Ieri
sera ecco la vera prima (con tutto il rispetto per giovani e vip)
della stagione scaligera 24-25.
Confermo subito il mio personale giudizio, formulato dopo la visione TV: una produzione complessivamente apprezzabile, ma come media ponderata di componenti che si posizionano su una forbice (dal dignitoso all’ottimo) abbastanza ampia. E in ogni caso, nulla di mai visto-sentito prima e di cui rimanga indelebile ricordo…
Vediamo quindi per prima la messinscena di Muscato. Il quale deve pur metterci qualcosa di suo, per giustificare onori e… parcella: il risultato è per certi versi apprezzabile, per altri un po’ meno.
Come il regista stesso aveva apertamente annunciato, il suo Konzept (cioè il messaggio che intende mandare allo spettatore per tramite del suo allestimento) verte sull’attualità più pesante che accompagna ogni nostro santo giorno: la guerra.
Il tutto presentato, va riconosciuto, con maestria ed efficacia… ma: siamo proprio sicuri che fosse questo il succo (e il messaggio) che Verdi ci ha voluto inviare con quest’opera? Farci cioè riflettere sugli orrori delle guerre (che pure erano notizia di tutti i giorni ai suoi tempi)? Il mirabile Pace, mio Dio, si riferisce a questo tipo di guerre? O non, invece, alla pace interiore che la povera Leonora implora dal Signore?
Verdi si era innamorato del Wallenstein di Schiller. Dovendo musicare un testo (di Saavedra) che tratta anche di guerra sì, ma con poche righe (a Velletri) a descriverne le fucilate e gli scontri all’arma bianca, per il resto raccontandoci la prosaica vita nella guarnigione spagnola, Verdi incaricò Piave di scrivere le scene di Velletri mutuandole dalla trilogia schilleriana. Ma quale parte del Wallenstein scelse? Proprio quella più vicina al testo spagnolo: non scene cruente di guerra, ma la prosaica vita nella guarnigione (il prologo Wallensteins Lager) dove ufficiali e soldati disquisiscono e spettegolano di generali, strategie e rivalità e dove i soldati si lasciano andare a deplorevoli azioni contro la cittadinanza che li ospita.
E per questo passaggio Verdi scelse (impiegando la traduzione di Maffei) la scena 8 di Schiller (divenuta la 14 dell’opera), quella del Cappuccino (reincarnatosi in Melitone) che rimprovera i militari per la loro ignavia e dissolutezza, mentre al fronte si muore… Le scene che chiudono l’atto terzo, Rataplan incluso, sono quasi da avanspettacolo, una parodia della guerra. Dopodichè Verdi, per preparare il terreno a… Schiller, inventò di conseguenza (e di sana pianta, rispetto a Saavedra) anche la colorita scena di Petrosilla simpaticamente guerrafondaia ad Hornachuelos.
Muscato invece ci mostra continui riferimenti alla guerra, calati in epoche diverse: settecento, otto/novecento e… oggi. Ne vediamo già nel primo atto qualche traccia: la presenza - non prevista dal libretto, anche se didascalicamente utile - di Carlo, militare di carriera, al momento dell’uccisione del padre. Le guardie armate che puntano i loro archibugi contro potenziali intrusi attorno alla residenza dei Calatrava, e persino Leonora, nella transizione al second’atto, che si traveste da soldato per raggiungere in incognito Hornachuelos.
Dove – invece che in una locanda frequentata da qualche personaggio locale, da carrettieri e magari da pellegrini diretti al Giubileo – troviamo un vero e proprio centro di arruolamento di reclute e volontari, crocerossine incluse, tutti allegramente pronti a seguire Preziosilla in Italia per combattere l’odiato tedesco.
A Velletri la guerra si fa più vicina a noi, prendendo le sembianze della WWI (gli archibugi diventano moschetti M91…) Un po’ di forzatura esiste (nel libretto la battaglia è solo descritta con poche righe di didascalia e in musica occupa la scena 3, poco più di 100 battute…) tuttavia fin qui l’idea di Muscato regge abbastanza bene, mescolando i riferimenti bellici con le goliardate di Hornachuelos e Velletri.
Ma dove francamente Muscato eccede è nel volerci presentare anche le guerre di oggi impiegando come scenario il Convento, dove Melitone distribuisce la sbobba ai poveracci. E dove (è proprio l’attualità più spinta) assistiamo ad una scena che ricorda odierne distruzioni e genocidi, o campi di concentramento (o magari i nostri C.A.R.A.) ben presidiati da agenti anti-sommossa equipaggiati con kalashnikov (???)
Insomma, a me pare che la centralità della guerra che caratterizza la messinscena di Muscato sia magari accattivante, ma anche sovrabbondante. Il regista ha – come accade spesso e volentieri – creato il suo Konzept prendendo, del soggetto, una parte per il tutto. Come isolare una tessera di un mosaico e ingigantirla a scapito di altre che vengono così penalizzate. Non leggiamo in ogni studio sulla Forza che si tratta di un unicum nella produzione verdiana, proprio dal punto di vista della poliedricità della forma e dei contenuti? Dove troviamo dramma, tragedia, lutti e omicidi tutti interni ad un ambiente famigliare (i Calatrava e Alvaro) e dove la guerra rappresenta poco più di un pittoresco accessorio.
Apparentemente bizzarra (ma invece coerente con l’idea di mostrarci la guerra nei… secoli) la scelta di vestire protagonisti e masse con costumi da emporio di trovarobe: dalle parrucche settecentesche alle uniformi ottocentesche agli odierni kalashnikov.
Scene più o meno appropriate ai diversi ambienti, con vasto impiego di cartapesta e flora finta. E, a proposito di foglie, quelle che alla fine spuntano rigogliose da un tronco rinsecchito ad accompagnare la Verklärung di Alvaro, vengono direttamente da… Tannhäuser!
Luci (e oscurità…) ben dosate. Movimenti di masse e singoli che vanno da staticità tipo tableau-vivant ai caotici assembramenti. Il regista ci mostra talvolta in scena personaggi che non vi dovrebbero essere: la cosa ha ora aspetti positivamente didascalici (Carlo presente all’uccisione del padre, in modo che sia più facilmente riconoscibile quando lo si incontra per la prima volta a Hornachuelos) o francamente stucchevoli (FraMelitone che compare clandestinamente qua e là senza ragioni particolari, come ad esempio nel terz’atto, ben prima delle scene schilleriane).
Altro dettaglio di dubbia efficacia, a proposito della morte di Calatrava: la sfortunata accidentalità dell’episodio (che di fatto scagiona il povero Alvaro da ogni accusa di omicidio) viene smentita dal gesto del giovane indio che, invece di gettare la pistola a terra e lontano, va a depositarla con forza sul tavolino a fianco del quale si trova il Marchese: qui come minimo, vostro onore, si tratta di omicidio preterintenzionale!
Orchestra in stato di grazia, in tutte le sezioni come nei singoli: Il clarinetto di Meloni e il violino della Marzadori sono solo le punte di un iceberg di eccellenza.
Il Coro ormai si supera ad ogni nuova prova: per compattezza, accenti e – non da ultimo e grazie al regista – presenza scenica.
Le voci? Qui, come per la regìa, note più… mixed, ecco: dall’eccellenza all’onesta e dignitosa prestazione.
Top-down, quindi: Tézier mattatore della serata. Il suo Carlo si presta solo ad elogi: voce senza sbavature in tutta la gamma, baldanza (Pereda) cameratismo (con Alvaro) e poi odio cieco e insensato, fino alla finale (tardiva e… ipocrita?) richiesta di perdono. Davvero una prestazione superlativa.
Netrebko (ancora qualche buh dalla seconda galleria?) ormai non fa più notizia, tale e tanta è la sua eccellenza (ormai di antica data) nel puro canto, ma anche (e questa cresce ad ogni nuova prova) nell’interpretazione.
Jagde ha una gran voce, passante e corposa (il timbro però non è proprio pulitissimo…) assai appropriata per il personaggio così combattuto e disperato di Alvaro. Forse gli manca qualcosa nell’espressione, quel quid che emozioni l’ascoltatore. Per curiosità cito un piccolissimo particolare, che ieri si è ripetuto dopo la prima del 7. Nella lunga scena con Carlo del terz’atto, Alvaro deve eseguire per due volte (sempre sul verso Vi stringo *** al cuor mio) un gruppetto (*** sta per FA-MI-RE#-MI) che invece Jagde semplifica in RE#-MI. Più avanti invece canterà altri gruppetti in modo canonico, dal che si deve dedurre che la cosa non sia dovuta a casualità, ma a preciso approccio interpretativo.
Berzhanskaya è una scatenata Preziosilla, forse portata ad andare fin troppo sopra le righe, ma la voce c’è e come, coniugata con la giusta verve che si addice al personaggio.
Vinogradov ha un vocione fin troppo cavernoso (ricorda antichi bassi… orientali) e mi pare gli manchi qualcosa della pietas che dovrebbe caratterizzare il Padre Guardiano.
Bosi e Romano hanno eseguito con dignità e onore i loro compiti, come Trabuco e Melitone.
Rahal, Beggi, Li e Hyseni (Curra, Calatrava, Alcade e Chirurgo) su un onorevole massimo sindacale, ecco.
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