XIV

da prevosto a leone
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29 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°9


Il nono appuntamento della stagione principale vede il ritorno in Auditorium di un direttore e un solista che già vi hanno messo piede in passato: l’uzbeko Aziz Shokhakimov e il russo-italico Boris Petrushansky. Per offrirci un interessante programma romantico, di un romanticismo che però si estende dall’800 alla metà del ‘900.

Si comincia con il Primo Concerto uscito dalla penna del compositore più rappresentativo (almeno in campo pianistico) del romanticismo ottocentesco, Fryderyk Chopin. Parlare di capolavoro per questo... lavoro sarebbe eccessivo, personalmente lo colloco fra le cose interessanti e soprattutto godibili. Come quelli di Schumann, per dire, o di Grieg, ecco.

Solista e direttore sembrano assai ben affiatati (fecero già coppia qui anche tre anni fa, allora per Rachmaninov): Petrushansky con la tastiera ci va in guanti di velluto, e non solo nella Romanza, mentre Shokhakimov con l’orchestra non risparmia i decibel, ma questo contrasto ci sta assai bene. Il pubblico è da pochi-ma-buoni ed apprezza molto, così il canuto Boris ci regala un altro Chopin, quello del celeberrimo Walzer op.64-2.
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Secondo e ultimo brano in programma una Suite dal balletto in tre atti Zolushka (Cenerentola per gli amici...) di Sergei Prokofiev. Composto durante la guerra, su commissione del Kirov di Leningrado e presentato a fine 1945, il balletto marca un vero e proprio ritorno di Prokofiev al romanticismo in stile-Ciajkovski: sia per combattere con ottimismo i dolori e le miserie del conflitto, sia (chissà) per accattivarsi un establishment che ogni tanto gli faceva (come gli farà ben presto, ahilui) brutti scherzi... I tre atti ripercorrono la leggenda di Perrault (originata a sua volta da antichissime leggende egiziane). Dai 50 numeri del balletto Prokofiev ricavò, ancora durante la composizione, tre estratti per pianoforte (3, 10, 6 pezzi) e poi, nel 1946, tre diverse Suites (di 8, 7, 8 numeri) la prima della quale viene eseguita in questo concerto.

Come spesso accade in casi come questi - e come è abbastanza logico che sia, a pensarci bene, visto che si tratta di musica da eseguirsi senza la danza - la sequenza dei brani della Suite non rispetta rigorosamente quella della trama del balletto. Data la natura del soggetto, è musica accattivante, anche se piuttosto... datata: il confronto con Romeo&Giulietta è al proposito piuttosto impari. Tuttavia ciò non ha impedito al balletto di avere (anche tuttora) un buon successo di pubblico.

Successo che non è mancato ieri: per il Direttore, che con gli anni sembra mettere... la testa a posto; e ovviamente per l’Orchestra, davvero impeccabile nel domare questa partitura per nulla facile.

07 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°21

                               
Il 30enne orsacchiotto uzbeko Aziz Shokhakimov onora finalmente la sua posizione di Direttore Principale Ospite de laVerdi tornando dopo 18 mesi sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione ancora una volta piuttosto inconsueta. Dopo la respighiana Sinfonia Drammatica e la Prima di Kalinnikov, ascoltiamo un’altra quasi-primizia per l’Orchestra (che non la eseguiva da 20 anni): la Quarta Sinfonia di Carl August Nielsen.

Il quale, a dispetto delle reiterate dichiarazioni di voler comporre musica assoluta e non a programma, pose sottotitoli a 4 delle sue 6 sinfonie, etichette che sembrano rivaleggiare con quelle di Scriabin: i 4 temperamenti (no, non musicali, ma psicologici); sinfonia espansiva; l’inestinguibile; sinfonia semplice. Ed è appunto quella denominata Inestinguibile (per la quale è l’attributo di Sinfonia ad essere posto come sottotitolo!) che ascoltiamo questa settimana, composta nei primi anni della Grande Guerra. A fronte della quale l’Autore lasciò un programma (a proposito!) assai dettagliato, quanto ambiguo e contraddittorio, ma riassunto dal concetto: così come la vita, anche la musica è inestinguibile! (messa così, la definizione si attaglia al 99,9% di ogni composizione, almeno nelle intenzioni dei compositori...)

La partitura non indica alcuna suddivisione classica in movimenti, ma solo alcune notazioni agogiche (accompagnate da cambi di chiave) che possono interpretarsi come confini fra 4 pseudo-parti (ma per il resto, manca ogni soluzione di continuità): l’Allegro iniziale, poi il Poco allegretto, quindi il Poco adagio, quasi andante e infine l’Allegro che chiude il brano. La forma ha risvolti ciclici, poichè il tema principale (glorioso) che monopolizza l’Allegro iniziale torna a farsi udire nel finale: ma siamo più alla fantasia che alla sinfonia, a dir il vero. A proposito del citato tema principale, ne è già stata notata (Ludvig Dolleris, 1949) la stretta rassomiglianza con quello che evoca l’alba nella straussiana Alpensinfonie (composta subito prima del lavoro di Nielsen): l’andamento degradante e la tonalità di LA maggiore ne sono testimoni:


E in effetti, avesse Nielsen messo dei sottotitoli ad alcune sezioni della sua opera, l’avrebbe potuta tranquillamente far passare come una risposta alla gita in montagna di Strauss! 

L’orchestra è assai nutrita, ma vi mancano le percussioni a suono indeterminato; in compenso un secondo timpanista è prescritto per intervenire nel finale. Sì, poichè verso la conclusione della sinfonia esplode una vera e propria battaglia di timpani (artiglierie contrapposte nella Grande Guerra, a proposito di musica a programma...) che si chiude con i due esecutori impegnati (per terze!) in una folle salita cromatica (10 delle 12 note della scala) in glissando, il che richiede l’uso esperto dei piedi, oltre che delle braccia:


Altra curiosità riguarda l’impegno del Controfagotto (parlo dello strumento): in più di mezz’ora di musica, viene suonato (dallo strumentista del Fagotto III) per sole 18 battute, proprio all’inizio della citata battaglia di timpani, e per emettere una sola nota (SI).  

In definitiva, un lavoro che merita rispetto più che ammirazione, ecco. Shokhakimov ci ha sguazzato dentro, nulla lesinando delle brutalità sonore che lo costellano, e cercando poi di far emergere - nelle sezioni centrali - qualche squarcio lirico e contemplativo. E l’Orchestra ha dato il massimo per renderci digeribile il tutto. Un appunto che mi sento di fare riguarda la disposizione della coppia di timpani: Nielsen prescrive che i due esecutori siano dislocati ai lati opposti dell’orchestra, evidentemente per creare un effetto di contrapposizione-a-distanza fre due agenti... bellici. Invece le otto caldaie erano poste una adiacente all’altra, col che si è perso totalmente l’effetto-stereo, ottenendo per contro un sesquipedale fracasso indistinto e monocorde.
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Chiudono la serata i Quadri di Musorgski nella celebre strumentazione di Ravel. Quasi esattamente 6 anni orsono erano risuonati qui in Auditorium sotto la bacchetta di un (allora) giovane rampante: Jader Bignamini. Riapparsi nell’autunno 2013 con un altro giovane, D’Espinosa, tornano oggi con Shokhakimov, anche lui (ancora) giovane e a suo modo rampante:



Non so se si capisce, ma l’orso qui raffigurato brandisce la clava proprio come Aziz la bacchetta (!!!) A parte le battute (e poi il Direttore, per i Quadri, la bacchetta l’ha proprio abbandonata...) mi sento di riconoscere a Shokhakimov di essere assai cresciuto, rispetto alle precedenti apparizioni da queste parti: meno atteggiamenti gigioneschi e lodevole sobrietà di gesto e precisione di attacchi. Insomma, l’orso si sta addomesticando!

19 novembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°34


Questa settimana il cartellone de laVERDI propone un programma che evidentemente trova l’interesse del pubblico, almeno a giudicare dalla grande affluenza di ieri sera in Auditorium.

Programma relativamente breve (due brani che occupano più o meno un’ora in tutto) ma impegnativo, aperto dall’ostico Quarto concerto di Rachmaninov, di cui il russo ormai emilianizzato Boris Petrushansky (che è più vicino ai 70 che ai 60, ed è tornato ad esibirsi qui dopo più di tre anni) ha dato un’interpretazione vigorosa e trascinante, anche se (ma questo è un mio parere del tutto personale e riguarda l’autore, non l’interprete) non è riuscito a rendermelo digeribile; insomma, cavar sangue dalle rape non è impresa facile. Il nostro si è rifatto con un pezzo più giovanile dello stesso Rach, l’Etude n°1. (La versione del concerto eseguita è praticamente l’ultima, quella del 1941. Chi fosse interessato ad una pedante elencazione delle differenze fra questa e quella originale del 1928 può riferirsi a questo mio ormai vecchio post.)

Dopo l’intervallo ecco il sempre gigionesco Aziz Shokhakimov dare la sua interpretazione della venerabile Sinfonia in SOL minore di Mozart. Premesso doverosamente che l’Orchestra (guidata ieri da Dellingshausen) non ha mostrato nemmeno una sbavatura, mi sento di dover censurare la prestazione del Direttore in quanto assai monocorde, o monocolore, perchè priva di espressività, fredda e quasi tutta giocata sul forte. Dopodichè si sa che i prodotti marcati Teofilo sono resistenti anche agli agenti uzbeki (smile!) e quindi il successo è anche stavolta, e come sempre, garantito.

25 giugno, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°23


Tocca ad uno dei tre Direttori Principali Ospiti, l'orsacchiotto uzbeko Aziz Shokhakimov, condurre i ragazzi de laVERDI nel concerto di questa settimana, interamente dedicato a Mendelssohn.

Del quale ascoltiamo subito il celeberrimo Concerto per violino, interpretato dal non ancora 40enne serbo Stefan Milenkovich, ex-bambino-prodigio cresciuto anche in Italia e ora americanizzato.

Non si scopre di certo qui la sua straordinaria tecnica, come la sua grande amabilità, dimostrata al termine di un’esecuzione strepitosa, con simpatiche battute ad intercalare non un bis ma addirittura un tris! Tre tappe perfettamente consequenziali: da Mendelssohn non si può che andare a Bach (Allemanda dalla Partita 2); poi ancora Bach (Preludio dalla Partita 1); e da qui, per simpatia, alla Ossessione di Ysaÿe!
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Seconda parte occupata dall’intero (ehm... quasi) corpo delle musiche di scena composte nel 1842 da Mendelssohn per la versione tedesca dello shakespeare-iano Sogno di una notte d’estate (titolo assai appropriato all'attualità... brexit, dico!) Alla famosa Ouverture, che il 17enne di Lipsia aveva composto 16 anni prima, furono aggiunti 13 numeri, che accompagnano alcune delle scene principali del dramma. Di questi, 8 hanno caratteri di numero chiuso (strumentale e con eventuali voci, n° 1-3-5-7-9-11-12-13) mentre gli altri 5 sono costituiti da successioni di brani, spesso brevi o brevissimi, e servono da riempitivo musicale per alcune scene del dramma. Qui vengono eseguiti, dopo l’Ouverture, i numeri 1-3-5-7-9-10(solo la marcia funebre)-11-13.

Se interessa un’esecuzione integrale, la si può seguire con André Previn alla guida della London Symphony.

Mendelssohn, dopo l’Ouverture (in MI maggiore) che è abbastanza lunga (11-13 minuti) non compose alcunchè per l’intero primo atto, che introduce i personaggi umani della vicenda: Teseo e Ippolita, futuri sposi; Egeo, che ha un diavolo per capello (sua figlia Ermia vuol sposare Lisandro invece di Demetrio); Elena, innamorata respinta da Demetrio; una compagnia di artigiani ateniesi che intende allestire uno spettacolo teatrale in onore di Teseo-Ippolita.

A chiusura dell’Atto I ecco invece lo Scherzo (N°1, SOL minore, 12’30”) al termine del quale compare il folletto Puck, che subito all’inizio dell’Atto II incontra una fatina. I due si scambiano notizie sui rispettivi sovrani (Oberon e Titania) che sono però in lite, contendendosi il possesso di un fanciullo indiano. Il N°2 (inizialmente in SOL minore, 17’23”) fa da sfondo al loro incontro. Poi ecco arrivare (17’57”) i cortei di Oberon e Titania, accompagnati da una marcetta in MI minore. Qui abbiamo il battibecco Titania-Oberon a proposito del piccolo indiano e Titania se ne va. In SI minore (19’22”) la musica accompagna ora Oberon che si fa aiutare da Puck a mettere in atto la sua magìa per sottomettere Titania.

Il N°3 (Atto II, Scena II) è un Canto con coro (19’38”): le fatine di Titania (due soprani e il coro femminile) espongono due strofe (in LA minore) e due ritornelli (in LA maggiore). Il N°4 consiste di due coppie di sequenze (MI minore, SI minore) che accompagnano (24’03”) Oberon che opera la magìa su Titania, poi l’arrivo di Ermia e Lisandro, quindi Puck (24’30”) che opera la magìa su Lisandro (invece che su Demetrio) e infine (24’48”) l’arrivo di Elena e Demetrio, cui segue il risveglio di Lisandro che si innamora di Elena.

Il N°5 (LA minore e DO maggiore, 24’55”) è un brano agitato che si suona in chiusura dell’Atto II, quando Ermia si perde nel bosco. Si chiude (27’24”) con un passaggio in LA maggiore che accompagna l’allegro ingresso in scena (Atto III) degli artigiani che discutono dello spettacolo da allestire. Il N°6 (28’26”) è un lungo susseguirsi di spezzoni musicali che devono sottolineare le complicate vicende dell’intero terzo atto: Puck che si prende gioco di Bottom (facendogli una testa d’asino) e Titania che si sveglia (29’34”, i quattro accordi dell’Ouverture distortamente armonizzati) innamorandosi dell’asino, con i folletti che esultano (29’58”). Poi Puck (31’00”) che torna da Oberon, e i due che vedono arrivare Ermia e Demetrio, al che Puck confessa di aver fatto la magìa all’uomo sbagliato. Quindi i battibecchi di Elena con Ermia, Demetrio e Lisandro, il mancato duello fra i due ateniesi, e infine Puck che fa la magìa su Lisandro, per farlo tornare innamorato di Ermia. E qui abbiamo, in chiusura di Atto III (33’38”) il famoso Notturno (N°7, MI maggiore) che accompagna i due amanti addormentati, ma prelude anche al sonno di Titania e Bottom-asino all’inizio dell’Atto IV.

Il N°8 (MI maggiore e minore) fa da sfondo (40’54”) all’inizio dell’Atto IV: Oberon ha ottenuto il fanciullo indiano ed ora sveglia Titania dall’incantesimo, riappacificandosi con lei. Da qui niente musica fino a fine atto (arrivo di Teseo e riconciliazione generale di Egeo con Ermia-Lisandro ed Elena-Demetrio) e i preparativi dello spettacolo degli artigiani.

La celeberrima Marcia nuziale (N°9, DO maggiore) viene suonata alla fine dell’Atto IV (43’08”) così introducendo l’atto conclusivo in Atene. Il N°10 (DO maggiore, minore e MIb maggiore, 48’17”) contiene poche battute per sottolineare l’inizio della rappresentazione e successivamente (48’51”) la marcia funebre per Piramo e Tisbe, amanti suicidi.

Il N°11 (SI maggiore) è la Danza dei clown (Bergomask) che chiude (49’50”) lo spettacolo degli artigiani. Il N°12 (DO maggiore, coda della marcia nuziale) accompagna Teseo e Ippolita in corteo (51’31”); poi (MI minore, i folletti) ecco Puck che anticipa l’arrivo dei cortei di Oberon e Titania. Sono le fate (N°13, finale, SOL minore e MI maggiore) a chiudere lo spettacolo (52’33”) prima del ritorno dei quattro accordi del motto che aveva aperto l’Ouverture.
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L’esuberante (e pure esilarante) Shokhakimov, che nell’intervallo ha smesso il frac per vestire un blusone leggero, ha diretto con molta gigionaggine e pochissima leggerezza, il che non è l’ideale per ricreare l’atmosfera romantica ed eterea di questa partitura. Eccellente la prestazione del coro rosa (10 soprano e 10 mezzo) di Erina Gambarini, che ha ben supportato le due fatine Nina Almark e Mariachiara Cavinato.

Alla fine un successone per tutti, in un Auditorium piacevolmente affollato.

23 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°35

 

Un ragazzino uzbeko, il 26enne Aziz Shokhakimov, sale sul podio de laVerdi (per la seconda volta dopo circa due anni… e la prima non fu proprio un trionfo, diciamolo) per dirigervi un programma che al Beethoven dell’integrale dei concerti pianistici affianca il Prokofiev teatrale. Un palinsesto simile a quello di un concerto della stagione di quattro anni orsono, salvo che allora l’ultima opera in programma fu la ben più corposa seconda di Rachmaninov.

In un Auditorium insolitamente e deplorevolmente disertato da molti (complice forse il maltempo abbattutosi nel pomeriggio su Milano) il protagonista della prima parte è il nostro bravissimo Roberto Cominati (un aficionado ormai di Largo Mahler) impegnato in quello che è forse il più difficile concerto del grande Ludwig, il Quarto.

Lui lo suona divinamente e fa passare in secondo piano alcune iniziali gratuite gigionerie dell’orso uzbeko, che peraltro rinsavisce presto e lo accompagna più che decentemente. Esemplare la cadenza del movimento iniziale (la prima delle due autografe di Beethoven) come la profondità dell’Andante con moto
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Dopo l’intervallo ecco due lavori di Prokofiev legati in qualche modo al teatro. Dapprima la Suite da L’amore delle tre melarance, riproposta, come detto, a distanza di 4 anni (allora diretta dalla Xian). I sei brani riassumono in poco più di un quarto d’ora i contenuti piuttosto surreali dell’opera di cui il terzo (Marcia) è divenuto la vera e propria etichetta, oltre che il leit-motive principale.

L’orso Aziz si mette addirittura a ballare sul podio, creando uno spettacolo nello spettacolo e facendo divertire prima di tutto i ragazzi; che però non si distraggono più di tanto e suonano in modo impeccabile.
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L’orchestra si irrobustisce ulteriormente per la Suite scita, nata da un tempestivo ripiego di Prokofiev che, sfiduciato dal padrino Djaghilev che gli aveva rifiutato, dopo avergliela commissionata, la musica per un balletto dal titolo Ala&Lolly, la trasformò in un pezzo da concerto che ha avuto indubbiamente una certa fortuna, quanto meno all’ombra dello stravinski-ano Sacre.

Il soggetto del (poi abortito) balletto fu scritto da Sergei Gorodetsky, che si basò su storia (o miti) degli Sciti di alcuni secoli avanti-cristo (Prokofiev invece immaginava la vicenda in pieno medio-evo…) che scimmiottano vagamente l’Uccello di fuoco e – sul piano musicale – appunto Le sacre, balletti che Stravinski aveva composto pochissimi anni o mesi prima.

Anche qui abbiamo riti pagani più o meno plausibili, dove si onorano dèi e congiunti (Veles, il sole, e la figlia Ala, una specie di Diana); dove un diavolaccio cattivo (Chuzbog) in combutta con sette spiriti-serpenti poco raccomandabili cerca di far sua la deessa, difesa però da ninfe che incarnano i raggi lunari; e dove un nerboruto mortale (Lolly, ma di che s’impiccia costui?) interviene per salvare la deessa di cui è innamorato e viene a sua volta salvato dall’onnipotente Veles che neutralizza il cattivone Chuzbog; meritandosi comunque un’uscita in gloria accompagnato dal corteggio solare (!?) Come si vede, le analogie con il Firebird sono molteplici, a cominciare dai personaggi: Lolly-Ivan, Chuzbog-Kastchey, Veles-Uccello, Ala-Principessa.   

Lo scenario del balletto doveva essere piuttosto diverso da quello della futura Suite: era in 5 e non 4 quadri e prevedeva la morte di Lolly (là una specie di Orfeo, cantante-poeta) per mano di Chuzbog e poi un finale piuttosto strampalato (Veles che trasforma Lolly in divinità bruciandolo su una pira, e Ala che si butta nel fuoco dietro di lui, e così… perde la divinità!)

La Suite, che richiede un’orchestra ipertrofica, proprio tardo-romantica, con fiati e percussioni in gran numero, consta appunto di quattro parti, il cui contenuto è in qualche modo (e con difficoltà, come detto) deducibile dallo scenario del balletto:

1. Adorazione di Veles e Ala. È suddivisa in due sezioni: la prima, in omaggio al dio, assai pesante (non per nulla l’indicazione agogica è Allegro feroce) caratterizzata da un ossessivo ritmo marziale che invade l’intera orchestra (e curiosamente richiama proprio il motivo dell’ultimo brano delle Melarance); la seconda più contemplativa (Poco più lento) in omaggio alle caratteristiche boschive, ergo romantiche, di Ala, dove si odono cinguettii di uccelli e stormir di fronde, tuttavia in un’atmosfera che non è propriamente idilliaca (qualcosa o qualcuno incombe…)

2. Chuzbog e la danza degli spiriti. Ecco infatti irrompere l’elemento negativo: sarà pure del male, ma pur sempre un dio sembra, questo Chuzbog, almeno a giudicare dalla musica che Prokofiev gli appiccica! Apre con una terrificante esplosione di timpani e grancassa, poi corni e tromboni imperversano su un ritmo marziale insistito, che però – rispetto a quello di Veles - ha un andamento irregolare, come si addice a presenze inquietanti e… serpentine: da 4/4 a 3/4, a 2/4, per finire ancora in 4: insomma, una cosa abbastanza infernale.

3. Notte. Ottavino, arpe, pianoforte e poi celesta introducono un’atmosfera liquida, come di gocce di rugiada che condensano sopra erba e fogliame. Ma non è, ancora una volta, uno scenario del tutto sereno e rassicurante: qualcosa sembra muoversi nell’oscurità, e infatti emerge sommessamente, dalle ondeggianti semicrome degli archi, una specie di sinistra Waldweben a far da sfondo a cupi interventi degli ottoni: che sia il cattivone Chuzbog con i suoi sette sbifidi serpenti che si aggira fra le frasche per insidiare Ala, la protettrice di quei luoghi? Il pericolo sembra svanire presto, con l’arpa che glissando introduce una dolce melodia dei legni: il testo di Gorodetsky fa scendere ninfe sotto forma di raggi lunari che neutralizzano Chuzbog, allergico alla luce. Ma l’atmosfera sembra nuovamente surriscaldarsi (passaggio da 4/4 a 6/4) come se Chuzbog ci stesse riprovando (nel balletto dovevano esserci ben tre suoi assalti ad Ala). Ma i raggi lunari riportano la calma apparente e sono ancora i tocchi dell’ottavino e del glockenspiel a chiudere, con un finale glissando della prima arpa, il movimento. 

4. Marcia di Lolly e corteo del Sole. L’apertura è in tempo Tempestoso, una marcia assillante, che vorrebbe rappresentare l’arrivo trafelato di Lolly in soccorso di Ala, ancora minacciata da Chuzbog. Forse è lei che intravediamo al mutare di tempo in Un poco sostenuto, prima di arrivare ad un Allegro che evoca la preparazione di Chuzbog alla lotta contro Lolly, che sembrerebbe purtroppo soccombere. Ma ecco (Andante sostenuto) il ritorno dei raggi di Veles che neutralizzano definitivamente Chuzbog e accompagnano il trionfo di Lolly.

Certo, non sarà ancora il Prokofiev del fantastico Romeo… ma insomma la stoffa già si sente e come!

Anche qui Aziz ha modo di ancheggiare e sculettare… però senza fare troppi danni, anzi. Così i fedelissimi dell’Auditorium gratificano anche lui, oltre i ragazzi, con convinti applausi.

20 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n°29


Brahms è al centro dell’appuntamento settimanale de laVerdi. Sul podio Aziz Shokhakimov, una specie di Battistoni uzbeko (smile! hanno la stessa età… ma pare che nessuno si chieda da chi sia raccomandato!)

Il quale Aziz (un nome che richiama alla mente personaggi peraltro assai poco raccomandabili…) apre il concerto con la Tragische Ouvertüre (anche qui: un nome, un programma!) Che principia con due poderosi accordi sulla scala di RE minore: dominante/tonica – sopratonica: solitamente si cita l’incipit del beethoveniano Coriolan come riferimento ambientale del brano; personalmente tendo a sentirci di più quello del Manfred del grande mentore, sponsor ed amico Schumann.

Di certo non esiste un preciso soggetto letterario dietro a questo lavoro che – nella più classica applicazione delle teorie Hanslick-iane sulla musica che deve rispondere esclusivamente a se stessa e solo in se stessa trovare ragion d’essere – ci presenta un Actus tragicus di carattere puramente speculativo. Questa piange, mentre quell’altra ride pare dicesse Brahms alludendo all’Akademische Fest-Ouvertüre, composta quasi contemporaneamente nell’estate del 1880: quella peraltro era nata dietro stimoli extramusicali e conteneva persino precisi riferimenti ambientali (Gaudeamus Igitur…)
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La Tragische ha una struttura riconducibile a quella di un movimento in forma-sonata, pur con parecchie libertà. Vi si possono comunque individuare le tre classiche sezioni (Esposizione – Sviluppo – Ricapitolazione) seguite da una Coda. Dopo i due pesanti accordi che la aprono, l’esposizione presenta i due canonici temi: il primo nella tonalità di base (RE minore) e il secondo nella relativa FA maggiore.

Il primo è a sua volta scomponibile in tre motivi: uno ascendente da dominante a dominante, con ricaduta su sopratonica; un secondo che scende da sopratonica a dominante, ricadendo ancora sulla sopratonica sottostante; il terzo che è un ritmo di marcia con increspature trocaiche:


Il tema viene subito ripetuto a piena orchestra e poi ulteriormente sviluppato da nuovi motivi in archi e fiati (derivati da quelli principali) e chiude su una pesante riproposizione degli accordi di apertura. Una transizione lunga e calma – sulle quinte vuote di fagotti  e corni – vede impegnati gli oboi in lente ma brevi scale ascendenti, poi tromboni e tuba che fanno il loro apparire, insieme all’ottavino: tutti richiamano l’intervallo di quarta degli accordi iniziali. L’atmosfera muta quindi al FA maggiore, per l’ingresso del secondo tema (nell’ipotesi Manfred, una fugace apparizione di Astarte?) dove non è difficile scorgere tracce della serena, pastorale seconda sinfonia:

La serenità peraltro non dura molto, e nel suo successivo evolversi il tema subisce diverse modulazioni, con presenza di figurazioni trocaiche e successioni di accordi, caratteristiche di molti sviluppi brahmsiani. Un ritorno del primo tema porta alla conclusione dell’esposizione, sui due pesanti accordi che l’avevano aperta.

Lo sviluppo inizia sommessamente, sul rullo del timpano, con le prime due sezioni del primo tema, negli archi. Dopodichè è la terza sezione (marziale) – in tonalità LA minore - che viene a costituire la parte più corposa dello sviluppo, occupandolo praticamente tutto. Suonata a tempo assai lento (la metà rispetto all’Allegro ma non troppo iniziale) prima dagli strumentini, poi dagli archi, poi da tutta l’orchestra, ha proprio l’aspetto di una marcia faticosa (qualcosa di simile a quella dei briganti nel terz’atto di Carmen!) Viene sottoposta a diverse modulazioni lungo il circolo delle quinte (LA-MI-SI-FA#) e, tramite una lunga scala discendente, sfocia in modo assai drastico nella ricapitolazione.  

Questa inizia con le quarte ascendenti e discendenti negli strumentini e nei violini, mentre gli archi bassi ricordano – dapprima in SI minore, su richiami dei corni - la prima sezione del tema principale. Si torna al RE minore d’impianto, sempre con spezzoni del primo tema negli archi e con i fagotti a creare un’atmosfera piuttosto pesante. Che miracolosamente muta in gloria, con un grandioso corale dei corni in RE maggiore, supportati da tromboni e tuba, che ricorda da vicino il finale della prima sinfonia:

Applicando i sacri canoni della forma-sonata, ecco che il secondo tema (nell’esposizione apparso in FA maggiore) ricompare adesso nelle viole, adeguandosi (volente o nolente, smile!) all’imperante RE. Il tema è ripreso dai fiati, poi si torna a RE minore, con gli scatti di ottave discendenti in archi e strumentini, contrappuntate da ottave ascendenti nei corni. Poi ancora il secondo tema, che compare in SOL minore, prima del passaggio alla coda.  

Qui ancora il primo tema viene esposto in sequenze ascendenti, a partire dal FA# minore, dagli archi bassi e fagotti, poi ecco gli accordi iniziali, quindi la sezione marziale del tema anche negli ottoni. Ancora il primo tema, fortissimo in RE minore, in tutti gli archi, poi ribadito, a velocità dimezzata, dai fiati. Ora l’atmosfera si fa rarefatta, e spezzoni del tema principale compaiono ancora negli archi bassi, supportati subito dai fiati. Una lunghissima scala discendente che scende dai flauti giù giù fino ai fagotti sembra far svanire il tutto nel nulla.

Ma d’improvviso, ecco gli archi (a partire dai medio-bassi) scatenare scale ascendenti su cui i fiati innestano il motivo marziale del primo tema. Che dopo 5 reiterazioni – a distanze accorciantesi – porta ai cinque pesantissimi accordi – l’ultimo tenuto, su corona puntata – dell’intera orchestra.
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Qualche piccola indecisione dei corni all’inizio non ha danneggiato più di tanto l’esecuzione, che il capelluto Aziz ha diretto con veemenza. Lui, come molti giovani, è assai esuberante, ha un gesto apparentemente sporco, a volte si agita gratuitamente, insomma: cerca di attirare l’attenzione su di sé… come sta facendo, a quanto pare, da quando aveva 6 anni!
  
La parte centrale della serata è però tutta di Silvia Colasanti (di cui già nel novembre 2009 laVerdi aveva ospitato il Canto d’Atropo per violino ed orchestra): si tratta di una giovane compositrice di cui siamo i primi in assoluto ad ascoltare – roba da raccontare ai nipotini! – il Concerto per violoncello. Il quale ha ben due sponsor: l’Orchestra Verdi, che lo ha commissionato, e il solista lituano David Geringas, classe 1946, che ne è stato l’ispiratore.

Cosa racconteremo ai nipotini? Per metterli a loro agio potremo pontificare che …il linguaggio possiede un’innegabile inclinazione eidetica… con un carattere ipotipico… e plasticità iconiche… di iconicità sonora… che aggiunge un nuovo lessema… che rammemora gli elementi figurali… con un moderato ductus agogico (strasmile!… e grazie a Guido Barbieri, mannaggia  a lui, e a ciò che ha scritto sul programma di sala!)  

A parte le battute, un pezzo assolutamente digeribile, segno che i vari Stockhausen e Cage non hanno poi fatto danni irrimediabili alla nostra civiltà musicale (!)

Infine il pezzo forte della Prima di Brahms, già ascoltata qui dalla bacchetta di Zhang Xian poco più di un anno fa. L’orso uzbeko, che la dirige a memoria, deve per forza metterci del suo valore aggiunto (sennò che ci sta a fare su quel podio?) così si  inventa subito un insopportabile rallentando (da battuta 9) che avrà fatto rivoltare l’Autore nella tomba. Poi, sempre per distinguersi dall’anonima folla dei direttori, fa venire quasi sempre in primo piano anche ciò che dovrebbe stare in background, a fare da riempitivo. Nel Finale, l’Allegro non troppo, ma con brio assomiglia vagamente alla marcetta dei sette nani, tutti impettiti e rigidi come baccalà (smile!)

Insomma, come parodia non c’è male. Ma i professori mostrano di essere formidabili anche nel suonare le parodie! Così si meritano grandi ovazioni i vari Amatulli, Ciapponi, Mologni, Stocco, Magnani, Santaniello e Grigolato. Quanto al simpatico Aziz, temo che Brahms lo stia rincorrendo per chiedergli i danni (e ri-smile!)

Prossimamente protagonisti l’arpa, serenate e commiati.