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11 dicembre, 2022

Scala: il Boris live.

Scala non proprio esaurita per questa prima recita vera del Boris Godunov, il che pare confermare che il gigantesco sforzo mediatico-mondano del SantAmbrogio non basta da solo a fare moltitudini di proseliti per il teatro musicale.

Liquido brevemente la parte registica, chè lo spettacolo in teatro ormai si apprezza assai meno che dalle riprese televisive, assai più ricche di dettagli e particolari di quanto non colga l’occhio che osserva da lontano e da angolazione fissa (a qualcosa, ma poco, serve un binocolo, che consente allo spettatore almeno di farsi lui i primi-piani che crede). Spettacolo godibile e frutto di sincretismo stilistico per accontentare tutti (tradizionalisti e non) che lascia il dubbio sull’efficacia del rapporto costi-benefici: appunto, fatto per illustrare il SantAmbrogio, più che il titolo in cartellone.

Il fronte musicale mi sento invece di promuoverlo (magari senza lode e bacio-in-fronte) a partire dai cori (di Malazzi e Casoni) veri protagonisti (giustamente ovazionati) della serata. Ottima l’Orchestra, capace di supportare al meglio la scena (e in questo Musorgski la cosa non è per nulla scontata, data la siderale distanza rispetto alle opere più di repertorio). Orchestra che ovviamente ha goduto dell’amorevole cura messa – come sempre, del resto – dal Direttore nell’interpretare al meglio ogni dettaglio – le dinamiche, in particolare - della difficile partitura. Ribadisco la mia personalissima perplessità soltanto riguardo l’agogica, che avrei preferito meno sostenuta: Chailly chiude a 145’ contro, ad esempio, i 130’ di Gergiev-1997 e i 126’ di Nagano-2019…  

Ildar Abdrazakov merita l’eccellenza per presenza scenica, recitazione e capacità di esternare tutta la varietà di sentimenti e angosce che contraddistinguono il personaggio: qualcuno gli imputa la voce più baritonale che da basso profondo, ma non è detto che il Boris più moderno sia ancora quello di Scialiapin! I due monologhi, in particolare, sono proprio da manuale dell’interpretazione, oltre che di espressività del canto. Strameritato quindi il suo trionfo.

Ain Anger è un Pimen che dal vivo ha quasi del tutto riscattato le perplessità che mi aveva lasciato l’ascolto tv: forse la voce sarà un filino usurata, ma in teatro fa ancora una gran figura.

Sicuro e tronfio il Varlaam di Stanislav Trofimov, autorevole interprete della sua truce ballata al confine lituano, inneggiante Ivan il Terribile.

Bella figura ha fatto anche Dmitry Golovnin, calatosi apprezzabilmente nella parte del… suo falso: certo per lui sarebbe ben altro impegno cantare il Boris-2!

Efficace anche l’altro tenore, Yaroslav Abaimov, nella parte dello Yurodivi, piccola ma estremamente significativa nell’economia del dramma.   

Alexei Markov è stato un passabile Scelkalov, mentre devo ritirare in parte il giudizio positivo su Norbert Ernst (Šujskij) che dal vivo ha mostrato evidenti limiti vocali.

Delle tre parti femminili quella più rilevante è la Xenia di Anna Denisova, che ha sfoggiato voce ben impostata e passante, e un portamento consono a quello della giovine in pena per il lutto che l’ha colpita. Han fatto il loro dovere l’ostessa Maria Barakova e la nutrice Agnieszka Rehlis (anche per loro vale il discorso fatto per Grigori-Dimitri).

Il piccolo Feodor è stato ben impersonato – en-travesti - da Lilly Jørstad.

Oneste le prestazioni degli altri quattro comprimari.

Alla fine, successo pieno e indiscusso per tutti.

07 dicembre, 2022

SantAmbrogio: il Boris in TV.

Beh, è già qualcosa aver constatato – in corpore vili – che ciò che viene presentato è effettivamente il Boris-1 del 1869 (ovviamente nell’ipotesi di dar credito a due studiosi seri come Lamm e Lloyd-Jones) e non un libero collage di pezzi del meccano-Boris, tipico passatempo di svariati direttori e registi in cerca di facile quanto caduca notorietà. (Alle mie orecchie grida tuttora vendetta la scellerata produzione del Regio di Torino del 2010, targata Noseda-Konchalovsky, tanto per dire…)  

Sulla prestazione sonora mi astengo dal dare giudizi inappellabili, date le circostanze (la ripresa non mi è parsa impeccabile, ecco). Abdrazakov ha riscosso un prevedibile trionfo, per la fama che gode anche qui in Scala e per l’oggettiva autorevolezza con la quale si è calato nel ruolo. Buona impressione, salvo verifiche dal vivo, per Norbert Ernst (Šujskij) e Stanislav Trofimov (Varlaam). Ovviamente da apprezzare i cori, se non altro perché avran dovuto sudare per via della lingua.

Chailly mi è parso un filino troppo sostenuto con i tempi, ma è questione di gusti. Orchestra apparentemente in buona salute, ma da giudicare dal vivo.  
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Quel furbacchione di Kasper Holten si è inventato un approccio originale alla messinscena: né quello iper-tradizionalista e talebanamente rispettoso della lettera dell’opera (1598-1605); né quello di portarci all’epoca della creazione del lavoro (1869); né quello di ambientare la vicenda ai nostri giorni. Ecco: lui ce li ha messi tutti e tre in una volta (ad esempio coprendo con mantelli seicenteschi giacche e cravatte moderne…) Sperando così di accontentare un po’ tutti i gusti (o di non scontentarne alcuno). Certo: si può intuire che questa compresenza di costumi (anche di suppellettili, per la verità…) di epoche diverse stia a significare che usanze (e prepotenze!) umane non tramontano mai (della serie Putin=Stalin=Nicola=Pietro=Boris=Ivan=…)

Da vecchio responsabile dell’opera alla ROH, Holten si è anche permesso (senza pagarne i diritti?) di scopiazzare dalla produzione di Richard Jones del 2016 il vecchio Pimen che dipinge le sue storie a mo’ di affresco su una parete bianca. Ha invece fatto un doveroso omaggio all’Autore mostrando, mentre si ascolta la breve introduzione strumentale, gli ottusi critici del Marinski che strappano platealmente copie della partitura che ci viene presentata.

Per il resto regìa innocua e velleitariamente didascalica, col rischio di rendere ancor più incomprensibile l’intreccio, vedi la costante presenza del piccolo Dimitri coperto di sangue o la riproduzione per partenogenesi di personaggi nella scena finale. Nella quale riappare il simpatico Grigori-Dimitri per assistere con sprezzante sogghigno alla morte (mica naturale, ma per mano di un suo sicario!) dell’odiato zar. (Poi, se si volesse proseguire nel racconto delle vicende storiche, allora lui avrebbe poco da ridere, visto che dopo un anno verrà letteralmente fatto a fettine, poi impastate in polvere da sparo, da quelli stessi che si erano serviti di lui per combattere Boris…)   

All-in-all: una produzione che – personalmente – avrei collocato (tipo Chovanščina) a febbraio…  
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Curiosità: Il sogno di Grigori 1872-1869

                   Gergiev – 1977                                            Nagano - 2019

11 dicembre, 2021

Il Macbeth distopico

 

Livermore parte come se dovesse proporci un Macbeth di... Livermore (tipo la sua personale versione mafiosa dei Vespri siciliani) ambientato nel mondo della criminalità organizzata: è precisamente ciò che ci mostra proprio nelle prime sequenze dell’opera: due eroi salvatori della patria (hanno appena sbaragliato gli sbifidi cugini annessionisti inglesi) trasformati in due sicari alle prese con ceffi della cosca rivale! Apperò!

Certo, a parte i suoi Vespri, di trasposizioni di vicende che comportano scontri fra poteri (o fra uomini di potere) in squallide faide fra mafie e camorre ne abbiam viste a josa e non ce ne stupiamo più. Resta il fatto che trattasi di trasposizioni solo apparentemente intelligenti, in realtà superficiali e volte a stupire a buon mercato lo spettatore. Perchè, per quanto autoritari, assoluti, dispotici, sanguinari e ospiti di trame oscure per la conquista del potere, ambienti come la Corte di Scozia e quella d’Inghilterra hanno pur sempre lo status di istituzioni pubbliche: le mafie sono cose ben diverse e rispondono a tutt’altre regole.

Anche il castello di Macbeth è arredato pericolosamente in stile Casamonica, ma poi l’arrivo del Re e il suo indirizzo ai notabili sembrano rimettere un po’ le cose a posto, come se il regista fosse rinsavito (magari dietro consigli amichevoli) e così da lì in poi siamo tornati (quasi) a Shakespeare e ad una sana e corretta (si fa per dire, ma queste - come argutamente ci ricorda la Lady - erano le medievali usanze che noi scafati del terzo millennio non esitiamo a perpetuare) lotta per il potere. Però che il nuovo Re venga mostrato mentre personalmente organizza nei dettagli l’agguato a Banquo è cosa ridicola sia nei palazzi del potere che in quelli delle cosche: Piave e Verdi ci avevano spiegato tutto assai chiaramente poco prima, senza bisogno di queste didascaliche trovate del regista.   

Non ci scandalizziamo comunque se i costumi sono moderni (le armi un po’ meno, a dir la verità, ma d’altronde sostituire gli spadoni con pistole con silenziatore manderebbe in vacca mezza trama, vedi la visita della Lady sul luogo del delitto e soprattutto la sua aria del sonnambulismo, dove lei si gratterebbe... i residui di polvere da sparo) e se le scalate al potere (e conseguenti ricadute) avvengono in ascensori ottocenteschi.

Macbeth è un’opera che tratta di archetipi, non di banali storie medievali, quindi per definizione attualizzabile all’oggi. E sul versante, diciamo, politico, l’attualizzazione di Livermore è addirittura fulminante: la scena dell’esodo dei poveri Scots pare presa da un telegiornale di questi giorni che ci manda le immagini dal confine bielorusso-ukraino!

Peccato che invece Livermore non abbia pensato ad un parallelo altrettanto fulminante fra la creduloneria di Macbeth e consorte e quella di certi no-vax nostrani che si fidano di moderni stregoni... restando pedestremente fedele alle medievali streghe di Shakespeare.

L’opulenza dei mezzi impiegati ha garantito uno spettacolo epidermicamente godibile, ma in teatro assai meno che in TV (questo forse spiega i buh della prima... ieri il regista ha preferito non esporsi.) Ma del resto il grosso degli incassi di questa produzione è previsto arrivi dai diritti TV, dalla vendita di DVD e soprattutto da generose elargizioni degli sponsor, non certo dal botteghino dei teatri!

In definitiva, un allestimento che definirei in-significante, nel senso proprio del termine: che non apporta significati (e meno male che non ne apporta di diametralmente opposti rispetto all’originale). Uno spettacolo tutta forma e poco contenuto, applicabile probabilmente al 95% almeno delle opere di teatro musicale, da Rigoletto a Tristan.
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Le scelte filologiche di Chailly (ballabili e arioso finale di Macbeth) devo personalmente censurarle: che sia grande musica è fuor di dubbio, ma i 10 minuti di pantomima a casa delle streghe sono insopportabili come le fermate impreviste dei Frecciarossa in aperta campagna: magari hai di fronte un bel panorama, ma ti scoccia maledettamente di stare immobile (invece di andare a 300 all’ora per arrivare in 3 ore da Roma a Milano) e di farti sorpassare da un intercity scalcinato!

Quanto al Mal per me (ho potuto appurare navigando qua e là che Abbado effettivamente lo fece cantare a Cappuccilli nel 1975 e sul tema rimando i curiosi all’appendice al post) se Verdi nei 36 anni che gli restarono da vivere (dal 1865) mai tornò sulla decisione di reintrodurlo, una ragione ci sarà pure, credo. Ad esempio che non volle dare al personaggio quel risvolto patetico e strappalacrime - tanto melo-drammatico quanto anti-shakespeareiano - che si concede normalmente al tenore che, con la spada ancora conficcata nel petto, si rialza per cantare eroicamente l’ultima aria dell’opera! (Giustamente, invece, Otello quel regalo se lo meriterà...)

A giustificazione di questa scelta, Chailly cita un ritorno motivico fra il Preludio e le ultime battute dell’aria: sul verso Vil corona, vil corona... si odono due schianti orchestrali (FA minore - DO maggiore, tonica-dominante) che vengono dalle battute 24-25 del Preludio, dove separano l’esposizione del primo tema (quello delle Streghe) dal secondo (quello che introduce nel quart’atto il sonnambulismo della Lady). A me pare francamente una motivazione piuttosto debole: quelle due battute hanno una ben precisa funzione sinfonica nel Preludio, indipendentemente dal loro ritornare o meno nel corpo dell’opera.

Sul piano della direzione e concertazione nulla da dire, anzi molto, e tutto in positivo: all’appropriatezza delle agogiche (stacco di tempi) già positivamente giudicabile in TV si aggiunge l’attenzione alle dinamiche che il Direttore gestisce con assoluta cura, bilanciando sempre al meglio il suono della buca con il canto che arriva dal palco. Un lavoro di scavo nei dettagli della partitura che gli fa onore e gli merita l’applauso incondizionato che il pubblico (quasi da tutto-esaurito) gli ha tributato al rientro ed alla fine. Naturalmente è l’Orchestra poi a realizzare praticamente l’approccio interpretativo del Direttore, e anche ieri gli scaligeri hanno dato il meglio di sè: l’oboe di Fabien Thouand e il violoncello di Sandro Laffranchini sono le punte dell’iceberg di una prestazione davvero sontuosa.

Altrettanto dicasi del Coro di Alberto Malazzi, perfetto sia nel padroneggiare i complessi passaggi delle stregonerie che i grandi concertati che costellano la partitura. I piccoli del pensionato Bruno Casoni si sono pure fatti valere. Vengo alle voci, alle quali deve aver giovato l’esperienza della prima, nel senso di mettere ulteriormente a punto i rispettivi ruoli.

Luca Salsi ormai lo conosciamo bene (personalmente ho sentito dal vivo almeno tre suoi Macbeth, incluso quello del 1847) e anche ieri non si è smentito, riempiendo gli ampi spazi del Piermarini con la sua voce calda e penetrante, accompagnata da sapienti sfumature espressive.   

Anna Netrebko, un filino trattenuta a SantAmbrogio, ieri pare essersi liberata di paure e complessi e ha sfoggiato tutta la sua classe: si dice che Verdi volesse un’interprete più teatrale che musicale... beh, ascoltandola ieri forse si sarebbe ricreduto, ecco.

Ildar Abdrazakov ha iniziato, chissà, magari ancora un poco freddo, con un eccessivo vibrato, ma poi è uscito da par suo e ha dato spessore al suo ruolo, per di più facendo anche (come pretendeva Verdi) il morto che cammina (e, nella pantomima, si trascina pure il pargoletto attaccato al piede!)

Francesco Meli ha una parte effettivamente concentrata sull’aria e su un paio di concertati: ci ha comunque messo tutto se stesso, dando il suo prezioso contributo all’alto livello musicale di questa produzione.

Iván Ayón Rivas (lo sentivo dal vivo per la prima volta) è stato una bella sorpresa e credo che abbia tutte le carte in regola per far molta strada.

Chiara Isotton e Andrea Pellegrini rappresentano altre due perle di questa produzione: che si può permettere due voci così sontuose per due ruoli - sul piano quantitativo, sia chiaro - davvero marginali.

Tutti all’altezza del compito gli altri comprimari.

Che dire in conclusione? Un Macbeth musicalmente al top. Uno spettacolo tutto fumo e poco arrosto. Pubblico prodigo di ovazioni e - per mancanza di... bersagli - niente buh.
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Il giallo della morte di Macbeth in Abbado-Strehler   

Chailly, assistente musicale di Abbado ai tempi delle rappresentazioni scaligere del ’75-‘76, riferendosi alla sua odierna decisione di inserire prima del finale l’aria della morte di Macbeth (Mal per me...) cita proprio il precedente di 46 anni fa. Ma quell’aria fu davvero cantata (da Cappuccilli) sulla scena?

Ovviamente esisteranno molti testimoni oculari-auricolari dentro e fuori dal teatro che potrebbero confermarlo (o meno) ma chi, come il sottoscritto, non ebbe la ventura di assistere a nessuna di quelle rappresentazioni e deve quindi accontentarsi di ciò (moltissimo, ma non tutto) che passa il convento la rete, può interrogare principalmente le seguenti fonti informative: youtube, google-search, archivio storico della Scala e siti internet che vendono registrazioni ufficiali o più o meno rapinate (tipo diffusioni radiofoniche o simili).

L’Archivio storico della Scala ci fornisce intanto le seguenti informazioni ufficiali: la produzione in questione andò in scena nella stagione ’75-’76 (8 rappresentazioni fra dicembre e gennaio più tre a NewYork in tournée a settembre ‘76); poi nella stagione ‘78-‘79 (6 rappresentazioni fra aprile e giugno ’79); infine nella stagione ’84-’85 (7 rappresentazioni a maggio 1985). Un particolare interessante per le successive ricerche riguarda il cast: i tre ruoli principali sono sempre sostenuti da Cappuccilli, Verrett e Ghiaurov, mentre la parte di Macduff nel ’75-’76 (in Scala) fu sostenuta sempre da Franco Tagliavini (a NewYork si succedettero Ottavio Garaventa e Veriano Luchetti) poi nel ’79 il titolare fu sempre Luchetti e nell’85 cantarono Peter Dvorsky e Walter Donati. Altro indizio importante: il libretto dell’opera (verosimilmente parte del programma di sala dal ’75 in poi) non comprende l’aria in questione.

Veniamo ora a youtube: vi si possono vedere o ascoltare due recite: una sedicente (e falsamente, come si vedrà) del gennaio ’76 (trasmessa in video dalla RAI) e una (audio) certamente della ripresa del 1985 (18 maggio). In entrambe l’aria in questione non viene eseguita. Tuttavia scopriamo che il video RAI è erroneamente attribuito a gennaio ’76: ce lo dice la locandina che compare in testa (e poi in coda): Macduff è Veriano Luchetti! Quindi siamo per forza nel 1979, precisamente (come ci confermano sia l’Archivio Scala che la RAI) il 30 giugno (ultima recita).

A questo punto ci rimane il dubbio proprio sulla stagione ’75-’76: possibile che l’aria fosse cantata allora e poi mai più presentata (dallo stesso interprete della stessa produzione originale) nelle due riprese successive?

In effetti, allora fu cantata. Ne abbiamo due diverse fonti informative: la prima è l’edizione discografica della Deutsche Grammophon, con la quale Abbado aveva l’esclusiva, pure ascoltabile su youtube): stando alle informazioni sul CD, fu rilasciata inizialmente il primo gennaio ’76 (quindi a recite ancora non concluse!) e successivamente rimasterizzata. E qui - apriti sesamo - ecco magicamente comparire, nella penultima traccia del CD, Cappuccilli con il Mal per me!

Sempre dalle note allegate al CD scopriamo però alcuni dettagli interessanti, e pure... inquietanti: per prima cosa si tratta di una registrazione fatta in studio e non in teatro (mancano in effetti gli applausi); il tenore che interpreta Macduff è - ma guarda un po’ - il Topone Domingo! Ma soprattutto, sotto l’elenco degli interpreti troviamo le indicazioni Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, Direttore Claudio Abbado e - ma riguarda un po’ - Wiener Philharmoniker!!!

Mammamia, conoscendo ciò che avveniva già allora (e a maggior ragione oggi) nelle sale di incisione e soprattutto nella post-produzione, dove si monta (leggi: taglia e cuci!) il prodotto da mettere in commercio, ci resta il dubbio che al Piermarini l’aria non si fosse proprio sentita, e che Chailly ricordi quindi solo le prove fatte in sala di incisione.

Invece è un sito semi pirata (HouseOfOpera) a portare la pistola fumante, la registrazione radiofonica (di infima qualità, incluso il black-out che taglia fuori metà del second’atto) della prima del SantAmbrogio 1975 dove l’aria è ben presente, contornata dagli applausi del pubblico.

Ma allora una domanda sorge spontanea: perchè nel ’79 (registrazione video RAI) e nell’85 (registrazione audio) l’aria non compare? Forse che Cappuccilli la cantò solo nel ’75-’76? Ma allora com’è che lui la cantò (e questo è certissimo) a Salzburg nel 1984 con Chailly e i Wiener, per poi tornare ad escluderla un anno dopo in Scala? Domande che restano senza risposta, salvo il sospettare che qualche interesse (e qui il sospettato n°1 è la Deutsche Grammophon) non abbia imposto a tutti una specie di copyright - quindi un veto - sulla diffusione di quel brano...  

Ed è ciò che vien da sospettare prendendo ad esempio proprio la registrazione RAI del ’79. Un acuto commentatore del video su youtube ci fa osservare che l’audio della chiusa dell’aria del sonnambulismo (Verrett) sembra in realtà prelevato dal CD della Deutsche Grammophon, e io aggiungo che non vi si sente alcun applauso, cosa semplicemente incredibile! Per di più, uscita la Verrett di scena, l’inquadratura torna su un Abbado che ha tutta l’aria di riprendere a dirigere dopo un po’ di tempo (appunto: gli applausi alla Verrett). Ma quindi, insomma: se il video RAI è stato oggetto di taglia-e-cuci in quel punto, chi ci dice che anche l’aria di Cappuccilli non sia stata tagliata in studio? Torniamo a guardare quel video al momento della zuffa fra Macbeth e Macduff: Cappuccilli e Luchetti vanno a confrontarsi armi in pugno sull’estremo fondo-scena, addirittura scomparendo dentro la foresta (vera o posticcia) di Birnam. A questo punto però l’inquadratura passa sulla buca e su Abbado, che dirige il breve postludio seguito al ferimento di Macbeth. Poi dà un attacco e l’inquadratura torna sulla scena per il finale trionfo. Domanda: chi ci assicura che, durante il citato postludio, Cappuccilli non sia tornato sulla scena per poi cantare l’aria, tagliata in studio?

Ecco, come nel gioco dell’oca, siamo tornati alla casella zero: solo testimoni oculari-auricolari (dentro e fuori dal teatro) potrebbero darci smentite o conferme riguardo le altre 23 rappresentazioni (incluse le 3 di NY) andate in scena dopo la prima di quell’ormai lontano 7/12/75.

07 dicembre, 2021

Il Macbeth televisivo

Le mie impressioni a caldo dopo ascolto-visione TV sono tutto sommato positive, con buoni voti alla parte musicale (cui però farò l’esame vero fra qualche giorno, dal vivo) e discreti per lo spettacolo, che ho l’impressione sia stato pensato (come pure la Tosca del ’19) più per il piccolo schermo che per il teatro.  

Al netto delle solite messe-in-guardia, doverose quando si ascoltano i suoni portati all’orecchio dai bit e non dall’aria, devo dire che tutte le voci hanno fatto bella figura: Salsi è un Macbeth ormai super-collaudato e la Netrebko canta come doveva cantare ai tempi di Verdi la Tadolini (quindi non sarebbe piaciuta al Peppino...): se proprio le devo trovare un pelo nell’uovo, citerei la caduta di ottava sui due REb della chiusa del sonnambulismo, che lei ha separato e non legato (ma forse ne è responsabile la posizione... imbragata cui l’ha costretta Livermore). Abdrazakov e Meli hanno messo tutta la loro professionalità nei due ruoli-mignon che impersonano e lo stesso han fatto gli altri comprimari. Eccellente come da tradizione il coro passato nelle mani di Alberto Malazzi da quelle di Mario Casoni, che mantiene però la salda guida delle Voci bianche.

Chailly in gran spolvero: tempi ben misurati e buon dosaggio delle dinamiche (da verificare dal vivo, in rapporto alle voci). Orchestra in stato di grazia, evidentemente preparatasi al meglio per l’occasione.

I ballabili: da elogiare la scelta di farne delle pantomime e di coinvolgervi i protagonisti (la Netrebko ha un futuro per quando si stancherà di cantare!) Tuttavia non si può non arricciare il naso (come sempre) riguardo l’effetto-calmante che hanno sulla drammaturgia. 

Davide Livermore, parlando delle sue regìe di Attila (ieri) e Macbeth (oggi) ogni due parole aggiunge distopico. L’Italia ai tempi della comparsa dell’Attila era distopica. Il mondo di oggi che viene rappresentato nel suo Macbeth è distopico. Qualunque cosa voglia dire... Al solito si è preso ovazioni e ululati; personalmente manterrei una posizione di benevola indifferenza, non avendo lui preteso di re-inventare il soggetto, il che mi basta, ecco.

Patria oppressa sembra non si addica all’Italia di oggi, almeno a giudicare dall’interminabile applauso che ha accolto il Presidente.

12 dicembre, 2018

L’Attila scaligero: un nazi ante-litteram


L’Attila del Verdi rimasto affascinato dalla lettura di Werner era un tipo forse un filino talebano nell’etica (proprio binaria: 0-1, tutto o niente, bene o male, bianco o nero) e quindi estraneo a compromessi e manfrine, spietato con i perdenti e i voltagabbana... ma ammiratore e rispettoso dei nemici ispirati alla sua stessa etica binaria.

Ora, come si spiega che un individuo sanguinario come l’unno possa essere stato presentato - nel corso dell’800 - prima in un dramma e poi in un’opera musicale come un personaggio positivo? Positività che emerge inoppugnabilmente dalla musica che Verdi gli ha cucito addosso, le mille miglia lontana da quella idonea a caratterizzare un bieco e feroce dittatore dei giorni nostri (Hitler, Stalin, Franco, Pinochet, PolPot, Bokassa, Saddam, Osama...) E di certo diversa da quella che Verdi avrebbe composto se - puta caso - avesse dovuto o voluto musicare un soggetto ambientato nel terrore francese, protagonisti Robespierre&C...

Credo che la risposta stia nel tipo di scenario e di contesto storico che sono sullo sfondo dell’opera. Quello dell’Attila porta alla nostra attenzione vicende remote, ambientate in un mondo dove una civiltà evoluta ma in decadenza (Roma) era minacciata da (in)civiltà primitive (perchè ospitate in parti del mondo estranee alla civiltà greca e poi romana) ma proprio per questo a modo loro genuine; e dove il barbaro Attila era mosso da istinti quasi animaleschi, ma in sostanza naturali, il che ne fa - agli occhi di Verdi e ai nostri occhi - un personaggio persino degno di ammirazione.

Sì, poichè uno stesso atto o fatto noi lo possiamo percepire in modo completamente diverso a seconda del contesto e della prospettiva storica in cui esso si inserisce. Un atto di violenza anche feroce compiuto da un seguace di Attila nel 452 certo non lo potremo mai giustificare, ma possiamo comprenderlo in ragione delle circostanze storiche in cui si è materializzato; e per questo Verdi può permettersi di rivestire le truci esternazioni del condottiero e i cori truculenti di Unni, Eruli e Ostrogoti, inneggianti a stragi e stupri, di musica positiva (modo maggiore, baldanzoso, propriamente eroico) ed è per questo che noi non solo non ci scandalizziamo di ciò, ma anzi l’apprezziamo.

Tutto però cambia se cambia l’ambientazione del soggetto. Ed è ciò che fa Davide Livermore in questo suo allestimento. Ambientato di fatto ai giorni nostri (o in giorni a noi benissimo presenti, perchè vissuti). E più precisamente ancora - nelle due parti principali che caratterizzano questa trasposizione, la prima ad Aquileia e l’altra nel campo di Attila del second’atto - ci troviamo chiaramente immersi in uno scenario che ha scoperti riferimenti nazisti. Dapprima vediamo l’Italia del post-8-settembre-1943, come risulta evidente da alcuni precisi particolari della messinscena: Odabella e poi Foresto che stringono drappi tricolori; la scena presa pari pari da Roma, città aperta di Rossellini, ambientato come ben sappiamo proprio in quel preciso periodo storico; gli aguzzini che osserviamo mentre trucidano a sangue freddo inermi cittadini, comportandosi precisamente come si comportarono i classici Kapò nazi, a noi ben noti, quali Kappler, Priebke e compari (Marzabotto, Ardeatine, ...)

Se lo scenario è questo, allora il condottiero che arriva a cavallo all’inizio dell’opera, se proprio non Hitler in persona, può benissimo riconoscersi in Albert Kesselring, comandante supremo delle forze naziste in Italia nonchè criminale di guerra riconosciuto e come tale condannato. E aggiungiamo che Ezio (ambiguo generale romano) ci fa proprio la figura del Maresciallo Badoglio, che da alleato dei nazisti - non dimentichiamo che anche Attila ed Ezio erano stati alleati, ai tempi delle spedizioni contro i Burgundi! - è ora diventato un traditore voltagabbana.

Quanto al secondo riferimento, è incontestabile che la scena del festino nel campo di Attila sia di ambientazione squisitamente nazi, mutuata scopertamente da pellicole italiane, come quelle della Cavani (Il portiere di notte) di Brass (Salon Kitty) e di Pasolini (Salo’).

Quello di Livermore è - riguardo i momenti caratterizzanti - uno scenario che ci presenta uno spaccato della nostra contemporanea civiltà evoluta all’interno della quale si è prodotta - per degenerazione cancerogena - una moderna barbarie. Uno scenario che sta letteralmente agli antipodi di quello musicato da Verdi: a differenza del buon selvaggio Attila, qui abbiamo Hitler (o chi per lui) che, non dimentichiamolo, aveva alle spalle Hegel, Marx e persino... Wagner! E purtroppo quella stessa musica positiva di cui Verdi ha gratificato gli Unni primitivi del 452 adesso ci viene cantata da aguzzini nazisti nel 1943, che magari hanno mandato al creatore nostri padri o nonni... E ciò fatalmente offende la nostra sensibilità e il nostro intelletto, oltre che offendere Verdi e la sua opera!

Insomma, in questo caso (come spesso avviene) l’attualizzazione del soggetto provoca l’intollerabile discrasia fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva. E a poco serve riconoscere che ciò che si osserva, in sè e per sè, sia opera di ingegno e professionalità, di cui non si può non dare atto a tutta l’equipe di Livermore. Ammirando - una fra tante - la geniale trovata di impiegare il famoso dipinto di Raffaello come sfondo al tableau vivant della scena dell’incontro Attila-Leone. O le efficaci proiezioni, vedi il ricordo di Odabella dell’ammazzamento del padre da parte di Attila.

Per la verità altre invenzioni del regista sono assai meno memorabili, come ad esempio la ferita che Attila provoca alla mano di Odabella consegnandole la sua arma da taglio (e perchè mai un simile gesto?); o il colpo di pistola tanto gratuito quanto fuori tempo (dal punto di vista drammaturgico) con cui Ezio ferisce Attila, che viene poi legato come un salame, il che dequalifica il successivo gesto di Odabella dal livello eroico (Giuditta-Oloferne) a quello vile (Maramaldo-Ferrucci).

In sostanza: un allestimento di alto livello purtroppo inquinato dall’ambientazione incoerente con il soggetto da rappresentare. Ho la vaga impressione che dall‘avvento del cosiddetto teatro-di-regìa (diciamo da 50 anni come minimo a questa parte) si sia verificato nel mondo dell’opera lirica (e forse non solo in esso) un fenomeno che chiamerei di dissociazione fra il contenuto (ciò che si sente) e la forma (ciò che si vede) attraverso la quale tale contenuto viene presentato. Basta che la forma sia - com’è sicuramente nel caso in questione - accattivante, e la coerenza con il contenuto diventa automaticamente un optional, al quale si rinuncia con grande disinvoltura. Il nesso causa-effetto di questo imbarbarimento (!) dei costumi è tutto da decifrare: è il Regietheater ad averlo provocato, oppure è esso stesso un effetto di quell’imbarbarimento? Ai sociologi l’ardua sentenza.
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Anche ieri sera (come già per la prima vista in TV) Riccardo Chailly non mi ha pienamente convinto. Intanto confermo la mia personale contrarietà alle scelte (sedicenti) filologiche del Direttore: la romanza di Foresto scritta per Moriani è certo apprezzabile (ed è sicuramente musica di mano di Verdi!) ma a mio parere è più debole dell’originale. Quest’ultimo (testo di Solera) è assai drammatico nella prima strofa, dove Foresto dichiara che per Odabella avrebbe fatto qualunque cosa (e non a caso Verdi lo musica in modo minore); e nella seconda (in maggiore) Foresto chiede a Dio perchè mai consenta che un angelo del cielo (Odabella, già come tale apostrofata con una frase musicale assai simile nella cavatina del Prologo) si macchi di una colpa così grave come il tradimento.

Il testo (rimasto anonimo) per Moriani è invece più sdolcinato: Foresto ricorda la sua felicità passata e il riferimento all’angelo non è più per Odabella, ma narcisisticamente per se stesso! E Verdi musica entrambe le strofe in un languido e donizettiano REb maggiore. Chi, come Emanuele Senici (sue note sul programma di sala) ha esplorato anche la versione Ivanov (testo di Piave) mi pare abbia pochi dubbi nel reputarla testualmente e musicalmente superiore.

Non parliamo poi delle 5 battute di Rossini inserite prima del terzetto dell’Atto III: lasciano davvero il tempo che trovano. Rossini stesso disse di averle composte per suonarle mentre i suoi ospiti a Passy si accomodavano chiacchierando per ascoltare il terzetto, un modo come un altro per richiamarli al silenzio!

Chailly ha infine mantenuto la promessa di far eseguire un allargando il tempo a Ezio, Foresto e Coro sull’ultimo verso dell’opera (Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!!) La cosa, oltre ad essere del tutto arbitraria (sono quelle che chiamo pisciatine di cane sulla partitura...) ha ottenuto per me un effetto assai discutibile. Insomma, è stata il degno suggello ad una direzione pulita e precisa, curatissima nei dettagli, ma troppo - sempre secondo me - cerebrale e, in termini musicali, eccessivamente sostenuta. Così facendo Chailly ci ha restituito un Attila in guanti gialli e in punta di piedi: insomma, troppo fioretto e poca vanga! Ma Attila non è Boccanegra nè Otello...

Ildar Abdrazakov si è confermato un solido Attila, scenicamente e vocalmente (anche se le note gravi non sono proprio il suo forte). Lunghissimo e meritato l’applauso a scena aperta dopo Oh miei prodi!

La Odabella di Saioa Hernández ha confermato alle mie orecchie ciò che di buono ricordavo di lei. Voce corposa e penetrante, ha tratteggiato degnamente il personaggio, sia nelle sortite eroiche che nelle esternazioni più liriche (Oh! Nel fuggente nuvolo).

Sufficiente ma non di più l’Ezio di George Petean, che ha una voce poco... ehm, verdiana; oltretutto quella stupidaggine di fare il SIb acuto sul piangerà - un vero obbrobrio - davvero se la (e ce la) poteva risparmiare (uno come Muti, per dire, lo avrebbe minacciato di licenziamento in tronco!) Ancora non ci si spiega la ragione del suo subentro al posto dell’annunciato Piazzola (che pure non è un marziano, sia chiaro) che difficilmente avrebbe fatto di peggio.

Fabio Sartori è ormai un abitué del ruolo di Foresto, che padroneggia con molto mestiere, senza pecche ma anche senza mai lasciare il segno, ecco. Fossi in lui, mi riterrei discriminato dal Direttore, per aver dovuto cantare la romanza di Moriani (degna di un Nemorino qualunque, haha!)

Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) hanno fatto ben più del minimo sindacale, e per questo si meritano ampio riconoscimento.

Sui suoi alti livelli il Coro di Casoni (inclusi i piccoli) giustamente ovazionato alla fine. Pubblico caloroso e prodigo di applausi e bravi! per tutti.

08 giugno, 2015

A Torino il Faust di Noseda-Poda

 

Ieri il Regio ha ospitato la terza del Faust di Gounod, nell’allestimento curato da Stefano Poda con la concertazione di Gianandrea Noseda. Evidentemente la berlinese disfatta (peraltro onorevole) dei bianconeri di fronte al Messistofele argentino non deve aver pesato molto sulle propensioni melodrammatiche dei torinesi, inducendoli a lasciare pochi spazi vuoti nel loro grande anfiteatro. Oppure è il caldo infernale che gli ha consigliato un pomeriggio con l’aria condizionata compresa nel prezzo del biglietto.   

Si sa che Faust fu a più riprese rivisto e corretto dall’Autore, che era sempre disponibile ai più prosaici compromessi pur di avere le sue opere eseguite. E così non ci si deve scandalizzare più di tanto per tagli o varianti apportate per la messinscena di turno. Nel nostro caso Noseda, in combutta con Poda (per sua stessa ammissione in un’intervista a Susanna Franchi, trasmessa mercoledì da Radio3 in un intervallo della diretta) ha preso le seguenti decisioni (o si è preso le relative libertà…): ha tagliato (ma lo si fa spessissimo, quanto proditoriamente) l’aria di Siebel del quart’atto (Si le bonheur) e il Baccanale di Walpurgis (che non è nemmeno di mano di Gounod, ma di un tale wagneriano a nome Ludwig Alexander Balthasar Schindelmeißer e viene talora eseguito nella versione tedesca dell’opera); sempre in Walpurgis ha invece ripescato - e discutibilmente, poiché furono un cedimento alle stupide esigenze de l’Opéra - due dei sette ballabili (1 e 7) su richiesta specifica di Poda, tagliando quindi il canto bacchico. Ancora su sollecitazione del regista ha spostato alla fine dell’atto (IV) la scena nel Duomo, in pratica ripristinando la sequenza di scene dell’originale di Goethe, che Gounod aveva mutato non senza ottime ragioni. Insomma, la solita costruzione del meccano, più o meno plausibile, tanto per conferire caratteristiche di uniqueness (nel caso specifico: di jamais vu) alla produzione…  

Da parte sua Poda ha però messo su uno spettacolo intelligente, limitando le stranezze a pochi dettagli tutto sommato innocui. Scena perennemente occupata da un gigantesco anello: 10m e più di diametro, 2m di altezza e 50cm di spessore; un martinetto fissato al centro della piattaforma rotante e al bordo superiore dell’anello consente di inclinare questo da angolo zero (quindi adagiato sulla piattaforma e creante un ambiente chiuso) a 90°, facendolo agire da sfondo (più o meno) aperto della scena. Dentro o sotto l’anello troviamo nel primo atto una catasta di libri e riviste (tutta la scienza, enciclopedica quanto non gratificante, del Dottore); che viene coperta nel secondo atto da oggetti di esiguo valore scientifico, ma di alto contenuto esistenziale: bacco (teste di vitello), tabacco (no, questo mancava) e venere (rosse scarpe da donna con tacco 13) tutta roba portata lì da studenti e borghesi in perenne caciara godereccia. Poi ci troviamo una sfera con scritte in tedesco dal Faust autentico e poco più. A proposito di Faust autentico, Méphistophélès alla fine del second’atto s’infila una tunica con l’eloquente scritta Man hat Gewalt, so hat man Recht (Faust II, atto V, Palast). Nell’atto IV sull’anello cala un coperchio con intagliata una enorme croce che poi, con l’anello alzato in verticale e retro-illuminato, crea un grande effetto con la silhouette di Méphistophélès che vi si staglia mentre maledice Marguerite. Nel finale, dopo che l’anello è servito come gabbia per la prigione della protagonista, ne compare un altro sullo sfondo, mentre l’opera si chiude. Insomma, c’è un po’ anche di signore degi anelli (smile!)

Altri simboli da ricordare sono una serie di clessidre che all’inizio circondano la piattaforma, ad indicare a Faust e a noi che tutti si invecchia senza scampo: due clessidre vengono anche recapitate al protagonista e al diavolo tentatore proprio alla fine, da un gruppo di bianchi angioletti, come a dire: credevate di aver raggiunto l’immortalità, fregando il tempo, ma adesso ve lo dovete risorbire, ecco.

Nell’atto III tutti i 4 protagonisti sono a piedi nudi: no, per la verità in un primo momento Marthe ha scarpe con tacco a spillo, poiché ci appare come una classica segretaria un po’ racchia che però vuol far colpo sul capufficio, e infatti subito il diavolaccio le mette le mani sulle tette… e così anche lei si leva le scarpe! Prima però avevamo apprezzato il mazzolino di fiori di Siebel, che per Poda è un cappotto ricoperto di fioroni dai colori sgargianti; così, per non esser da meno, ecco che Méphistophélès, oltre ai gioielli, porta anche un cappotto tutto tempestato di diamanti (ma sì, come diceva Totò, facciamo vedere che siamo ricchi…) e poi i gioielli mica sono in una cassettina, ma in un autentico comò a doppia anta e cassetti! Come potrebbe la povera Marguerite non cedere di fronte a tanto ben di dio? L’atto si chiude con i due protagonisti in posizione… ehm… avete capito, mentre il diavolo se la ride.

L’atto IV comincia lì dove il terzo è finito, ma con Faust che se la svigna, dopo aver evidentemente compromesso la poveraccia, che si vede costretta a scambiare il cappotto prezioso con uno imbottito di fiori secchi e crisantemi! Tagliato l’intervento del povero Siebel, si passa direttamente al ritorno dei reduci dal fronte (la scena nel duomo è spostata alla fine atto). Uomini e donne che nell’atto II vestivano in sgargiante rosso vivo qui son tutti in profondo… nero: si sa, la guerra esige il suo prezzo in vittime e crea vedove in quantità. La serenata del diavolo viene cantata a una fila di 8 donne incinte di… palloncini gonfiabili, che il nostro fa scoppiare uno dopo l’altro mentre canta alla bella Catherine! Poi fra Valentin e Faust c’è un normalissimo duello alla pistola, e così si perde del tutto il determinante intervento del diavolo a consegnare a Faust una vittoria truccata! Come detto, la scena nel Duomo è spostata a fine atto, proprio seguendo la sequenza originale di Goethe (ma anche la prima idea di Gounod). Cosicchè l’incipit dell’organo qui serve per accompagnare, direi appropriatamente, il funerale del povero Valentin. La cui sorellina, appena da lui maledetta, viene quindi ri-maledetta dal diavolaccio e dai suoi accoliti. Va riconosciuto che questa scena è di grande impatto: come detto, la croce entro la quale si staglia la figura di Méphistophélès è proprio da brividi. Qui il regista aggiunge anche – in penombra - un nudo femminile integrale, immagino a simboleggiare tentazioni, peccati e quant’altro.

Sempre a piedi nudi troviamo Faust e sodale nella scena di Walpurgis, dove compare uno stuolo di danzatori spalmati di cerone bruno (faranno i nubiani nel primo dei due balletti e resteranno lì anche nella scena della prigione, così, per ammortizzarne il costo, smile!) e pure completamente nudi (salvo tanga e perizomi per non dover vietare lo spettacolo ai minori di anni 12, ari-smile!) simulando le orge delle grandi cortigiane antiche. Ho già anticipato della scena finale, con la beatificazione di Marguerite e le clessidre consegnate a Faust e sodale.

Ora però non si deve pensare che a me lo spettacolo sia parso un… avanspettacolo, tutt’altro: a parte questi pochi dettagli che vanno presi tutto sommato con simpatia, devo dire che il risultato complessivo di questa proprosta di Poda sia da giudicare completamente positivo. E così l’ha giudicato il pubblico, che ha acclamato il regista e tutta la sua troupe.

Ma consensi calorosi sono andati anche ai protagonisti della parte musicale (che poi è o dovrebbe essere quella che conta). Applausi a scena aperta dopo le principali arie e – questi son stati i più lunghi, e temo che la cosa sia da considerare con sospetto… – dopo i due balletti di Walpurgis. Alle singole, ovazioni e bravo! a non finire.

Irina Lungu mi aveva fatto una buona impressione già anni fa alla Scala e anche ieri è stata una più che convincente Marguerite, che ha ben sopportato anche l’impervio crescendo finale (Anges purs).

Faust era Charles Castronovo, cui forse manca qualche decibel per essere buono e non solo discreto: ha sfoderato i due acuti (SI nell’atto secondo e DO nel terzo) con grande appropriatezza e senza sguaiataggini, risultando un po’ meno efficace nella parte più bassa della tessitura. Ma è giovane e può solo migliorare ancora.

Il Méphistophélès di Ildar Abdrazakov ha mostrato grande presenza scenica e apprezzabile vocalità: cioè ha sempre cantato e mai vociferato o schiamazzato. Personalmente ho gradito di più (palloncini a parte…) la serenata del quarto atto che non il vitello del secondo.

Valentin era Vasilij Ladjuk e convintamente gli assegno un bel voto, su tutta la linea: nella cavatina del second’atto, come nella scena del duello e della morte-con-maledizione del quarto. Bella voce, bene impostata, quasi da baritenore, direi appropriata per il personaggio.

Il Siebel di Ketevan Kemoklidze ha un solo demerito, ma da attribuire alla coppia Noseda-Poda: non aver potuto cantare l’aria del quart’atto! Perché per il resto lei mi è parsa più che efficace in questo ruolo en-travesti, tutt’altro che facile ad interpretarsi come si deve.

Marthe era Samantha Korbey, che qui al Regio non ne perde una (un po’ come Panariello alla Scala, per dire): se l’è cavata discretamente, tenuto conto che la parte non è proprio proibitiva.

Anche il Wagner di Paolo Maria Orecchia ha fatto con onore la sua parte. Sempre all’altezza il coro di Claudio Fenoglio.

Gianadrea Noseda ha ancora una volta guidato i suoi con grande rigore, rispettando quella distaccata nobiltà di scrittura che Verdi rimproverava (credo proprio ingiustamente) a Gounod. Ottima la sua concertazione delle voci e quindi meritate le ovazioni che l’hanno accolto all’uscita. 

Bene, ci fosse stata anche una… coppa, sarebbe stata una giornata irripetibile! 

17 aprile, 2013

Normariella ci prova a Bologna


Uno degli eventi più attesi del millennio (smile!) si sta consumando a Bologna, dove è in scena una Norma… fuori-norma. O almeno tale ritenuta da molti sacerdoti del culto del soprano drammatico, che considerano una bestemmia e una provocazione che il ruolo della terrificante sacerdotessa gallica venga sostenuto da una vocina più adatta, caso mai, ad impersonare la mite e patetica Adalgisa. (La quale Adalgisa, per inciso, qui è Carmela Remigio, che fa la… pendolare - smile! - proprio dal ruolo di Norma, quasi a dimostrazione che l’uno vale l’altro, ahahaha!)

Personalmente mi tengo alla larga da simili diatribe, anche perché se l’alternativa è fra un soprano drammatico che bercia e uno leggero che canta, ho pochi dubbi sulla scelta…  
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Sui contenuti e sul soggetto (e le incongruenze storico-geografiche) dell’opera ho già dissertato (smile!) in occasione di una rappresentazione di un anno addietro al Regio torinese, e colà rimando l’eventuale lettore masochista… Allego piuttosto uno scritto di Friedrich Lippmann su Bellini, apparso su Musica&Dossier nel giugno 1987.

Dirò quindi due cose sull’allestimento di Federico Tiezzi, una co-produzione del triangolo Bologna-Trieste-Bari (al Petruzzelli andò in scena nel lontano e infausto 27 ottobre 1991).

Le tre immagini che seguono danno vagamente l’idea delle diverse prospettive sotto le quali si può vedere l’opera: la prima (ripresa al San Carlo nel 1987) riproduce quella di Alessandro Sanquirico per la prima alla Scala del 1831, in cui è evidente lo stile neoclassico; la seconda presenta un bozzetto di Felice Casorati (atto IV, quadro II) del 1935 per il Maggio, un approccio chiaramente realista e paganeggiante; la terza mostra la celebre struttura lignea astratta di Mario Ceroli, per l’allestimento di Mauro Bolognini, che imperversò alla Scala per anni, a partire dal 1972.



Ecco, Tiezzi e lo scenografo Pier Paolo Bisleri (che riprende i fondali originali di Mario Schifano) propongono un’ambientazione, diciamo, sincretizzata, dove troviamo qualche riferimento neoclassico (colonne-quinte) e naturalistico (alcuni fondali) innestati su una base simbolista, rappresentata dall’Irminsul stilizzato e dalla Luna di Schifano). La scena è quasi sempre sgombra, o popolata da pochissimi oggetti. I costumi di Giovanna Buzzi sono anch’essi di epoche diverse: ottocenteschi-napoleonici quelli dei romani, più neoclassici (vedi le lunghe tuniche) quelli dei galli. Anche le suppellettili di casa-Norma (ridotte peraltro a due sedie e poco più) sembrano settecentesche, mentre il trenino-giocattolo del figlio della profetessa ci riporta necessariamente nel primo ottocento.

I movimenti dei personaggi e delle masse sono in sintonia con l’austerità delle scene (e del libretto) e tutta la regìa è quindi orientata alla concentrazione sui conflitti psicologici che caratterizzano il soggetto. Il che è da apprezzare in pieno.
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Della parte musicale dirò subito – tanto per introdurre il discorso-Devia – che Casta Diva è stata cantata in FA e non in SOL (tonalità originaria in cui fu composta la cavatina, ergo più adatta ad una voce… leggera) e che quindi la Mariella si è attenuta alla tradizione, senza cercare di… approfittare di una circostanza teoricamente a lei favorevole. Qui abbiamo la sua performance alla prima, dove si può notare un particolare interessante, che testimonia dell’originalità e della cura che la Devia ha messo nella sua preparazione: l’esposizione della prima frase, a 2’15” (a noi volgi il bel sembiante) è eseguita scrupolosamente secondo partitura, con la salita dal SI naturale al LA acuto (sillaba sem) seguita da 3 forcelle sul bian, poi da un respiro e quindi dalla quarta forcella sul LA con salita al SIb acuto e successiva discesa all’ottava inferiore (sempre sulla sillaba bian); invece alla ripresa del motivo (spargi in terra quella pace) a 5’00”, la Devia, dopo la salita dal SI al LA (sulla parola quella) canta anche la parola pace tutta in legato, senza forcelle e senza prese di fiato intermedie (respira più avanti, prima di che regnar):


Un esempio credo legittimo, questo, di intervento sullo spartito, intervento del tutto normale ai tempi del bel canto, dove era anzi richiesto all’interprete di portare, nelle ripetizioni, il suo valore aggiunto rispetto all’originale.  

Ora, avanzare accademici distinguo sulla prestazione della Devia sarebbe non solo irrispettoso verso la straordinaria professionalità di questa cantante, ma anche piuttosto pretestuoso e scarsamente sostenibile proprio in termini estetici: perché ciò che conta è – anche qui, come in politica o nello sport - il risultato. E il risultato complessivo (parlo ovviamente per me e per nessun altro) è stato più che soddisfacente (per gran parte del pubblico… anche di più, a giudicare dal calore generale dell’accoglienza riservata alla protagonista). E non solo per il Casta Diva, ma per l’intera performance della Devia, culminata in un In mia man alfin tu sei, dove la Mariella, oltre ad evitare il naufragio, ha tirato fuori unghie insospettabili!  

L’altra peculiarità di questa edizione – in omaggio al Wagner bi-centenariato, ma anche in ragione dell’ammirazione incondizionata che il genio di Lipsia nutriva per Bellini e a conferma della vocazione wagneriana di Bologna - è rappresentata dall’impiego della variante (Norma il predisse, o Druidi, WWV52) composta da Wagner a Parigi (1839) per l’aria di Oroveso che nell’originale belliniano inizia con Ah, del Tebro al giogo indegno (scena V, atto II, brano invero splendido e con chiari rimandi tematici al precedente Non partì). Ecco il fascicoletto col contributo wagneriano fare capolino dal volume della partitura di Mariotti, nel bel mezzo dell’atto secondo:


Detto fra noi, e con tutto il rispetto per Wagner (sia ben chiaro) a mè mme pare… ‘na padanada! Ci si sente qualche folata dell’Holländer (toh!) mescolata a scimmiottature dei Puritani, compresa la conclusione con un protervo accordo generale, laddove Bellini chiude in pianissimo! Insomma: una cosa davvero deplorevole, che francamente ci poteva essere risparmiata!
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Del cast di Torino-2012 tornano qui alcuni protagonisti, a cominciare dal padrone di casa Michele Mariotti, il quale conferma in pieno la sua notevole caratura, oltre che il suo approccio all’opera: tempi piuttosto trattenuti, è vero, ma mai grevi, né tali da spossare i cantanti; attacchi sempre precisi e controllo appropriato del volume, attenzione alle minime sfumature… insomma, una direzione autorevole (a proposito, scusate, voi lassù in cima alla Scala… state mica cercando qualche giovine al posto di Barenboim?)

Poi Aquiles Machado, che magari col tempo è un filino migliorato, anche se ancora non mi è parso un Pollione veramente all’altezza (e viene il dubbio che difficilmente lo sarà mai, ahilui). Infine Gianluca Floris, che è stato un Flavio dignitoso.

Sergey Artamonov è un Oroveso di gran presenza scenica; quanto al canto… non mi ha proprio entusiasmato. In più, non vorrei che abbia messo lo zampino nella scelta dell’aria wagneriana, solo per esibire qualche nota (e nemmeno perfetta) in più…  

Carmela Remigio in Adalgisa mi pare stia proprio a… casa sua. Una prestazione pulita e convincente, una partner ben affiatata della Norma di Mariella.

Alena Sautier ha dignitosamente interpretato Clotilde.

Più che apprezzabile anche la prestazione del Coro di Andrea Faidutti, capace di rendere al meglio sia le parti più platealmente enfatiche, che quelle intimistiche, come l’intercalare su Casta Diva.  
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Come detto, gran trionfo per Mariella e per tutti (comunque qualche dissenso, nel clamore generale, mi è parso di percepirlo…): una Norma che magari non farà storia, ma che a chi ha avuto la ventura di assistitervi (senza pregiudizi, come il sottoscritto) ha davvero lasciato il segno!