XIV

da prevosto a leone
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01 ottobre, 2016

La Scala si fa un bel giro di vite

 

La Scala sta ospitando una delle opere più affascinanti di Benjamin Britten: The turn of the screw, arrivata ieri alla quinta delle sette rappresentazioni. Come personalmente io vedo i tratti fondamentali dell’opera, anche in relazione al racconto ispiratore di James, ho già avuto modo di esprimerlo anni fa, in occasione di un allestimento veneziano, e a quel commento rimando le falangi (?!) dei curiosi.

Parto dalla prima scena del second’atto (occupata dall’incontro fra i due fantasmi e chiusa dalla sconfortata confessione dell’Istitutrice) che ha il suo culmine nella famosa esternazione di Quint (poi di Jessel e quindi di entrambi): The ceremony of innocence is drowned:
   

Non viene per nulla da James, ma è un verso preso di peso da una poesia di William Butler Yeats del 1919 (The second coming, Il Secondo Avvento) scritta subito dopo la Grande Guerra e la Rivoluzione d’Ottobre, che erano stati eventi di inaudita ferocia (il primo) e di violenta sovversione (il secondo):

William Butler Yeats - 1919
Turning and turning in the widening gyre 
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all convictions, while the worst
Are full of passionate intensity.

Girando e girando nella spirale che si allarga
il falco non può udire il falconiere;
le cose cadono a pezzi; il centro non può reggere;
pura anarchia dilaga sul mondo,
l’onda intorbidata di sangue dilaga, e ovunque     
il rito dell’innocenza viene sommerso;
nei migliori manca ogni fede, mentre i peggiori
sono colmi di fervente ardore.

Yeats ci vedeva il prevalere dei peggiori istinti bestiali (oggi si incarnano nell’ISIS, per dire) sui sani principii (l’innocenza) che dovrebbero governare le civiltà umane. Nel libretto della Piper il concetto (evidentemente condiviso e magari suggerito da quell’anti-militarista-obiettore-di-coscienza che rispondeva al nome di Britten) viene trasportato a livello privato: i fantasmi Quint&Jessel sono i peggiori, ma dotati di spietata decisione, mentre i migliori (l’Istitutrice) hanno perso ogni fiducia nel bene (Persa nel mio labirinto, non vedo alcuna verità, su di me incombono solamente le pareti nebbiose del male, confessa la poveretta).  

Questo rapporto di sopraffazione dei cattivi sulla buona viene dal regista Kasper Holten proposto lungo l’intero corso della storia, ma smaccatamente mostrato all’inizio del second’atto, proprio nella scena in cui si proclama che il rito dell’innocenza viene sommerso. L’Istitutrice, che già di suo è preda di oniriche visioni da incubo, si ritrova ai suoi fianchi, nel letto, i due fantasmi che, appunto, la sommergono con le loro tentazioni.

È questo certamente il momento-clou della messinscena di Holten, tutta incentrata sulle turbe psichiche dell’Istitutrice, che diventa paradossalmente la cattiva della situazione, facendo prima ammattire Flora e spingendo poi Miles al suicidio: a proposito l’ultima scena mi è parsa davvero... spropositata, con il ragazzo che urla Peter Quint, you devil! proprio abbaiando contro l’Istitutrice, per poi correre a buttarsi dal secondo piano per sfracellarsi al suolo, dove verrà raccolto in una pozza di sangue dalla povera schizofrenica... Mah!

Avendo dato la priorità alla schizofrenia dell’Istitutrice, vengono fatalmente messi in secondo piano gli aspetti che verosimilmente stavano più a cuore a Britten: non è un mistero che il compositore fosse particolarmente e in primo luogo interessato a presentarci la problematica legata ai rapporti fra adulti e adolescenti (con annesse implicazioni omosessual-pedofile); problematica assai più scabrosa di quella legata alla labilità psichica di una donna chiaramente impreparata ad affrontare certi compiti e quindi facilmente suggestionabile. Insomma: nel soggetto di Piper-Britten il piccolo Miles deve essere stato vittima delle vessazioni materiali di un adulto maschio vivo (poco importa che poi torni o no da morto...) e non delle paranoie di una donnicciuola bigotta e inesperta di tutto (massimamente di sesso). Non altrimenti si spiega come Miles, assai prima dell’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato cacciato dalla scuola a causa di suoi comportamenti irriferibili, ma chiaramente spiegabili soltanto con la frequentazione di cattive compagnie... E che il rapporto Flora-Jessel, pur esso preesistente all’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato tutt’altro che limpido ce lo confermano le parole della governante quando narra dei vaneggiamenti onirici della piccola, e si convince a portarla via da quella casa.

E poi che i fantasmi (come minimo quello di Quint) non siano soltanto proiezioni della psiche alterata dell’Istitutrice ce lo conferma un indizio assai scoperto: dalla sommaria descrizione che l’Istitutrice medesima fa della persona comparsale davanti già due volte (e mai vista prima) Mrs.Grose decifra senza alcuna esitazione l’identità di Peter Quint! Dopodichè vuota il sacco su una serie di fatti e comportamenti riprovevoli di cui lei stessa era stata testimone, protagonisti Quint e Jessel.

Ecco quindi che un aspetto fondamentale del soggetto originale qui viene messo in secondo piano, poichè continuamente schermato dalla presenza ingombrante e soffocante dell’Istitutrice e della sua psiche malata: ne è chiaro esempio la scena finale del primo atto, al centro della quale vi è proprio l’Istitutrice, che pare quasi telecomandarla (o magari immaginarla in sogno) invece di sopraggiungere solo a cose fatte (gli abboccamenti fra i due fantasmi e i due fanciulli). 

Insomma, una lettura, quella del regista danese, a mio modo di vedere troppo sbilanciata sul versante freudiano, che rappresenta una parte, ma non il tutto del racconto di James e ancor meno centrale (per quanto rilevante) è nel libretto dell’opera.

Vanno apprezzate le scene, con la suddivisione dello spazio in celle di dimensioni diverse: due grandi, sovrapposte, che occupano il centro e il lato sinistro del palco, e traslano in verticale per scoprire o far scomparire un sotterraneo (ambientazione del lago) che comunica con il salone del maniero attraverso una scala a chiocciola; e tre piccole sovrapposte e fisse sul lato destro, che rappresentano le camere dei due piccoli e della governante. Così diventa efficace mostrare al pubblico anche quei personaggi (i fantasmi) che spesso devono essere invisibili agli altri protagonisti. Inoltre, la chiusura alla vista, ottenuta con pareti mobili, consente al regista di zoomare quando necessario su una sola (o alcune) delle celle.

Costumi e luci contribuiscono a creare efficacemente le ambientazioni delle diverse scene: certo, gli aspetti (pur non trascurabili, anche perchè magistralmente sottolineati dalla musica) legati alla natura (il tramonto, il lago...) vengono qui totalmente ignorati, in un bianco&nero permanente e soffocante. Qualche eccesso, come il già citato suicidio di Miles, e un manichino (? della governante?) che pende impiccato dal soffitto durante il Prologo si potevano evitare, credo.
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Ottime notizie sul fronte dei suoni, dove i magnifici 13 strumentisti della Scala, tutti di fatto dei solisti in questa partitura da camera, si meritano un encomio per l’accuratezza della loro esecuzione. Christoph Eschenbach li ha guidati con la sua proverbiale e maniacale attenzione ad ogni dettaglio: molto opportuna quindi la loro apparizione finale sul palcoscenico, a prendersi i meritati applausi insieme ai protagonisti vocali, tutti indistintamente da lodare, grandi e soprattutto piccoli!   
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Ultima nota (dolente): pubblico scarso e smagritosi ulteriormente all’intervallo; captati qua e là commenti irriferibili sull’inclusione di questo titolo nel programma in abbonamento. Che dire? In questi casi torna sempre e invariabilmente la nostalgia per la cara Piccola Scala (ambiente semplicemente perfetto per questo tipo di rappresentazioni) e la rabbia per la fine che le è toccata... amen.  

20 maggio, 2013

Onegin torna al Regio torinese


Il terz’ultimo appuntamento stagionale del Regio è con Evgenij Onegin, che per Torino è pur sempre una primizia, visto che siamo al terzo allestimento in assoluto! (vero è che è il terzo in 30 anni, dopo un secolo di… ignoranza totale). Teatro gremito, ma non certo esaurito.

Riporto qui un interessante – quanto provocatorio - scritto di Aldo Nicastro riguardo le opere di Ciajkovski, a partire dall’Onegin, pubblicato nel marzo 1991 su Musica&Dossier. Già il titolo la dice lunga, anticipando un giudizio tagliente riguardo la non-rispondenza del libretto e della musica dell’Onegin di Ciajkovski allo spirito del poema di Puškin. Ma per la verità, al di là dell’ambito accademico e teorico, ai fini dell’apprezzamento dell’opera, a noi che ce ne importa? Forse che la Carmen di Bizet non ci piace perché assai diversa dal racconto di Mérimée? O storciamo il naso davanti alla Tosca di Puccini, poiché diverge non poco da quella di Sardou? 

Sarà un caso, ma si potrebbe immaginare che il regista Kasper Olten, più o meno volontariamente, abbia voluto riprendere la critica di Nicastro (che peraltro non era nemmeno sua esclusiva) e introdurre nel suo Konzept la prospettiva di Puškin (dove le personalità dei due protagonisti sono mediate dalla descrizione che ne fa il poeta) allorquando ci mostra in scena due copie (mimi) di Onegin e Tatiana, chiaramente più giovani degli originali, i quali originali ne esplorano, o quanto meno osservano, i comportamenti, dando a vedere di non condividerli, ma nulla potendo fare per modificarli.

Ciò avviene in particolare in due momenti topici: per quanto riguarda Tatiana, nella scena della lettera, dove noi vediamo il personaggio reale (quello che canta, tanto per chiarire!) che osserva con un certo scetticismo la sua giovane alias che scrive la lettera, in preda a tutte le agitazioni e i turbamenti come da libretto. Quanto a Onegin, quello adulto è già presente sul luogo del duello assai prima di Lenski, mentre il suo giovane alias arriva in ritardo come da libretto, accompagnato da un Guillot il quale – invece che turbato - ci viene cervelloticamente presentato come un alcolizzato (quindi, per fortuna, non è lui che reca le pistole, ma il compunto Zareski…) L’Onegin vero, impotente, canta, mentre la sua copia… spara! (Lenski sembra Tristan che si butta sulla spada di Melot, tanto per rincarare la dose sulla viscidità di Onegin, mah…) L’ultima apparizione dei due alias - quella che probabilmente secondo il regista dovrebbe giustificare da sola la sua scelta – si materializza nella scena conclusiva, allorquando Onegin e Tatiana cantano insieme Ah! La felicità era così vicina a noi, così vicina, così vicina, così vicina! I due giovinetti appaiono belli felici, sottobraccio, mostrando ai protagonisti e a noi come sarebbe potuta finire se non avessero dato ascolto alle loro rispettive impulsività.

Che dire? A me pare il solito cannone per sparare ad una mosca: dico, il libretto è sufficientemente chiaro senza che un regista ce lo venga a spiegare con artifizi che nessun altro risultato ottengono se non di confondere le idee allo spettatore. E perché è lapalissiano che se Tatiana per prima non avesse scritto quella lettera, l’Onegin si sarebbe fermato dopo il primo dei sette quadri (smile!)  

Un’altra perla della regìa riguarda il dopo-duello. Intanto: la scena rimane la stessa, con Lenski morto sdraiato al proscenio (e ci resterà per la restante mezz’ora e più, fino alla fine dell’opera!) vicino all’enorme ramo secco che si era portato da casa (il regista potrà di certo dare spiegazioni esaurienti e/o freudiane in merito…) e Onegin – quello che non ha sparato! - impietrito a guardare la salma dell’ex-amico. Che musica sentiamo a questo punto? Una marcia funebre? Un lamento per l’amico defunto? Ma no, quella prevista dalla partitura, ovviamente: la polacca in SOL maggiore che apre il sesto quadro! Geniale! Durante l’esecuzione della quale allegra polacca, per la verità, alcune danzatrici si presentano anche, nel ruolo di adescatrici e/o consolatrici del povero Onegin, che però di farsi consolare non ne ha voglia, e infatti – come da libretto – successivamente canta Anche qui mi annoio a morte… raccontando del suo vano vagabondare inseguito dai rimorsi per i suoi errori passati. Però siccome il libretto prevede due balli nella sontuosa dimora di Gremin, ecco che almeno la successiva scozzese ci viene offerta in pompa magna, con gentiluomini e dame agghindati come Zeffirelli comanderebbe.

Questa è solo una piccola ciliegina: Onegin chiede a Gremin: chi è quella signora col cappello cremisi? È Tatiana, ovviamente, peccato che sia… a capo scoperto (smile!) Un’altra? I covoni che i contadini avevano portato a casa Larin (una fattoria) nel primo quadro sono rimasti lì in bella mostra anche nella principesca dimora sanpietroburghese di Gremin, fra stucchi, specchiere e porcellane! 

Kasper Olten deve sicuramente aver visto – o essersi informato su – la messinscena di Tcherniakov (passata anche alla Scala anni fa) perché ne ha mutuato almeno un paio di trovate: la prima riguarda un tentato, quanto inventato, suicidio di Onegin – con pistola che fa cilecca! - che il regista russo aveva posizionato proprio alla fine dell’opera, dopo l’addio definitivo di Tatiana. Olten invece lo anticipa nella scena del duello, dove vediamo Onegin puntarsi alla tempia la pistola del defunto Lenski (che ha ancora il proiettile in canna) senza però riuscire ad esplodere il colpo. La seconda è l’apparizione – una cosa invero imbecille – di Gremin nel bel mezzo dello show-down finale fra Onegin e Tatiana, che rischia di stravolgere tutto il sottile senso del comportamento della donna. Come sempre: si copiano le sciocchezze, mica le buone idee.

Chiudo queste note sull’allestimento con un apprezzamento (per non sembrare prevenuto, smile!) che riguarda i costumi di Tatiana: rosso-amore nella prima parte e bianco-dovere (sotto il quale spunta però il rosso-amore) alla fine. Ecco, questa è un’idea semplice-semplice, ma efficace. Però sorge spontanea una domanda: ma alla fine anche Onegin un pochettino cambia, o no? (o vogliamo dar ragione a Tatiana che lo accusa di fingere di amarla solo per vantarsi poi dello scandalo della sua conquista?) Se cambia, si meriterebbe anche lui di mettersi almeno, che so, una giacchetta rossa (smile!) invece di restare sempre col solito blu…
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Aggiungo anche un’osservazione riguardo la suddivisione materiale dello spettacolo, cosa di cui è sempre difficile stabilire la responsabilità, o suddividerla fra regista e concertatore.

Allora, Onegin è in tre atti, quindi prevede(rebbe) due intervalli. La cosa ha una spiegazione assolutamente chiara e semplice, legata al non rispetto dei canoni aristotelici di unità di luogo-tempo-azione. I due intervalli dovrebbero servire a far percepire anche materialmente allo spettatore le due soluzioni di continuità che la vicenda descritta presenta.

La prima riguarda i parecchi mesi che trascorrono fra il primo, fatale incontro di Tatiana con Onegin e il ballo in casa Larin dove si consumerà la rottura fra il medesimo Onegin e Lenski, con conseguente duello: il primo evento si svolge in piena estate (mietitura e raccolta di frutta) nell’arco che va da un pomeriggio alla sera, poi alla notte (della lettera) e infine al mattino successivo (con il gran rifiuto di Onegin); il secondo accade invece in pieno inverno, quindi come minimo 6 mesi dopo: non solo lo apprendiamo da Puškin, ma lo deduciamo dalla nota del libretto che ci avverte di paesaggio d’inverno in apertura del Quadro II del second’atto, quello dove assistiamo al duello, che avviene un paio di giorni (e comunque non certo mesi e mesi) dopo quello del ballo e della successiva scenata violenta sfociata nella sfida di Lenski all’ormai ex-amico. Detto tra parentesi: il fatto che passino mesi e non poche ore fra questi due eventi (il primo incontro e il secondo, al ballo) getta una luce assai significativa sui rapporti fra Tatiana e Onegin, i quali evidentemente hanno avuto tutto il tempo per pensare al loro primo incontro e al loro futuro. Soprattutto Onegin, che accetta di seguire Lenski al ballo dei Larin, ben sapendo che là vi incontrerà la ragazza da lui strapazzata in quel primo incontro dell’estate precedente. E che lui non esita ad invitare a ballare, dando l’impressione ai presenti (e forse a lei stessa) di essere in procinto di dichiararsi… per poi decidere invece di offendere Lenski a seguito degli acidi giudizi che gli invitati gli rivolgono.

La seconda cesura è addirittura di parecchi anni, quelli che Onegin trascorre vagabondando all’estero dopo il duello fatale con Lenski e prima di presenziare al ricevimento in casa Gremin: deduciamo ciò senza alcuna ombra di dubbio da quanto ascoltiamo dire da Onegin, Tatiana e Gremin.

Ora, l’allestimento odierno del Regio (forse non è la prima volta che accade) suddivide invece lo spettacolo in sole due parti, quindi presenta un solo intervallo. Ma non posto fra il primo atto e i due successivi, più brevi (il che sarebbe del tutto accettabile, anche in termini di equilibri di durata, 70-70 minuti) bensì fra i due quadri del secondo. La qual decisione ottiene due effetti perversi: eliminare agli occhi (e alla percezione generale) dello spettatore le due chiare soluzioni di continuità presenti nella trama, creandone in compenso un’altra del tutto arbitraria, se non proprio fuorviante: quella fra la scenata in casa Larin e il duello successivo.

Il tutto a che pro? Accorciare di 20-25 minuti (il secondo intervallo risparmiato) uno spettacolo che in complesso non supererebbe comunque le 3 ore e un quarto? Personalmente mi pare una decisione poco intelligente.
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Note liete (per il pubblico: trionfali!) sul fronte musicale. Il mio concittadino Gianandrea Noseda non si smentisce, e poi questo repertorio per lui è un po’ un ritorno a casa… Se proprio devo trovargli un pelo nell’uovo (ma è questione di personali preferenze) citerei un'eccessiva pesantezza nel walzer del second’atto e un po’ di fracasso di troppo nella concitata scena finale fra i due innamorati infelici. Per il resto, una concertazione impeccabile. Bene l’orchestra (piccole sbavature sono sempre in agguato, e perdonabili) e benissimo il coro di Fenoglio.

La trionfatrice del pomeriggio è stata Svetla Vassileva, una Tatiana assai positiva, pur non esente da qualche pecca di intonazione (cito ad esempio il LAb acuto della chiusura della lettera, aria che certo impegna la voce come poche altre).

La sorellina Olga (Nino Surguladze) direi discreta ma non più, anche se la sua vocina sottile (che non mi pare proprio da contralto) in fin dei conti ci sta col fatto che lei è più giovane ancora di Tatiana, quindi praticamente una ragazzina.

Vasilij Ladjuk è un Onegin più che discreto, voce potente, ben passante, abbastanza chiara per rendere al meglio il personaggio di questo giovane e immaturo figlio-di-papà.

Bravo Maksim Aksënov, un Lenski all’altezza, voce calda, sempre ben intonata, efficacissimo nella sua impegnativa aria prima del duello.

Ancor meglio  Aleksandr Vinogradov, un Gremin autoritario e convincente: certo, la parte è quantitativamente limitata (diciamo un… Re Marke in miniatura, smile!) ma proprio per questo la qualità è importante, e Vinogradov l’ha tirata fuori tutta.

Carlo Bosi è stato un efficace Triquet, bene impersonando questa specie di macchietta.

Gli altri interpreti di contorno (ma comunque non insignificanti, soprattutto le due donne) hanno ben figurato: un bravo a tutti, Marie McLaughlin (Larina), Elena Sommer (Filippevna), Vladimir Jurlin (Capitano) e Scott Johnson (Zareski).

Ecco, ancora una prova più che soddisfacente del Teatro torinese, che si conferma una realtà solida e affidabile, in questi tempi non proprio tranquilli.