Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima
del nuovo allestimento di Turandot, firmato dalla
coppia Davide Livermore / Michele Gamba.
Sul piano dei contenuti del soggetto (libretto
e musica) si tratta di un prudente, conservativo ritorno alla normalità, che
garantisce l’alto gradimento del vasto pubblico: Alfano-Toscanini, tanto
per intenderci, salvo che il libretto, pubblicato sul programma di sala e in Internet,
è quello – udite, udite – con il testo del finale di Berio!!! [Ah, scherzi del cut&paste, fatto
dall'edizione del 2015 anziché da quella del 2011…]
In ogni caso, ingressi esauriti per
tutte le sette recite!
Vengo subito all’allestimento di
Livermore. Partendo proprio dal… trapasso. Quello di Liù, che coincide con
quello da... Puccini ad Alfano. Il regista ha interpretato a suo modo la
ricorrenza dei 100 anni dalla morte del Maestro coinvolgendo l’intero teatro
(masse interpreti della produzione e il pubblico in sala) in una cerimonia
commemorativa che ha sospeso la rappresentazione per un minuto di
raccoglimento, con mezze luci in sala, e minuscoli lumini elettrici di cui sono
stati dotati anche gli spettatori.
Sopra il palco era calata un’enorme immagine
a mezzo busto (del tipo di quelle che si incastonano sulle lapidi funerarie) di
Puccini, recante la scritta delle poche parole pronunciate da Toscanini il 25
aprile 1926 in occasione della prima, dopo aver deposto la bacchetta e chiuso
così quella storica recita.
E francamente avrebbe potuto essere la
conclusione (da condividersi) anche della serata di ieri… ma evidentemente i
contratti con l’editore (Ricordi) prevedono anche uno dei due finali posticci
(Alfano o Berio) e quindi la recita è ripresa con Alfano-II. Ma anche
con una geniale sorpresa che Livermore ci ha offerto, e di cui scriverò tra
poco.
Il regista si è attenuto strettamente al
soggetto della fiaba, senza minimamente inquinarlo con personali iniziative, ma
interpretandolo con un magniloquente approccio che definirei da versione 2.0 di
un de Ana o di uno Zeffirelli.
Le scene (sue e di Eleonora
Peronetti e Paolo Gep Cucco) ci mostrano le due facce di Pachino:
quella del degrado degli slum dove vive il popolo, un verminaio
di esseri perennemente in agitazione, nella quasi oscurità e vestiti di cenci
dalle cento sfumature di… nero; e quello, opulento e sfarzoso, della città
proibita, con luci (Antonio Castro) sfavillanti, costumi (di Mariana
Fracasso) preziosi ed eleganti e cortigiani rigidamente inquadrati in
schiere militaresche, tipo il famoso esercito di terracotta, per
intenderci.
E poi una serie di oggetti dalla simbologia
più o meno chiara, come l’enorme sfera che scende sulla scena; o i riferimenti
agli enigmi (tre gabbiani meccanici che svolazzano fissati sulla punta di aste
portate in giro da ragazzi, o i tre principini in erba che accompagnano le
altrettante fasi della tenzone di sapienza); e poi la sagoma di un bianco cavallo (animato da tre figuranti) che irrompe sula scena prima e dopo gli enigmi, forse a rappresentare l’attitudine
di Calaf all’avventura…
Il tutto accompagnato da immagini video
(D-WOK) proiettate sullo sfondo o all’interno della sfera di cui sopra.
Infine Livermore fa comparire in scena il
povero Principino di Persia che la folla fin da subito si diverte a bistrattare
in ogni modo, umiliandolo e bullizzandolo fino a lasciarlo proprio nudo come un
verme, forse a punirne le ingenue velleità… Ma soprattutto ci mostra – e qui mi
ricollego al finale – la rinsecchita figura dell’ava Lo-u-Ling, che incombe
dietro alla pronipotina a ricordarci la causa del formarsi della gelida
personalità di Turandot.
Ebbene, nella scena finale del duetto
Calaf-Turandot la trisavola si frappone continuamente tra i due, come per
difendere la pronipote dagli assalti di Calaf. Ma poi, ecco la grande trovata
di Livermore, che avrebbe potuto persino dare a Puccini l’idea giusta per
chiudere lui stesso l’opera in modo conveniente. Invece dell’ultimo assalto –
con prosaico bacio - al corpo di Turandot, ecco che Calaf si dirige sull’antica
progenitrice e la fa oggetto di un toccante gesto di comprensione, quasi a
voler riparare il tremendo torto da lei subito in gioventù.
E così ecco che lo sgelamento di Turandot si
giustifica con la parallela presa di coscienza di Calaf! [Tanto di cappello al
regista!]
Aggiungerò un altro paio di idee registiche
che mi sembrano degne di nota, perché rivelano qualcosa della natura di due
personaggi: il pugnale con cui Liù si ferisce non viene strappato ad un
soldato, ma dalle mani di… Calaf! E l’Imperatore Altoum ci viene presentato nei
panni – anche materiali - di un innocuo e rassegnato ospite di una RSA!
Ecco, uno spettacolo di gran livello,
dove magari è la forma a prevalere, ma dove anche la sostanza non solo non
viene adulterata (come troppo spesso accade) ma addirittura nobilitata.
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Michele Gamba (subentrato al designato Harding)
conferma le sue buone attitudini per l’opera, già emerse in precedenza qui alla
Scala (Foscari, Elisir, Rigoletto). La sua dimestichezza con la musica
contemporanea evidentemente lo aiuta a mettere in risalto le molte modernità
della musica di Turandot, assai innovativa anche rispetto allo stesso Puccini delle
opere precedenti.
L’orchestra è stata praticamente
perfetta, ricreando a meraviglia tutte le atmosfere fiabesche, crude, liriche e
drammatiche che caratterizzano la partitura.
E il Coro di Malazzi è stato se
possibile ancor più sontuoso del suo solito: in quest’opera trova effettivamente
il terreno sul quale dispiegare tutta la sua forza e il suo proverbiale affiatamento.
Di Anna Netrebko mi sento
paradossalmente di dire che canti fin troppo bene per abbassarsi ai panni di questa
cattivona (!) La sua è stata una prestazione di assoluta eccellenza. Come lo
sarebbe forse ancor più se lei vestisse i panni del tritagonista (come qui… o qui).
La quale Liù è invece la casertana Rosa
Feola, che non è (ancora?) la… divina Anna, ma insomma mi pare se la sia
cavata – e proprio nelle due arie di cui sopra - più che dignitosamente.
Yusif Eyvazov non ha cambiato
(…ehm) i connotati al timbro di voce, il che perpetua la sua qualità meno
nobile, ecco. Peccato, perché per il resto nulla gli manca come potenza ed
espressività.
Più che discreto il Timur di Vitalij
Kowaljow, bel vocione potente ed efficace presenza scenica. Raúl Giménez
è stato a sua volta – anche grazie al regista - un patetico Imperatore.
I tre piccoli porcellin alti funzionari
statali: Ping (Sung-Hwan Damien Park) Pang (Chuan Wang) e Pong (Jinxu
Xiahou) han fatto più che dignitosamente la loro parte, tutt’altro che
secondaria, in specie il primo nei suoi patetici ricordi dell’Honan.
Oneste le prove del Mandarino (Adriano
Gramigni) e delle due ancelle (Silvia Spruzzola e Vittoria
Vimercati.)
Haiyang Guo è il tenore che
ha in assoluto la parte più massacrante in tutta la storia del melodramma;
dovendo cantare – oltretutto da dietro le quinte (altrimenti ieri sera avrebbe dovuto
apparire in pubblico tutto nudo!) - nientemeno che questo:

Beh, ecco: ha superato di slancio
l’impervio ostacolo!
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In definitiva: una proposta accolta
trionfalmente dal pubblico, con lunghe ovazioni e consensi per tutti, con punte
– ça va sans dire –
per la divina Anna. Da non perdere!