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17 gennaio, 2025

Gatti (e Strehler) fanno rivivere Falstaff alla Scala.

Ancora Verdi in scena per il secondo spettacolo dalla stagione, che presenta una storica produzione dell’opera ultima del Peppino. Ier sera la prima, accolta da un caloroso successo di pubblico (folto sì, ma non proprio da tutto-esaurito, e con qualche defezione lungo il cammino…)

Poche parole per elogiare, a 45 anni di distanza, l’allestimento di Strehler (ripreso da Marina Bianchi) che resta tutt’oggi un esempio di fedeltà a testo e musica, resistente agli attacchi del tempo. Di certo superiore a quello abbastanza velleitario di Michieletto (dato qui ultimamente nel 2017) e al precedente ancora, moderno ma non certo esente a sua volta da critiche, di Carsen (2013-15).

Ecco, di quella ripresa del 2015 resta oggi in piedi il… podio: dove è tornato Daniele Gatti, che quest’opera la conosce come le sue tasche (l’ha diretta tutta a memoria). Se devo fargli un appunto, mi è parso un poco eccedere nelle dinamiche, spesso sovraccaricando il suono dell’orchestra, così correndo il rischio di coprire le voci. A proposito dell’orchestra, una curiosità: dieci anni fa Gatti aveva disposto legni e corni all’estrema sinistra, mentre oggi è tornato ad un layout abbastanza usuale.

Alla fine, per lui e per il coro di Malazzi (come per il team della Bianchi) solo applausi e consensi.

Il cast ha in generale ben meritato. A parte Ambrogio Maestri, che con il passare degli anni e delle… recite sembra ancora migliorare, mi sentirei di dargli dei giudizi che vanno dal buono, al discreto al sufficiente, suddividendolo in tre gruppi: nel primo colloco la Quickly di Marianna Pizzolato, il Ford di Luca Micheletti e il Cajus di Antonino Siragusa; nel secondo la altre tre rappresentanti del sesso debole: la Alice di Rosa Feola, la Nannetta di Rosalia Cid e la Meg di Martina Belli; nel terzo gli altri tre maschietti: Marco Spotti (Pistola), Christian Collia (Bardolfo) e Juan Francisco Gatell (Fenton).

E infine, giusto menzionare il piccolo paggio Lorenzo Forte, un prezzemolino (invenzione di Strehler) davvero bravo e simpatico.

In conclusione, una serata tutto sommato piacevole, in attesa dell’incombente panzer wagneriano.


26 giugno, 2024

Il funerale di Puccini secondo Livermore

Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima del nuovo allestimento di Turandot, firmato dalla coppia Davide Livermore / Michele Gamba.

Sul piano dei contenuti del soggetto (libretto e musica) si tratta di un prudente, conservativo ritorno alla normalità, che garantisce l’alto gradimento del vasto pubblico: Alfano-Toscanini, tanto per intenderci, salvo che il libretto, pubblicato sul programma di sala e in Internet, è quello – udite, udite – con il testo del finale di Berio!!! [Ah, scherzi del cut&paste, fatto dall'edizione del 2015 anziché da quella del 2011…]

In ogni caso, ingressi esauriti per tutte le sette recite!

Vengo subito all’allestimento di Livermore. Partendo proprio dal… trapasso. Quello di Liù, che coincide con quello da... Puccini ad Alfano. Il regista ha interpretato a suo modo la ricorrenza dei 100 anni dalla morte del Maestro coinvolgendo l’intero teatro (masse interpreti della produzione e il pubblico in sala) in una cerimonia commemorativa che ha sospeso la rappresentazione per un minuto di raccoglimento, con mezze luci in sala, e minuscoli lumini elettrici di cui sono stati dotati anche gli spettatori.

Sopra il palco era calata un’enorme immagine a mezzo busto (del tipo di quelle che si incastonano sulle lapidi funerarie) di Puccini, recante la scritta delle poche parole pronunciate da Toscanini il 25 aprile 1926 in occasione della prima, dopo aver deposto la bacchetta e chiuso così quella storica recita.

E francamente avrebbe potuto essere la conclusione (da condividersi) anche della serata di ieri… ma evidentemente i contratti con l’editore (Ricordi) prevedono anche uno dei due finali posticci (Alfano o Berio) e quindi la recita è ripresa con Alfano-II. Ma anche con una geniale sorpresa che Livermore ci ha offerto, e di cui scriverò tra poco.

Il regista si è attenuto strettamente al soggetto della fiaba, senza minimamente inquinarlo con personali iniziative, ma interpretandolo con un magniloquente approccio che definirei da versione 2.0 di un de Ana o di uno Zeffirelli.

Le scene (sue e di Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco) ci mostrano le due facce di Pachino: quella del degrado degli slum dove vive il popolo, un verminaio di esseri perennemente in agitazione, nella quasi oscurità e vestiti di cenci dalle cento sfumature di… nero; e quello, opulento e sfarzoso, della città proibita, con luci (Antonio Castro) sfavillanti, costumi (di Mariana Fracasso) preziosi ed eleganti e cortigiani rigidamente inquadrati in schiere militaresche, tipo il famoso esercito di terracotta, per intenderci.

E poi una serie di oggetti dalla simbologia più o meno chiara, come l’enorme sfera che scende sulla scena; o i riferimenti agli enigmi (tre gabbiani meccanici che svolazzano fissati sulla punta di aste portate in giro da ragazzi, o i tre principini in erba che accompagnano le altrettante fasi della tenzone di sapienza); e poi la sagoma di un bianco cavallo (animato da tre figuranti) che irrompe sula scena prima e dopo gli enigmi, forse a rappresentare l’attitudine di Calaf all’avventura…     

Il tutto accompagnato da immagini video (D-WOK) proiettate sullo sfondo o all’interno della sfera di cui sopra.

Infine Livermore fa comparire in scena il povero Principino di Persia che la folla fin da subito si diverte a bistrattare in ogni modo, umiliandolo e bullizzandolo fino a lasciarlo proprio nudo come un verme, forse a punirne le ingenue velleità… Ma soprattutto ci mostra – e qui mi ricollego al finale – la rinsecchita figura dell’ava Lo-u-Ling, che incombe dietro alla pronipotina a ricordarci la causa del formarsi della gelida personalità di Turandot.

Ebbene, nella scena finale del duetto Calaf-Turandot la trisavola si frappone continuamente tra i due, come per difendere la pronipote dagli assalti di Calaf. Ma poi, ecco la grande trovata di Livermore, che avrebbe potuto persino dare a Puccini l’idea giusta per chiudere lui stesso l’opera in modo conveniente. Invece dell’ultimo assalto – con prosaico bacio - al corpo di Turandot, ecco che Calaf si dirige sull’antica progenitrice e la fa oggetto di un toccante gesto di comprensione, quasi a voler riparare il tremendo torto da lei subito in gioventù.

E così ecco che lo sgelamento di Turandot si giustifica con la parallela presa di coscienza di Calaf! [Tanto di cappello al regista!]  

Aggiungerò un altro paio di idee registiche che mi sembrano degne di nota, perché rivelano qualcosa della natura di due personaggi: il pugnale con cui Liù si ferisce non viene strappato ad un soldato, ma dalle mani di… Calaf! E l’Imperatore Altoum ci viene presentato nei panni – anche materiali - di un innocuo e rassegnato ospite di una RSA!

Ecco, uno spettacolo di gran livello, dove magari è la forma a prevalere, ma dove anche la sostanza non solo non viene adulterata (come troppo spesso accade) ma addirittura nobilitata.
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Michele Gamba (subentrato al designato Harding) conferma le sue buone attitudini per l’opera, già emerse in precedenza qui alla Scala (Foscari, Elisir, Rigoletto). La sua dimestichezza con la musica contemporanea evidentemente lo aiuta a mettere in risalto le molte modernità della musica di Turandot, assai innovativa anche rispetto allo stesso Puccini delle opere precedenti.

L’orchestra è stata praticamente perfetta, ricreando a meraviglia tutte le atmosfere fiabesche, crude, liriche e drammatiche che caratterizzano la partitura.

E il Coro di Malazzi è stato se possibile ancor più sontuoso del suo solito: in quest’opera trova effettivamente il terreno sul quale dispiegare tutta la sua forza e il suo proverbiale affiatamento.

Di Anna Netrebko mi sento paradossalmente di dire che canti fin troppo bene per abbassarsi ai panni di questa cattivona (!) La sua è stata una prestazione di assoluta eccellenza. Come lo sarebbe forse ancor più se lei vestisse i panni del tritagonista (come quio qui).

La quale Liù è invece la casertana Rosa Feola, che non è (ancora?) la… divina Anna, ma insomma mi pare se la sia cavata – e proprio nelle due arie di cui sopra - più che dignitosamente.

Yusif Eyvazov non ha cambiato (…ehm) i connotati al timbro di voce, il che perpetua la sua qualità meno nobile, ecco. Peccato, perché per il resto nulla gli manca come potenza ed espressività.

Più che discreto il Timur di Vitalij Kowaljow, bel vocione potente ed efficace presenza scenica. Raúl Giménez è stato a sua volta – anche grazie al regista - un patetico Imperatore.

I tre piccoli porcellin alti funzionari statali: Ping (Sung-Hwan Damien Park) Pang (Chuan Wang) e Pong (Jinxu Xiahou) han fatto più che dignitosamente la loro parte, tutt’altro che secondaria, in specie il primo nei suoi patetici ricordi dell’Honan.

Oneste le prove del Mandarino (Adriano Gramigni) e delle due ancelle (Silvia Spruzzola e Vittoria Vimercati.)

Haiyang Guo è il tenore che ha in assoluto la parte più massacrante in tutta la storia del melodramma; dovendo cantare – oltretutto da dietro le quinte (altrimenti ieri sera avrebbe dovuto apparire in pubblico tutto nudo!) - nientemeno che questo:

Beh, ecco: ha superato di slancio l’impervio ostacolo!
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In definitiva: una proposta accolta trionfalmente dal pubblico, con lunghe ovazioni e consensi per tutti, con punte – ça va sans dire – per la divina Anna. Da non perdere!
   

24 agosto, 2023

ROF-44 in piazza – Petite Messe Solennelle

Confesso che l’idea di recarmi una quarta volta in pochi giorni alla decentrata quanto cacofonica (applico all’architettura alle vongole una categoria della musica…) Vitrifrigo Arena (arrivandoci e ripartendoci in auto da Rimini) senza invece fare almeno una volta quattro passi per la bella Pesaro (arrivandoci comodamente in treno) è stata la molla principale che mi ha convinto a rinunciare alla presenza dal vivo per la PMS e a godermi, oltretutto a-gratis (limitazioni incluse, ovviamente…) lo spettacolo dalla Piazza del Popolo, dove da anni viene regolarmente diffuso in streaming il concerto che chiude il Festival. Almeno 5-600 le persone che hanno seguito così l’evento.

Un paio di osservazioni, diciamo così, tecniche, sull'esecuzione: la prima riguarda il famoso Prélude Religieux che, dopo due esecuzioni nella versione spuria (quella orchestrata dal compianto Alberto Zedda) è tornato – opportunamente, direi proprio - all’originale nel solo organo, magistralmente suonato da Nicola Lamon. (Qui un mio post del 2014 sull’argomento.) L’altra riguarda l’associazione dei solisti alle parti cantate dal coro: Rossini l’aveva prevista in alcuni numeri, forse perché il coro delle prime esecuzioni era davvero ridotto all’osso; qui al ROF, come sempre, anche ieri i solisti non si sono aggregati.

Ovviamente (va sempre ripetuto) l’ascolto tecnologico non permette di formulare giudizi compiuti sui suoni, ma qualcosa si può comunque osservare, ad esempio le agogiche tenute dal Direttore. E qui devo dire che il profeta-in-patria Michele Mariotti, che tornava al ROF dopo 4 anni (Semiramide 2019) e debuttava nella PMS non mi ha del tutto convinto: avendo tenuto tempi (per me) troppo sostenuti e slentati, come del resto testimoniano i 90’ netti di durata dell’esecuzione (se confrontati ad esempio con i 78’ di questo impeccabile Chailly).    

Sui suoi standard di eccellenza l’OSN-RAI, che invece suonava per la seconda volta (al ROF, s’intende) la Messa, avendola già eseguita nella precedente apparizione del 2018. 

Il Coro del Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina era al primo approccio di quest’opera, dopo aver cantato di recente in due Stabat Mater (2017-21) e non ha tradito le attese. Invero trascinanti, in particolare, i monumentali passaggi fugati del Cum Sancto Spiritus e del Credo (l’Allegro cristiano!) dove finalmente Mariotti ha allentato un po’ le briglie…

Tutti da elogiare i solisti, a partire da Vasilisa Berzhanskaya, di ritorno al ROF dopo due anni: nel 2021 aveva trionfato come Sinaide nel Moise e a seguire aveva cantato lo Stabat Mater nell’edizione in forma scenica diretta da Bignamini. Davvero rimarchevole la sua prestazione, culminata nell’accorata implorazione dell’Agnus Dei.

Bene anche Rosa Feola, debuttante al ROF, che ha illustrato con calore il Crocifixus e l’O Salutaris. Le due si sono anche distinte insieme nel Qui Tollis.

Dmitry Korchak faceva parte del quartetto protagonista della penultima apparizione della PMS, nel 2014, sotto la direzione di Zedda. Efficace, stentoreo e cesellato il suo Domine deus.

Giorgi Manoshvili era al suo primo impegno importante al ROF. Più che buono il suo Quoniam, per profondità e portamento. Voce potente, ma magari qualche decibel in più non guasterebbe, proprio sulle note più… basse.

Grandi applausi per tutti e conclusione in… gloria. 
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Bene, archiviato anche il 44, ci si prepara al 45, che dovrà essere proprio speciale, essendo naturalmente la colonna portante dell’evento Pesaro: capitale italiana della cultura 2024… E l’annuncio divulgato già la sera dell’11 lo conferma, almeno sotto l’aspetto quantitativo: 4 titoli (e non 3 come uso ormai consolidato) e cioè Ermione (terza produzione, dopo 1987 e 2008); Bianca&Falliero (quarta apparizione, dopo 1986, 1989 e 2005); Barbiere di Siviglia (diventerà recordman di apparizioni, 7, dopo 1992, 1997, 2005, 2011©, 2014 e 2018); e infine L’Equivoco stravagante (quarta presenza dopo 2002, 2008 e 2019).

Uno sforzo davvero notevole, cui si aggiungerà la chiusura del Festival con Il Viaggio a Reims che celebrerà i 40 anni da quella produzione del 1984 entrata nella storia grazie alla stratosferica coppia Abbado-Ronconi.

Ora non resta da fare che un’implorazione… no, che dico, un’intimazione ai politici locali (e non):

riportate il Festival in città, cazzo!

23 febbraio, 2020

Il Turco (svizzero) convince Milano


In un Piermarini non proprio stipato (chissà... lo sbifido virus, si son visti spettatori con tanto di mascherina) la prima del Turco in Italia in salsa svizzera (Fasolis) è passata con un franco successo ed ha così rialzato la media della qualità della stagione scaligera, che un Trovatore-così-così aveva un filino abbassato.

Merito della coppia Fasolis-Andò, che ha confezionato uno spettacolo assai godibile e soprattutto ben equilibrato in tutti i reparti: voci, orchestra, coro e messinscena.

A Fasolis mi sento di rimproverare (ma solo nel primo atto) una certa eccessiva sostenutezza di tempi e alcune sbracature bandistiche (copertura di voci inclusa) che sono per fortuna state corrette dopo l’intervallo: la sua è stata comunque una direzione complessivamente apprezzabile, come pure le scelte filologiche del ripristino delle arie di Narciso del primo atto (Un vago sembiante) di Geronio (Atto II, Se ho da dirla) oltre a quella di Fiorilla che segue la cacciata da casa. Condivisibili i numerosi tagli e taglietti ai sempre noiosi (per noi) recitativi secchi.

Andò ha saputo da parte sua trovare il giusto equilibrio fra le componenti buffe e farsesche dell’opera e i risvolti patetici e pure... filosofici del libretto. In particolare è centrata la figura del Poeta, onnipresente in scena ma sempre in balìa degli avvenimenti che si accavallano sotto i suoi occhi. Azzeccata la scelta di far distruggere, nel finale, i fogli del suo lavoro da parte dei protagonisti della vicenda: un modo efficace per mostrare la loro indipendenza dagli stereotipi che il letterato gli ha cucito addosso.
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Bene in generale le voci. Mattia Olivieri è un Prosdocimo autorevole, a dispetto della mancanza, nella sua parte, di vere arie: ma i suoi numerosissimi contributi sono stati esposti con voce solida, senza sbavature, e sempre passante su tutta la tessitura. Stesso discorso per il Selim di Alex Esposito, apprezzatissimo dal pubblico anche per le sue note qualità di attore consumato. Il terzo basso, Giulio Mastrototaro, già buon Sciarrone nella Tosca che ha aperto questa stagione, è stato un po’ la rivelazione della serata, con una maiuscola interpretazione del complesso personaggio di Geronio: che lui ha proposto con proprietà di fraseggio e senza facili e farsesche sbracature da macchietta. Andò lo ha fatto pure cantare in platea (che non è proprio il posto migliore per farsi... sentire) ma lui ha superato brillantemente anche questa difficoltà.

Rosa Feola tornava in Scala dopo l’Elisir dello scorso autunno, ed ha confermato quanto di buono emerso allora: la voce è calda e senza sbavature, gli acuti ben portati; forse le note gravi sono da... rendere più udibili, ma poi anche la sua presenza scenica le ha garantito ampi consensi. La parte di Zaida non è certo proibitiva, ma Laura Verrecchia ce l’ha porta con calore e con quel pizzico di patetismo che ben si addice al personaggio.

I due tenori: Edgardo Rocha (Narciso) si conferma in progresso (lo avevo sentito nel ruolo 5 anni fa a Torino, dove non mi aveva proprio entusiasmato, poi meglio aveva fatto due anni dopo qui in una Gazza ladra): voce sottile, ma che riesce a passare anche in un ambiente come quello del Piermarini. Manuel Amati (Albazar) invece, oltre a voce piccina, fa pure fatica a farla arrivare su in loggione, dove la sua Ah, sarebbe troppo dolce si fatica davvero a udirla come si deve.

Si ode invece benissimo, e fin troppo, il coro di Casoni, che travolge, nei pezzi d’insieme, anche le voci dei protagonisti. Sui suoi livelli l’Orchestra, a parte le citate escandescenze impostele da Fasolis.   
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Roberto Andò - benissimo coadiuvato da Gianni Carluccio per scene-luci e Nanà Cecchi per i costumi - come detto firma una regìa sapiente ed elegante, che il pubblico alla fine ha mostrato di apprezzare assai (che scarto rispetto all’accoglienza riservata al Trovatore di Hermanis!)

La scena è praticamente spoglia, vi trovano posto sporadicamente piccole suppellettili (un divano, un tavolo, sgabelli) tutte rigorosamente dello stesso legno (tinta beige-noisette) del tavolato. Dal quale emergono come dall’aldilà (per poi scomparirvi) attraverso ampie botole i vari personaggi, che altre volte entrano ed escono di scena trascinati da sottili pedane traslanti da sinistra a destra o viceversa. Sul fondo onde di un mare dipinto o una muraglia penetrabile; ai lati e frontalmente scendono e risalgono pannelli raffiguranti interni o esterni di abitazioni; nulla più.

I costumi sono appropriati all’ambientazione dell’opera, tutti assai sgargianti ma raffinati. Le luci ben impiegate, anche a supportare i risvolti psicologici di alcune scene (ad esempio quella del ballo mascherato e del ripudio subito da Fiorilla).

Intelligente e sempre equilibrata la recitazione dei personaggi: niente facili sguaiatezze o cachinni, il tutto sempre mantenuto entro limiti di buongusto, perfettamente appropriati al soggetto agrodolce dell’opera.
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I definitiva, una proposta che si è meritata i lunghi applausi e le ripetute chiamate che il pubblico ha riservato a ciascuno e a tutti. Tre ore ben spese, se non altro per esorcizzare la psicosi della quarantena (!)

Adesso però mi preparo partire per Roma, dove mi aspetta un Onegin dal quale mi... aspetto molto.

11 settembre, 2019

Un frizzante Elisir mette la Scala di buonumore.


Sarà forse perchè i contestatori seriali delle prime hanno prolungato le vacanze, fatto sta che L’elisir d’amore andato in scena ier sera al Piermarini (peraltro con diverse poltrone vuote in platea...) è stato accolto con pieno consenso di pubblico, senza se e senza ma. Intendiamoci, nulla di storico o di strabiliante, ma uno spettacolo che nel complesso si è rivelato di buon livello, in tutte le sue componenti: voci, orchestra e allestimento.

Allestimento di Grischa Asagaroff già ampiamente e positivamente collaudato alla sua comparsa nel 2015, con le poetiche e favolistiche scene e gli sgargianti quanto esilaranti costumi di Tullio Pericoli, il tutto sapientemente illuminato da Hans-Rudolf Kunz.

Alla grande come sempre il Coro di Mario Casoni, che Donizetti qui impegna corposamente ad interloquire con i protagonisti, o a creare le tipiche atmosfere contadine in cui prende piede la patetica vicenda di Nemorino e Adina.

E i protagonisti di questo lieto fine hanno riscosso un caloroso consenso di pubblico: lo yankee René Barbera per la sua voce squillante che ha messo al servizio del rustico e ingenuo personaggio, prestazione culminata con un trionfo dopo la Lagrima; la casertana Rosa Feola (non proprio impeccabile soprattutto nelle note gravi) per la civetteria e la verve di cui ha ricoperto la sua parte di ragazza un po’ viziatella ma alla fine... innamorata.

Ambrogio Maestri sembra nato per parti come questa di Dulcamara (o di Schicchi o Falstaff): le fa con tanta efficacia che poi rischia di... compromettere personaggi seri o truci come Amonasro, per dire. Per lui, ormai beniamino della Scala e deus-ex-machina della vicenda, accoglienza poco meno che trionfale.

Discreto anche Massimo Cavalletti, efficace nell’impersonare il tronfio Belcore: qualche forzatura di tono magari poteva essere evitata.

L’accademica Francesca Pia Vitale ha dignitosamente interpretato Giannetta, un ruolo tutt’altro che di contorno.

Per tutti, incluso il mimo Stefano Guizzi (tirapiedi di Dulcamara) applausi e bravo! si sono sprecati.

Positivo anche il ritorno sul podio del 35enne Michele Gamba, che ha guidato un’orchestra in gran spolvero (qualche eccesso di decibel si può perdonare, e comunque non è mai andato troppo a discapito delle voci) e concertato con cura e precisione singoli e masse sul palco (lavorare con gente come Pappano e Barenboim evidentemente fa bene alla salute!) Lo si rivedrà nel sinfonico, il 3 ottobre in Auditorium quando inaugurerà Milano Musica con laVerdi in Francesconi e Mahler.

Come ripeto: tutto sommato una serata più che positiva.

16 aprile, 2017

La Gazza scaligera e Chailly si riprendono ciò che gli spetta


La seconda recita della  Gazza ladra ha (come si poteva del resto facilmente prevedere) rimesso ogni cosa a posto per ciò che riguarda il livello (non sommo, intendiamoci, ma più che accettabile) della qualità complessiva dello spettacolo. E in particolare per ciò che riguarda il Direttore (pretestuosamente contestato alla prima) che è stato invece l’artefice principale del successo dello spettacolo (proprio come Daniele Gatti lo era stato di recente nei Meistersinger).

Dunque, Chailly: una direzione quasi perfetta, proprio a comiciare dai rulli di cassa che aprono l’Ouverture, che a suo tempo lo stesso grande Gioachino – additato per il patibolo da uno scandalizzato quanto stolto violinista – seppe difendere alla grande.

Ma praticamente tutto nella direzione di Chailly è da condividere: lo stacco dei tempi, le dinamiche, le sfumature ora comiche e grottesche, ora serie e lacrimevoli (la marcia al patibolo, una cosa straordinaria!) E poi la concertazione di orchestrali e cantanti: in tre ore e un quarto di musica – non dimentichiamo che si è presentata la versione integrale, recitativi compresi, magistralmente accompagnati da James Vaughan - mai una sbavatura, un attacco sporco, una rilassatezza, una caduta di tensione. Insomma, una dimostrazione di professionalità e di sensibilità interpretativa di alto livello. Per lui solo applausi, dopo l’Ouverture, al rientro e all’uscita finale: un successo che di sicuro lo ripaga delle preconcette e abbastanza ignobili contestazioni della prima. Ragion per cui, chiunque farnetichi di licenziamenti in tronco del Direttore Musicale dovrà rinfoderare le spade di latta (per poi magari ri-brandirle alla prossima, ma con credibilità ridotta a zero).

Per il resto, nel campo sonoro, niente di stratosferico, intendiamoci, ma un livello generale che a mio avviso ha ampiamente meritato la sufficienza, con punte verso il buono ed altre meno, ma insomma... una performance più che dignitosa, accolta da applausi convinti al termine di ogni numero.

Bene come sempre il coro di Casoni, note positive dai tre bassi principali: l’ormai venerabile Michele Pertusi, il cui vocione fin troppo cavernoso ha scolpito ancora una volta il personaggio del bieco Podestà; il bravissimo Alex Esposito, che è stato un perfetto Villabella (personalmente lo trovo assai migliorato rispetto a prestazioni di qualche tempo fa); e l’ormai collaudatissimo Paolo Bordogna, dalla voce calda e rotonda, un Vingradito di gran classe.

Una (per me) piacevole sorpresa i due giovani protagonisti: soprattutto lei, la Rosa Feola, che ha sfoggiato una voce ben impostata soprattutto nei centri, forse da mettere a punto negli acuti, ma in generale ha proposto una Ninetta interessante. Edgardo Rocha ha una voce sottile, ma non piccola, che passa benissimo anche i grandi spazi del Piermarini. Sarà presto per parlare di lui come di un nuovo JDF, ma il suo Giannetto mi è parso davvero di tutto rispetto.

Fra i ruoli di contorno, direi più che bene di Teresa Iervolino, una Lucia convincente, dalla voce potente ma morbida e sempre ben impostata. Un gradino sotto metterò la Serena Malfi, voce ancora un poco rozza (ma con lo studio non potrà che migliorare): comunque se l’è cavata dscretamente nel duetto con Ninetta in carcere. Tutti gli altri quattro comprimari han fatto certamente del loro meglio, e vanno associati alla generale approvazione.
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La regìa di Gabriele Salvatores (con il suo team di collaboratori per scene, costumi, luci e coreografie) non sarà certo da premio Oscar, ma mi è parsa efficace e rispettosa di lettera e spirito del melodramma rossiniano. L’impiego della bravissima acrobata Francesca Alberti nel ruolo del titolo mi è sembrato centratissimo e solo un giudizio superficiale lo può apparentare a quello che Damiano Michieletto ha immaginato per la sua Gazza del ROF-2007 (una ragazzina che sogna l’intera vicenda in cui ricopre il ruolo del volatile): come giustamente e acutamente fa osservare Emilio Sala nel suo intervento sul programma di... sala, l’idea di Michieletto trasformava un dramma che ha basi storiche in una specie di favola da Alice nel paese delle meraviglie, uno scenario completamente estraneo all’originale.

Interessante e simpatica anche la presenza delle marionette di Colla e dei suoi valentissimi collaboratori, presenza mai soffocante ma sempre mantenuta su un livello di grande equilibrio e raffinatezza.
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Ecco, concludo dichiarando che personalmente mai e poi mai mi sentirei di sostenere che fosse meglio rinunciare a questa proposta: perchè Rossini è comunque talmente grande da resistere a qualunque agente inquinante. E anche una proposta appena appena onesta (e questa, sia chiaro, è molto, molto di più) è sempre meglio del digiuno e dell’oblio.