Il terz’ultimo appuntamento stagionale
del Regio è con Evgenij
Onegin, che per Torino è pur sempre una primizia, visto che siamo
al terzo allestimento in assoluto! (vero è che è il terzo in 30 anni, dopo un
secolo di… ignoranza totale). Teatro gremito, ma non certo esaurito.
Riporto qui un interessante – quanto
provocatorio - scritto di Aldo Nicastro
riguardo le opere di Ciajkovski, a partire dall’Onegin,
pubblicato nel marzo 1991 su Musica&Dossier.
Già il titolo la dice lunga, anticipando un giudizio tagliente riguardo la
non-rispondenza del libretto e della musica dell’Onegin di Ciajkovski allo
spirito del poema di Puškin. Ma per la verità, al di là
dell’ambito accademico e teorico, ai fini dell’apprezzamento dell’opera, a noi
che ce ne importa? Forse che la Carmen di Bizet non
ci piace perché assai diversa dal racconto di Mérimée? O storciamo il naso
davanti alla Tosca di Puccini, poiché diverge
non poco da quella di Sardou?
Sarà un caso, ma si potrebbe
immaginare che il regista Kasper Olten, più o
meno volontariamente, abbia voluto riprendere la critica di Nicastro (che
peraltro non era nemmeno sua esclusiva) e introdurre nel suo Konzept la
prospettiva di Puškin (dove le personalità dei due protagonisti sono mediate dalla
descrizione che ne fa il poeta) allorquando ci mostra in scena due copie (mimi) di
Onegin e Tatiana, chiaramente più giovani degli originali, i quali originali ne
esplorano, o quanto meno osservano, i comportamenti, dando a vedere di non
condividerli, ma nulla potendo fare per modificarli.
Ciò avviene in particolare
in due momenti topici: per quanto riguarda Tatiana, nella scena della lettera,
dove noi vediamo il personaggio reale (quello che canta, tanto per chiarire!)
che osserva con un certo scetticismo la sua giovane alias che scrive
la lettera, in preda a tutte le agitazioni e i turbamenti come da libretto. Quanto
a Onegin, quello adulto è già presente sul luogo del duello assai prima di
Lenski, mentre il suo giovane alias arriva in
ritardo come da libretto, accompagnato da un Guillot
il quale – invece che turbato - ci viene
cervelloticamente presentato come un alcolizzato (quindi,
per fortuna, non è lui che reca le pistole, ma il compunto Zareski…) L’Onegin
vero, impotente, canta, mentre la sua copia… spara! (Lenski sembra Tristan che
si butta sulla spada di Melot, tanto per rincarare la dose sulla viscidità di
Onegin, mah…) L’ultima apparizione dei due alias - quella
che probabilmente secondo il regista dovrebbe giustificare da sola la sua
scelta – si materializza nella scena conclusiva, allorquando Onegin e Tatiana
cantano insieme Ah! La felicità era così vicina a noi, così vicina,
così vicina, così vicina! I due giovinetti appaiono
belli felici, sottobraccio, mostrando ai protagonisti e a noi come
sarebbe potuta finire se non avessero dato
ascolto alle loro rispettive impulsività.
Che dire? A me pare il
solito cannone per sparare ad una mosca: dico, il libretto è sufficientemente
chiaro senza che un regista ce lo venga a spiegare con artifizi che nessun
altro risultato ottengono se non di confondere le idee allo spettatore. E
perché è lapalissiano che se Tatiana per prima non avesse scritto quella
lettera, l’Onegin si sarebbe fermato dopo il primo dei sette quadri (smile!)
Un’altra perla della regìa
riguarda il dopo-duello. Intanto: la scena rimane
la stessa, con Lenski morto sdraiato al proscenio (e ci resterà per la restante
mezz’ora e più, fino alla fine dell’opera!) vicino all’enorme ramo secco che si
era portato da casa (il regista potrà di certo dare spiegazioni esaurienti e/o
freudiane in merito…) e Onegin – quello che non ha
sparato! - impietrito a guardare la salma dell’ex-amico. Che musica sentiamo a
questo punto? Una marcia funebre? Un lamento per l’amico defunto? Ma no, quella
prevista dalla partitura, ovviamente: la polacca
in SOL maggiore che apre il sesto quadro! Geniale! Durante l’esecuzione
della quale allegra polacca, per la verità, alcune danzatrici si presentano
anche, nel ruolo di adescatrici e/o consolatrici del povero Onegin, che però di
farsi consolare non ne ha voglia, e infatti – come da libretto – successivamente
canta Anche qui mi annoio a morte…
raccontando del suo vano vagabondare inseguito dai rimorsi per i suoi errori
passati. Però siccome il libretto prevede due balli nella sontuosa dimora di
Gremin, ecco che almeno la successiva scozzese ci viene
offerta in pompa magna, con gentiluomini e dame agghindati come Zeffirelli
comanderebbe.
Questa è solo una piccola
ciliegina: Onegin chiede a Gremin: chi è quella
signora col cappello cremisi? È Tatiana, ovviamente,
peccato che sia… a capo scoperto (smile!) Un’altra?
I covoni che i contadini avevano portato a casa Larin (una fattoria) nel primo
quadro sono rimasti lì in bella mostra anche nella principesca dimora
sanpietroburghese di Gremin, fra stucchi, specchiere e porcellane!
Kasper Olten deve
sicuramente aver visto – o essersi informato su – la messinscena di Tcherniakov (passata
anche alla Scala anni fa) perché ne ha mutuato almeno un paio di trovate: la
prima riguarda un tentato, quanto inventato, suicidio di Onegin – con pistola
che fa cilecca! - che il regista russo aveva posizionato proprio alla fine
dell’opera, dopo l’addio definitivo di Tatiana. Olten invece lo anticipa nella
scena del duello, dove vediamo Onegin puntarsi alla tempia la pistola del
defunto Lenski (che ha ancora il proiettile in canna) senza però riuscire ad
esplodere il colpo. La seconda è l’apparizione – una cosa invero imbecille – di
Gremin nel bel mezzo dello show-down finale fra Onegin e Tatiana, che rischia
di stravolgere tutto il sottile senso del comportamento della donna. Come
sempre: si copiano le sciocchezze, mica le buone idee.
Chiudo queste note
sull’allestimento con un apprezzamento (per non sembrare prevenuto, smile!) che
riguarda i costumi di Tatiana: rosso-amore nella prima parte e bianco-dovere
(sotto il quale spunta però il rosso-amore) alla fine. Ecco, questa è un’idea
semplice-semplice, ma efficace. Però sorge spontanea una domanda: ma alla fine
anche Onegin un pochettino cambia, o no? (o vogliamo dar ragione a Tatiana che
lo accusa di fingere di amarla solo per vantarsi poi dello scandalo della sua
conquista?) Se cambia, si meriterebbe anche lui di mettersi almeno, che so, una
giacchetta rossa (smile!) invece di
restare sempre col solito blu…
___
Aggiungo anche un’osservazione
riguardo la suddivisione materiale dello spettacolo, cosa di cui è sempre
difficile stabilire la responsabilità, o suddividerla fra regista e
concertatore.
Allora, Onegin è in tre atti, quindi prevede(rebbe) due intervalli. La cosa ha una
spiegazione assolutamente chiara e semplice, legata al non rispetto dei canoni aristotelici di unità di
luogo-tempo-azione. I due intervalli dovrebbero servire a far percepire anche
materialmente allo spettatore le due soluzioni
di continuità che la vicenda descritta presenta.
La prima riguarda i parecchi mesi che trascorrono fra il
primo, fatale incontro di Tatiana con Onegin e il ballo in casa Larin dove si
consumerà la rottura fra il medesimo Onegin e Lenski, con conseguente duello: il
primo evento si svolge in piena estate (mietitura e raccolta di frutta)
nell’arco che va da un pomeriggio alla sera, poi alla notte (della lettera) e
infine al mattino successivo (con il gran
rifiuto di Onegin); il secondo accade invece in pieno inverno, quindi come
minimo 6 mesi dopo: non solo lo apprendiamo da Puškin, ma
lo deduciamo dalla nota del libretto che ci avverte di paesaggio
d’inverno in apertura del Quadro II del second’atto, quello dove
assistiamo al duello, che avviene un paio di giorni (e comunque non certo mesi
e mesi) dopo quello del ballo e della successiva scenata violenta sfociata nella
sfida di Lenski all’ormai ex-amico. Detto tra parentesi: il fatto che passino
mesi e non poche ore fra questi due eventi (il primo incontro e il secondo, al
ballo) getta una luce assai significativa sui rapporti fra Tatiana e Onegin, i
quali evidentemente hanno avuto tutto il tempo per pensare al loro
primo incontro e al loro futuro. Soprattutto Onegin, che accetta di seguire
Lenski al ballo dei Larin, ben sapendo che là vi incontrerà la ragazza da lui
strapazzata in quel primo incontro dell’estate precedente. E che lui non esita
ad invitare a ballare, dando l’impressione ai presenti (e forse a lei stessa)
di essere in procinto di dichiararsi… per poi decidere invece di offendere
Lenski a seguito degli acidi giudizi che gli invitati gli rivolgono.
La seconda cesura è
addirittura di parecchi anni, quelli
che Onegin trascorre vagabondando all’estero dopo il duello fatale con Lenski e
prima di presenziare al ricevimento in casa Gremin: deduciamo ciò senza alcuna
ombra di dubbio da quanto ascoltiamo dire da Onegin, Tatiana e Gremin.
Ora, l’allestimento odierno
del Regio (forse non è la prima volta che accade) suddivide invece lo
spettacolo in sole due parti,
quindi presenta un solo intervallo. Ma non
posto fra il primo atto e i due successivi, più brevi (il che sarebbe del tutto
accettabile, anche in termini di equilibri di durata, 70-70 minuti) bensì fra i
due quadri del secondo. La qual decisione ottiene due effetti perversi:
eliminare agli occhi (e alla percezione generale) dello spettatore le due chiare
soluzioni di continuità presenti nella trama, creandone in compenso un’altra
del tutto arbitraria, se non proprio fuorviante: quella fra la scenata in casa
Larin e il duello successivo.
Il tutto a che pro?
Accorciare di 20-25 minuti (il secondo intervallo risparmiato) uno spettacolo
che in complesso non supererebbe comunque le 3 ore e un quarto? Personalmente
mi pare una decisione poco intelligente.
___
Note liete (per il pubblico:
trionfali!) sul fronte musicale. Il mio concittadino Gianandrea Noseda non si smentisce, e poi questo repertorio per lui
è un po’ un ritorno a casa… Se proprio devo trovargli un pelo nell’uovo (ma è
questione di personali preferenze) citerei un'eccessiva pesantezza nel walzer
del second’atto e un po’ di fracasso di troppo nella concitata scena finale fra
i due innamorati infelici. Per il resto, una concertazione impeccabile. Bene
l’orchestra (piccole sbavature sono sempre in agguato, e perdonabili) e
benissimo il coro di Fenoglio.
La
trionfatrice del pomeriggio è stata Svetla
Vassileva, una Tatiana assai positiva, pur non esente da qualche pecca di
intonazione (cito ad esempio il LAb acuto della chiusura della lettera, aria che certo impegna la voce
come poche altre).
La sorellina
Olga (Nino Surguladze) direi discreta
ma non più, anche se la sua vocina sottile (che non mi pare proprio da
contralto) in fin dei conti ci sta col fatto che lei è più giovane ancora di
Tatiana, quindi praticamente una ragazzina.
Vasilij Ladjuk è un Onegin più che discreto, voce potente, ben passante, abbastanza chiara
per rendere al meglio il personaggio di questo giovane e immaturo figlio-di-papà.
Bravo Maksim
Aksënov, un Lenski
all’altezza, voce calda, sempre ben intonata, efficacissimo nella sua
impegnativa aria prima del duello.
Ancor meglio Aleksandr Vinogradov, un Gremin autoritario e convincente: certo,
la parte è quantitativamente limitata (diciamo un… Re Marke in miniatura, smile!)
ma proprio per questo la qualità è importante, e Vinogradov l’ha tirata fuori tutta.
Carlo Bosi è stato un efficace Triquet, bene impersonando
questa specie di macchietta.
Gli altri interpreti di contorno (ma comunque non insignificanti, soprattutto
le due donne) hanno ben figurato: un bravo a tutti, Marie McLaughlin (Larina), Elena Sommer
(Filippevna), Vladimir Jurlin (Capitano)
e Scott Johnson (Zareski).
Ecco, ancora una prova più che soddisfacente del Teatro torinese, che si conferma una realtà solida e affidabile, in questi tempi non proprio tranquilli.
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