La
Sächsische Staatskapelle e il suo
carismatico Kapellmeister sono stati ieri ospiti di
Venezia per un grande concerto wagneriano (con intermezzo… contemporaneo). Era
l’ultima tappa del tour del compleanno,
che ha prima toccato Parigi e Vienna, altre città-chiave nella vita (non solo
artistica) di Wagner.
Ma
il programma era interamente dedicato a Dresda, per evidenti ragioni…
geopolitiche: tutte musiche che in quella città, e proprio con i trisnonni dei
musicisti di oggi, videro la luce (Rienzi, Holländer, Eine Faust Ouverture,
Tannhäuser) o musiche che in quella città furono concepite (Lohengrin). In
mezzo, un omaggio a Hans Werner Henze,
che Thielemann aveva voluto come Compositore
in residenza presso la Staatskapelle e che purtroppo ci ha lasciato prima
di poter completare il suo Isoldes Tod.
A completare il quadro, la presenza… ingombrante (stra-smile!) di Johan Botha,
che si è cimentato in tre famose arie di quelle stesse opere (Holländer
escluso).
Una
Fenice con più di una poltrona vuota ha assistito ad una straordinaria
prestazione dei sassoni, un’orchestra che – in questo repertorio soprattutto –
ha pochi rivali. Come pochi ne ha Thielemann, che la guida con il suo gesto
misurato, poco appariscente, ma evidentemente efficacissimo. Segno che dietro
c’è un duro lavoro di prova e di amalgama, che poi in concerto dà i suoi frutti
quasi da solo.
Il
programma era ben congegnato, con l’Ouverture dell’Holländer ad aprire
sontuosamente la serata. È l’opera che anche in questo anno di ricorrenze inaugura
il Festival
di Bayreuth, il 25 luglio. E Thielemann evidentemente sta rientrando in
quell’atmosfera: qui ha preferito la chiusa in pianissimo sul tema della
redenzione, omettendo il rumoroso accordo finale.
Ecco poi Eine faust Ouverture, forse l’unico
pezzo sinfonico di Wagner che mantiene stabilmente un posto nei programmi
concertistici. Und so ist mir das Dasein eine Last,/ Der Tod erwünscht, das Leben mir
verhaßt, perciò l’esistenza è per me un
fardello, la morte augurabile, la vita odiosa. Questi i due versi di Goethe posti
programmaticamente da Wagner in calce alla partitura, che vide la luce ai tempi
dell’Holländer (di
cui mutua le atmosfere cupe) e fu poi rivista quando si affacciava da lontano
un tale Tristan… Ecco come la interpretava Toscanini. E
Thielemann non è da meno: fa proprio venir fuori tutto il pessimismo che la
pervade, appena appena rischiarato dalla conclusione serena (tipo Tristan, in
effetti).
Quindi
la prima comparsa di Botha, per interpretare
la straordinaria Allmächt’ger Vater dal quinto atto del Rienzi. Per la verità qui
il tenore sudafricano non mi è parso troppo all’altezza del compito: solo il
modo con cui ha tirato via i gruppetti che caratterizzano i versi Du stärkest mich e Du liehest mich (e poi Mein
Herr e senke dein Auge) la dice lunga su una certa approssimazione. (Qui
il pur discusso Kaufmann
fa assai meglio…) Per fortuna ci pensa subito dopo Thielemann, dirigendo l’Ouverture,
a rimettere le cose al giusto posto: un’esecuzione letteralmente superlativa,
accolta da acclamazioni entusiastiche.
Dopo
l’intervallo una nuova accoppiata strumenti-voce: dapprima il Preludio di Lohengrin, altra autentica
perla della serata, dove gli archi (i violini innanzitutto, come è ovvio) cavano
una purezza di suono incomparabile. Poi arriva Botha per l’immancabile In
fernem Land, corredata – come ormai costume, almeno in concerto o nelle
incisioni, come questa di Kaufmann
(e speriamo che non lo diventi in teatro!) - di quei 20 versi aggiuntivi che
letteralmente distruggono tutto il bello e il buono di ciò che li precedeva,
soprattutto se privati (come qui, per evidenti ragioni) degli interventi del
coro, gli unici che in qualche modo li nobilitano. E non per nulla Wagner
ordinò perentoriamente a Liszt di espungere l’intera sezione già alla prima
rappresentazione di Weimar! Botha anche qui non (mi) incanta: emissione
affannata, poco legato, insomma una mezza delusione.
Di
Hans Werner Henze viene poi eseguita Fraternitè,
composta per Kurt Masur e la New York Philharmonic Society nel 1999.
Bellissimo pezzo di questo gigante della musica contemporanea, che evidentemente
concepiva la musica come arte mossa dall’ispirazione, e non come freddo vaniloquio.
In
chiusura altra coppia canto-orchestra. Tocca per primo a Botha proporre la massacrante
aria finale di Tannhäuser (Inbrunst im Herzen):
qui il tenore mi pare riscattarsi e fa emergere efficacemente tutta la drammatica
potenza dello sfogo del personaggio maledetto da tutti. Meglio comunque fa ancora
Thielemann con l’Ouverture, un vero gioiello, di suoni e anche di interpretazione,
davvero calata fino in fondo nello spirito alto-tedesco del soggetto.
Trionfo
assicurato e contraccambiato con il bis
più… ovvio: il Preludio all’Atto III di
Lohengrin.
Beh,
almeno per quanto mi riguarda, è valsa la pena – e la spesa - di una trasferta sotto
il diluvio (che per fortuna ha risparmiato proprio Venezia): capita poche volte,
in Italia, di ascoltare orchestre ed esecuzioni di così alto livello.
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