente armi automatiche, smartphone e lunghi cappottoni in pelle made-in-DDRE del resto, un testo dove un ragazzo ingenuo di 15 anni chiama madre una sbarbata di soli tre mesi più matura (!) che a sua volta lo chiama figlio, st-riderebbe assai con ambientazioni anche di un solo secolo posteriori…

Quanto al lato cosiddetto attoriale dell’interpretazione, trattandosi di attori che conoscono la loro parte come le loro tasche, mi pare che il regista abbia pensato bene (o male, visti i risultati?) di fidarsi di loro, piuttosto che imporgli posture, atteggiamenti e moine assortite, magari non condivise.

Quindi mi sento di dire: accontentiamoci di questo prudente (pavido?) e conservativo allestimento. 
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Questa musica, in fin dei conti, si fruisce con mente e cuore (e udito, va da sé) più che con la vista. Ebbene, ciò che le mie orecchie hanno udito oggi mi porta a dare un generale voto di ampia sufficienza (ben lontana da un 30cumLaude) che ora cercherò di declinare in maggior dettaglio. Adottando un approccio top-down (dal generale al particolare): quindi partendo dalla concertazione e dal suo responsabile per poi scendere agli interpreti.

Chailly ha – per me – tenuto un approccio (quello che Verdi chiamava la tinta dell’opera) assai cupo e tempi (eccessivamente?) sostenuti. Una direzione che alla prima non era stata unanimemente condivisa, mentre oggi devo dire che ha ricevuto solo consensi. Ma che è del tutto coerente con l’approccio registico, che nulla ha concesso all’esteriorità, come testimonia la soppressione (imposta - sono parole dello stesso Chailly - da Pasqual) dei ballabili de La Pérégrina. Insomma, qui sul francese esprit de finesse ha prevalso l’ispano-italico (e un po’ teutonico) esprit de géometrie!

Il coro di Alberto Malazzi non si smentisce mai e anche oggi ha saputo esprimere al massimo tutte le sue potenzialità, sia nei passaggi più cupi (il mortorio iniziale) che in quelli più sfacciatamente estroversi (Atocha) o drammatici (il popolo del terzo e quarto atto).

La coppia di bassi. Un Pertusi gigantesco (la tachipirina evidentemente ha fatto miracoli…) ha messo in ombra (purtroppo per lui) il malcapitato Jongmin Park, subentrato in extremis all’indisposto Anger a sostenere, oltre che quella iniziale del Frate, anche la parte impervia dell’Inquisitore. Il basso coreano ha messo in mostra un gran vocione, ma il suo Inquisitore ha fatto paura come la farebbe un orco affamato, non un Cardinale del Sant’Uffizio!  

La coppia degli sfortunati amanti. Netrebko sontuosa, come sempre, nella voce, un po’ meno nella recitazione (ma non è colpa dei registi, è una sua perdonabile attitudine). Forse fin troppo musicalmente cattiva con la rivale, quasi una Eboli-2-la-vendetta! Ma dopo le Vanità gli applausi son durati un paio di minuti… Meli tutto l’opposto: fin troppo lezioso e remissivo, nemmeno ad Atocha ha tirato fuori le p… (dicasi gli acuti, che il passare degli anni gli divengono sempre più vietati).

La coppia di outsider. Garanča superlativa (per me, nel complesso, la migliore). E non solo per le due perle (Velo e Don) ma sempre, in particolare nel duetto con Meli. Bene Salsi, ma forse non perfettamente a suo agio in una parte più romantica che truce (dove va a nozze...)

Su livelli standard tutti/e gli/le altri/e.

In definitiva, un’inaugurazione assolutamente dignitosa, ma non certo indimenticabile, della quale si continuerà a parlare più che altro per via della provvidenziale presenza (il 7 dicembre) del protagonista fuori-scena: il convitato di pietra Marco Vizzardelli! 

Applausi a scena aperta dopo le arie principali; alla fine applausi e ovazioni per tutti (compreso Pasqual, intrufolatosi furbescamente in mezzo agli altri, così in pochi l’avranno riconosciuto…) con qualche schiamazzo dai loggioni che ha lasciato del tutto indifferente la Digos (!)