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25 gennaio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.13 - Tjeknavorian

È ancora il Direttore musicale a dirigere l’Orchestra Sinfonica di Milano in un concerto a struttura classica, che presenta tre composizioni che percorrono l’intero ‘800, spaziando da Paganini a Saint-Saëns e passando per Liszt, che fa da filo rosso a collegare gli altri due: poichè dedicò a Saint-Saëns il suo secondo Mephisto-Walzer, ricambiato con la dedica della Terza Sinfonia; fece del violino diabolico (à-la-Paganini) il protagonista del suo primo Mephisto-Walzer; e sul tema paganiniano della Campanella compose uno dei suoi Studi d’esecuzione trascendentale.

Ed è appunto di Franz Liszt il primo brano in programma: si tratta della versione originale per orchestra del primo Mephisto Walzer, in realtà nato come il secondo dei Due episodi dal Faust di Nikolaus Lenau (1859-61) titolato Der Tanz in der Dorfschenke (La danza nell'osteria del villaggio).

Il frontespizio della partitura riporta i versi del capitolo di Lenau. Ad una festa di nozze Mefistofele, per far conquistare una bella ragazzotta all’arrapato ma un po’ inibito Faust, si impadronisce del violino di un suonatore e improvvisa una musica tanto ubriacante e seducente da provocare in tutti la visione di una scena erotica (ehm, un mezzo stupro…) e, di conseguenza, un’autentica danza orgiastica, con tanto di urla virili e gemiti femminili. Così anche Faust può godersi la sua prosperosa brunetta, nei boschi, per l’intera notte…

Il brano presenta quindi, dopo l’introduzione che evoca l’accordatura del violino di Mefistofele, in sequenza e poi in contrappunto, le due componenti della scena: la travolgente e galeotta musica del diavolaccio e i romantici (?) approcci di Faust alla contadinella, fino al canto mattutino dell’usignolo. 

Messa così, si può assimilare questo brano ad uno dei tanti poemi sinfonici in cui Liszt era maestro: musica ispirata ad un testo letterario (o filosofico). Ma qui sorge la perenne domanda, cui ciascuno può dare la risposta che preferisce: per gustarla al meglio, dovremmo aver ben presenti i dettagli dei riferimenti extra-musicali? E quindi dovremmo conseguentemente aspettarci che questa musica faccia a noi che la ascoltiamo oggi lo stesso effetto che fece ai partecipanti alla festa evocata da Lenau-Liszt (?!) Oppure possiamo apprezzare questa musica di per se stessa, applicandovi i canoni puramente estetici, così cari ad Eduard Hanslick?

Personalmente tendo a propendere per questa seconda scelta, lasciando strettamente la prima all’ambito del teatro musicale, dove è il testo esplicito a consentire di valutare l’appropriatezza dei suoni di cui il compositore lo riveste.  

Nel caso in questione faccio fatica ad attribuire al brano la patente di capolavoro, ecco. Detto ciò, va ancora una volta dato atto a Orchestra e Direttore di aver fatto del loro meglio per valorizzare questa musica, cosa di cui il pubblico ha dato materialmente atto, con meritati applausi.

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Il secondo brano è quindi un Concerto solistico: si tratta del Secondo Concerto (in SI minore) di Niccolò Paganini, conosciuto come La campanella per il finale in cui compare appunto quel particolare strumento (solitamente imitato dallo xilofono, o da altri simili sonagli) ad accompagnare, con delicati rintocchi, i FA# sovracuti del solista, nei ritorni del tema del rondò.

E il finale è proprio il movimento più ortodosso, a livello di forma: un Rondo relativamente semplice: A-B-A-C-A, con ritornello e due strofe. L’iniziale Allegro maestoso è invece il più distante dalla forma classica, presentando almeno tre diverse sezioni con motivi che poi non vengono sviluppati in senso classico, per far posto ad esibizioni virtuosistiche del solista. Il centrale Adagio (con introduzione mutuata dal Concerto n°24 di Viotti) dopo una cupa introduzione sfocia in un lungo Lied, caratterizzato da una melodia ripetuta con sottili variazioni.

È un violinista concittadino del Tjek, il 56enne Benjamin Schmid, che ce lo ha porto con una prestazione sensazionale: grande maestria e tecnica superlativa, arrivata al picco nella cadenza del primo movimento, al termine della quale è scoppiato un autentico, lunghissimo uragano di applausi. Nulla dei trucchi paganiniani ci è stato risparmiato: armonici e sovracuti, pizzicati contemporanei all’arco… insomma una cosa davvero grande e indimenticabile, coronata poi da un virtuosistico bis.

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Ha chiuso la serata la Terza sinfonia di Camille Saint-Saëns, divenuta famosa per l’inconsueta (anzi, mai incontrata prima di allora) presenza dell’organo nell’organico (!) orchestrale di una sinfonia (oltre a quella del pianoforte a 4 mani).

A parte il velleitario (e rimasto isolato) tentativo di Berlioz, la Sinfonia era rimasta per gran parte dell’800 esclusivo appannaggio del mondo musicale tedesco: dopo l’inarrivabile Beethoven – erede di Mozart e Haydn - ci avevano provato Mendelssohn e Schumann; poi – dopo mille esitazioni – l’innovatore-conservatore Brahms (in bellicosa compagnia del conservatore-innovatore Bruckner); quindi il suo epigono (non tedesco, ma comunque austro-ungarico-boemo) Dvořák; e infine il russo Ciajkovski, che portava un poco di Parigi in questo territorio teutonico. 

Ecco, Saint-Saëns cercava – soprattutto dopo la batosta militare francese del ’70 - di riportare la Francia alla ribalta (musicale, almeno) proprio in quel campo dove i crucchi spadroneggiavano indisturbati da sempre.

Dopo due tentativi da lui stesso sepolti (e altrettanti nemmeno fatti nascere) arrivò questa Terza Sinfonia (1885) che in realtà, va detto, è rimasta come terza mosca bianca (dopo la Fantastica e quella, piccola e snobbata, di Bizet) nell’intera produzione sinfonica dei galletti d’oltralpe. [Olivier Messiaen, come epitaffio contro Hitler, pensò bene di prendersi una rivincita cumulativa sui tedeschi, con la sua Turangalila, una sesquipedale sinfonia in 10 (in lettere: dieci!) movimenti.]

Tornando a… bomba (!) si tratta di un’opera che personalmente definirei come molto fumo e poco arrosto, nel senso che ha fatto e fa parlare di sé per qualche (apparente) innovazione tecnica e formale: l’organo, ad esempio, appare più come un espediente per fare notizia, che non come strumento che porti un chiaro valore aggiunto alla composizione. 

Le due sole parti in cui formalmente si articola la Sinfonia, in realtà nascondono a malapena – data la loro interna sdoppiatura – la struttura in quattro, assolutamente classica, se pur con qualche bizzarria: la mancanza di ricapitolazione nell’Allegro moderato, con passaggio diretto al Poco adagio (unico squarcio di vera ispirazione, con l’esordio dell’organo) e la giustapposizione del finale (Maestoso, dove torna l’organo) all’Allegro moderato che è di fatto uno Scherzo-con-Trio.   

Ma è soprattutto il programma interno dell’opera che ricalca un clichè già visto e rivisto e che ancora si rivedrà in futuro (Strauss e Mahler, tanto per dire…) Quello della luce dopo le tenebre, del paradiso dopo l’inferno, da DO minore a maggiore, come nella Quinta beethoveniana: della morte-e-resurrezione, insomma. E la chiave di questo programma è nientemeno – novità assoluta (!?) - che il Dies irae!  

Del quale si ode l’incipit (le prime note) già a battuta 12 dell’iniziale Allegro moderato, esposto dai primi violini, in DO minore:

Poi, dopo numerosi ritorni in sembianze sempre cangianti lungo l’arco della Sinfonia, si ripresenterà alla fine, in un DO maggiore persino grossolano, nell’organo:

[È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata - ma guarda un po' - da Franz Liszt.]

Ancora: prima della pomposa, retorica ed enfatica conclusione dell’opera, ecco il tema riapparire negli archi in forma davvero eroica, nella relativa MIb maggiore:

Insomma, una grandeur francamente degna di miglior causa! Che però l’Orchestra, trascinata dal sempre più entusiasta (ed entusiasmante) Tjek, ci ha permesso comunque di apprezzare per poi ricambiare Direttore e strumentisti con lunghi e ripetuti applausi ritmati. Il Maestro ha infine doverosamente portato alla ribalta l’impeccabile Alberto Gaspardo, protagonista alla tastiera dell’organo elettronico. [A proposito di organi, anni fa la Fondazione aveva lanciato l’idea di farne costruire uno vero per l’Auditorium… ma la cosa si dev’esser persa nella nebbia.]


03 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 14

Tutto romantico il contenuto del 14° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretto (graditissimo ritorno, questo) da Oleg Caetani.

Si comincia con Chopin e il suo Primo Concerto per pianoforte e orchestra (in realtà il secondo in ordine cronologico di composizione) suonato – al posto del titolare Alexander Godjiev - da un altro dei giovanissimi (22 anni) fenomeni del concertismo di oggi, Elia Cecino (ecco come il ragazzino lo interpretava un anno fa al Teatro Malibran di Venezia con l’Orchestra della Fenice diretta da Frizza).

Il Concerto è francamente piuttosto... pretenzioso, ecco: basti pensare che il solista deve starsene lì a girarsi i pollici per ben più di 4 minuti (tanto dura l’introduzione orchestrale, che in realtà presenta nella loro completezza i temi che verranno poi suonati dal pianoforte!) prima di… entrare in partita. E poi quell’iniziale Allegro maestoso è davvero un movimento prolisso e ipertrofico (circa 20 minuti!)   

Certo, poi Chopin sapeva proporre temi e melodie accattivanti… che percorrono il Concerto da cima a fondo... E il fantastico Elia ce le ha proposte in maniera davvero trascendentale: non parlo solo e tanto della tecnica sopraffina (che già non è poco…) ma della sensibilità interpretativa, che testimonia grande attenzione e scavo della partitura, nella scelta delle dinamiche e dei proverbiali rubati.

Per lui un gran trionfo, ricambiato non con uno, ma con due encore: lo Chopin della Mazurka Op.24 (la stessa del bis del citato concerto alla Fenice) e questo Shostakovich.
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Ecco poi la poco eseguita Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia für Frauenchor und Orchester di Franz Liszt.

Nel foyer dell’Auditorium è esposta parte della collezione privata di edizioni storiche della Commedia, di proprietà del Presidente Emerito Gianni Cervetti. Vi sono esposti 7 esemplari, che spaziano su più di 4 secoli, dal 1491 al 1921. Ad ammirarli c’era anche il venerabile Quirino Principe, presente al concerto.

Caetani, che fatica sempre di più a camminare ma sul podio è ancora un leone, ha introdotto l’opera ricordando una sua indiretta relazione con l’Autore: il suo trisnonno Michelangelo Caetani conobbe a Roma Liszt (che era là durante gli Anni di pellegrinaggio) ed ebbe, con il figlio Onorato, una lunga relazione di amicizia con il compositore!  

Liszt era praticamente allergico alla musica-pura, per lui i suoni dovevano essere necessariamente associati alle reazioni emotive dell’animo umano di fronte a qualsivoglia oggetto o fenomeno o concetto. Così gran parte della sua produzione (pianistica e orchestrale) è ispirata a oggetti, luoghi da lui visitati, opere letterarie, personaggi storici o mitologici e via discorrendo. Fanno forse eccezione i due Concerti per pianoforte, che non hanno né sottotitoli, né programmi esterni appiccicati.

Liszt era stato attratto da Dante fin dal 1848 e aveva composto, prima della Sinfonia, una Dante-sonata poi ripresa in altre opere con diversi titoli (es.: Anni di pellegrinaggio). Come la Sinfonia-Faust, anche la Dante altro non è se non un poema sinfonica con struttura che rimanda alla sinfonia. La Dante fu composta negli anni 1855-56 e l’Autore la dedicò a colui che pochi anni dopo diventerà suo genero, per tramite di Cosima. Con Wagner Liszt aveva già un sodalizio artistico, culminato nella coraggiosa decisione (1850) dell’allora Kapellmeister di Weimar di mettere in scena l’ultima opera dell’esule, colà rifugiatosi provvisoriamente – sulla strada per Zurigo - perchè inseguito da un mandato di cattura da Dresda come complice nella rivoluzione del 48-49: il Lohengrin.

Erano tempi in cui Wagner, lasciato Siegfried a riposarsi dalle fatiche della vittoria sul drago Fafner, si stava dedicando anima (e corpo !?) alla conquista della bella Mathilde, che gli dava ispirazione e carica adrenalinica per costruire quel po’-po’ di monumento chiamato Tristan. E proprio Wagner si permise di cercar di dissuadere Liszt dal musicare Dante (il Paradiso, soprattutto) impresa da lui giudicata tanto velleitaria quanto disperata.

Ma Liszt. che quanto ad autostima e velleitarismo non era secondo a nessuno, non si fermò di fronte a nulla e portò a termine l’ardua impresa, limitandosi modestamente e per rispetto divino a non musicare come Paradiso un ultimo movimento della sua Sinfonia a programma, ma appendendo al Purgatorio un Magnificat con coro femminile. Poi, non contento, preparò anche 22 battute di un secondo finale (Halleluja) da eseguirsi - ma non lo fa nessuno - ad-libitum 

Il movimento iniziale (Inferno) ha una struttura lontanamente parente della forma-sonata; ma presenta tratti che lo apparentano alla fantasia. La tonalità prevalente è RE minore, ma con innumerevoli divagazioni e modulazioni.

Si apre in tempo Lento con un tema introduttivo, reiterato tre volte, sulle cui ricorrenze Liszt ha scritto in calce i tre versi danteschi: Per me si va nella città dolente; per me si va nell’eterno dolore e per me si va tra la perduta gente! Poi compare uno stentoreo motivo che farà da motto ricorrente sulle cui note leggiamo invece: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!

[Lodevole al proposito l’idea di proiettare sui due schermi ai lati del palco quei versi, proprio in corrispondenza dell’esecuzione delle note sotto le quali Liszt li vergò sul suo manoscritto. Un modo intelligente per spiegare la relazione fra suoni e parole anche a chi non ha sottomano la partitura.]

Adesso stiamo scendendo giù nei gironi infernali, da dove arrivano sordi rumori e lamenti: sono i movimenti convulsi dei condannati, che prima arrivano da lontano e poi sono sempre più pesanti e vicini. Il vento infernale, con successive folate sempre più forti ci accompagna nella discesa finchè il motto, sempre più protervo, fra turbini di vento, ci ricorda che lì non c’è proprio scampo alcuno.

E scampo non ci fu e non ci sarà per qualcuno che ora incontriamo, in un’atmosfera fattasi improvvisamente più rarefatta (arpa e pianoforte). Il clarinetto prima e poi il corno inglese ci svelano l’identità dei personaggi che ci stanno di fronte: la partitura reca i versi Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Sì, sono precisamente Paolo e Francesca.

Ecco quindi che un accorato tema in Andante amoroso si dispiega nobilmente, con successive volute e passando alle diverse sezioni dell’orchestra, fino a spegnersi su una lunga coda chiusa, indovinate? dal motto che nega ogni speranza! E infatti, dopo una marziale, sommessa introduzione di timpani, fagotti e corno, in partitura leggiamo un’indicazione perentoria di Liszt: ciò che segue deve suonare come un blasfemo e irridente sghignazzo! Ed è infatti un crescendo tumultuoso quello che ora ascoltiamo, riportandoci… all’inferno di quel luogo.

Ci avviamo ora all’uscita, accolti sulla soglia - c’era da aspettarselo - dal protervo sigillo del motto!  

Usciti dagli inferi, eccoci ai piedi del monte Purgatorio. Liszt interpreta il secondo cantico dantesco come un lento ma sicuro viaggio verso la totale redenzione dai peccati dell’Uomo, un lungo e faticoso, ma nobile, preludio all’accesso al trascendente.

Si suddivide in tre parti: 1. l’uscita dall’Inferno e il ritrovarsi nella Natura; 2. Il percorso lungo le diverse cornici del Purgatorio; 3. La visione del Paradiso (Magnificat). Le due sezioni esterne presentano musica serena ed estatica, mentre quella centrale è caratterizzata dall’evocazione delle difficoltà e dei sacrifici che i confinati in Purgatorio devono affrontare per meritarsi il Paradiso.

La prima sezione del movimento evoca il respirare nuovamente a pieni polmoni, ammirando l’eterno spettacolo della Natura. È un motivo che si innalza sereno e sognante, esposto dagli strumentini due volte, dapprima in RE e poi in MIb maggiore.      

Ma ora ci si deve incamminare lungo l’ardua scalata del Purgatorio, se vogliamo arrivare al… Paradiso. Ecco quindi che tutta la lunga sezione centrale del movimento è caratterizzata da motivi che evocano: fatica, dolore, privazioni, al fine di espiare i peccati e guadagnare il premio più alto. Non a caso ritroviamo, camuffati ma riconoscibili, anche motivi che vengono dall’Inferno, poiché rappresentano peccati che – se pur non irrimediabili – devono essere dolorosamente riconosciuti per poter ambire al perdono divino. Sono atmosfere che ritroveremo più avanti anche nel Parsifal, che per certi aspetti è debitore di questa musica.

Un solenne passaggio dal chiaro sapore Berlioz-iano ci preannuncia l’arrivo sulla sommità del monte, nel Paradiso terrestre, dove il maestoso e beatificante Magnificat (in SI maggiore) ci fa intravedere… l’Indescrivibile.

E, per il Magnificat, Caetani ha deciso di impiegare (appropriatamente, direi) in aggiunta al Coro femminile (I Giovani di Milano), anche il Coro di voci bianche, diretti entrambi da Maria Teresa Tramontin. [Anziché starsene fuori scena, come prescritto da Liszt, il Coro ha cantato dalla balconata dell’Auditorium, ottenendo un mirabile effetto di suoni che arrivano dal… Paradiso.]

Un’esecuzione davvero con i fiocchi, accolta trionfalmente, che certo ha contribuito a far conoscere al pubblico quest’opera un po’ reietta, ma che merita – pur non potendosi definire un capolavoro – di trovare il suo posto nei repertori delle grandi orchestre.

22 luglio, 2022

Muti chiude il Ravenna-Festival con la sua Cherubini

L’ultimo appuntamento del Ravenna-Festival 2022 (poi ci sarà la stagione operistica autunnale) è stato riservato al consorte della padrona di casa (aka Riccardo Muti) reduce dall’ormai tradizionale puntata delle Vie dell’Amicizia che quest’anno lo ha portato a Lourdes e a Loreto con la sua Cherubini e – doveroso rispetto all’attualità e al gemellaggio Ravenna-Kiev del 2018 – a componenti di Orchestra e coro dell’Opera Nazionale Ukraina, con un programma significativamente imperniato su Vivaldi-Mozart-Verdi ma con inserti ukraini e baschi nelle due tappe.

Ieri Muti si è invece esibito – al PalaDeAndré con la sola Cherubini (cui si sono aggiunti due strumentisti dell’Opera di Kiev, il primo oboe Dmytro Gudyma e la violinista Oleksandra Zinchenko) - in un concerto di insolita ma interessante impaginazione. Ha infatti aperto la serata la Sinfonia in DO maggiore di George Bizet, battezzata Roma perché colà composta in occasione della permanenza nella città eterna del vincitore del Prix-de-Rome del 1857. Rispetto a quella più sbarazzina del 1855, rivelata al pubblico a Bizet ormai scomparso da tempo, questa è un’opera più pretenziosa e cerebrale, che anticipa nella forma e nel contenuto il più famoso e posteriore Aus Italien di Strauss (brano prediletto dal giovane Muti in odore di… Scala): vi si evocano Roma (una caccia nella foresta di Ostia), Venezia, Firenze (una processione) e (proprio come Strauss) Napoli (carnevale).

Chissà se è l’ignoranza del pezzo ad aver portato il pubblico ad applaudirne regolarmente anche i tre primi movimenti. Va in ogni caso riconosciuto a Muti e ai suoi ragazzi di aver fato di tutto per… indorare la pillola, ecco!
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Dopo l’intervallo ecco un siparietto dedicato ad una premiazione: il Festival ha voluto così offrire un pubblico riconoscimento a Silvia Lelli che da 40 anni (con il compagno Roberto Masotti) fotografa artisti ed in particolare musicisti. Fra questi anche Muti, da lei seguito fin dai primi passi ed in particolare nei suoi anni di presenza alla Scala. Così il Maeschtre non ha perso l’occasione per suggerire al teatro che lo cacciò in malo modo di impiegare il materiale fotografico della Lelli per farci una mostra permanente…  
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Un brano che di solito apre la serata concertistica è stato invece qui eseguito per aprire la seconda parte del concerto: si tratta del brevissimo schizzo sinfonico (meno di 8 minuti, 82 battute in tutto) di Anatoli Ljadov, titolato Il lago incantato (ma anche Leggenda). Arabeschi dell’arpa e della celesta accompagnano le ondeggianti semicrome dei violini mutuate dal wagneriano Waldweben in un’atmosfera che non presenta nemmeno una piccola increspatura, terminando proprio come era iniziata e lasciando francamente perplesso l’ascoltatore che si aspettasse almeno un sussulto, non dico un temporale.

Anche qui facciamo i complimenti all’Orchestra per la raffinatezza e la trasparenza del suono, ingredienti indispensabili per non far scadere il pezzo nella banalità.
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Ha chiuso il concerto il celebre poema sinfonico di Liszt Les Preludes. Del quale ripropongo una succinta analisi pubblicata anni fa in occasione di un concerto de laVerdi.

Muti si è mantenuto fedele al suo approccio originale all’opera, approccio assai sostenuto e severo, come possiamo constatare in questa registrazione del 15 agosto 2012 a Salzburg con i Wiener. Ieri se possibile Muti mi ha dato l’impressione di calcare ancor più la mano in fatto di prosopopea e retorica.

Tanto per confrontare il suo approccio con uno assai diverso (che si materializza in quasi 2 minuti di durata in meno, su più di 17…) ecco come ci propose il brano Zubin Mehta con i Berliner, nel lontano 1995. Un’analisi più puntuale delle differenze mostra che esse non si distribuiscono uniformemente su tutta la durata del brano, il che porta a concludere che l’approccio di Mehta sia – nell’agogica quanto meno – assai più ricco di contrasti rispetto a quello di Muti.

Ma l’importante è che la Cherubini abbia confermato le sue ottime qualità (su quelle del Direttore-Fondatore non si discute…) che il folto pubblico non ha mancato di apprezzare distribuendo applausi e bravo! a tutti.

Altro intervento maieutico di Muti, che ha ricordato con colorite espressioni l’insipienza con la quale i nazisti impiegarono il tema principale dell’opera per farsi propaganda bellica… dopodichè ci ha lasciato con l’Intermezzo della Fedora, non senza una punta di bonaria polemica con i romagnoli, sedicenti esperti verdiani che però ignorano questa non disprezzabile musica di uno che veniva da… Foggia.
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Oggi sulle spiagge romagnole la vita riprende con il solito, sonnolento tran-tran: nessun sintomo (ancora) dell’apocalisse che si prevede scatenarsi sull’ingrato Paese reo di aver cacciato il suo magnifico quanto disinteressato benefattore…

13 settembre, 2021

laVerdi ha aperto alla Scala la stagione 21-22

Con l’ormai consolidata visita annuale al tempio scaligero, laVerdi ha aperto la stagione principale concertistica 21-22. Il Direttore musicale Claus Peter Flor ha diretto un programma tutto’800, con Liszt e BrahmsPrima dell’inizio la Presidente Ambra Redaelli ha fatto gli auguri, per gli 88 anni compiuti proprio ieri, al suo predecessore Gianni Cervetti, presente in sala, che ha guidato la Fondazione fin dalla sua... fondazione! 

Mariangela Vacatello (vicina ai 40, ma ne dimostra ancora la metà...) tornata a suonare con laVerdi dopo più di sei anni, si è cimentata nel pretenzioso Primo Concerto del visionario ungherese, opera che ha fatto storia fin dalla sua comparsa nelle sale (la prima a Weimar nel 1855 con l’Autore alla tastiera e un tale Berlioz sul podio!) per le sue caratteristiche di innovazione quasi rivoluzionaria: le forme tradizionali vengono sconvolte (a dispetto delle tre indicazioni di movimento presenti sulla partitura) e soprattutto i temi vi nascono e si sviluppano, tornando continuamente ma sempre trasfigurati e a volte irriconoscibili, quasi fossero personaggi di teatro che via via vengono alla ribalta, ma mutando continuamente atteggiamenti ed espressioni.

É così che nel centrale Quasi Adagio e poi Allegretto vivace ci vengono presentati nuovi e bellissimi temi, ma vi viene poi ripreso il protervo motivo che aveva introdotto il concerto in Allegro maestoso; ed è così che nel finale Allegro marziale animato non ascoltiamo nuovi temi, ma la summa di (quasi) tutto ciò che si è udito in precedenza. Insomma, un approccio estetico che nel campo sinfonico verrà più tardi sviluppato in grandi dimensioni da Richard Strauss e che, in quello teatrale, troverà in Richard Wagner il suo inarrivabile campione.

Più sotto chi è interessato ad approfondire i contenuti del brano trova un mio commento con riferimenti ad un’esecuzione del 2019 della venerabile Martha Argerich (con l’OSN-RAI). In rete si può invece vedere ed ascoltare la Vacatello impegnata nel Concerto, ma purtroppo solo a partire dall’esposizione del tema K: basta comunque ed avanza per testimoniare (si legga l’ultimo commento al video...) delle sue straordinarie qualità tecniche e della sua personalità di interprete!

Qualità emerse brillantemente anche ieri: alla tecnica sopraffina, ingrediente essenziale per questo Liszt, lei sa abbinare anche un gusto interpretativo che va al di là dei puri virtuosismi e rifugge dal ricorso ai facili effetti. E anche il suo gesto fisico è sempre composto e concentrato, mai enfatico o appariscente: insomma, un vero piacere ascoltarla! 
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Flor ha chiuso la serata con uno dei suoi cavalli di battaglia: Brahms e la QuartaIl Direttore musicale aveva ultimamente diretto il ciclo delle quattro Sinfonie dell’Amburghese questa primavera, nell’ambito delle riprese in streaming (tuttora disponibili on-demand sul portale) con l’Orchestra al completo sul palco allargatissimo dell’Auditorium deserto. E anche ieri quello del Piermarini gli ha consentito di disporre di un organico quasi standard (del resto è noto che la Sinfonia fu eseguita originariamente con un complesso poco più che cameristico...)

Che dire: che l’esecuzione è stata di alto livello e che l’Orchestra ha mostrato di essere in forma smagliante, pronta al prossimo inizio della stagione (30 settembre nel rinnovato Auditorium). Successo pieno in un teatro occupato in tutti i posti... che il Covid lascia disponibili.
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Terminato il concerto in Scala, Piazza Duomo è già gremita per quello della Filarmonica. Che mi sono goduto - giusto il tempo di rientrare a casa - dalla benemerita RAI5.
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Il Concerto di Liszt

Ecco un succinto elenco dei principali temi e motivi che compaiono nella prima parte:

Dopo il tracotante inizio (1’35”) dove gli archi espongono le due sezioni del tema A, intercalate da un inciso giambico (a, semicroma-croma) dei fiati che ritroveremo spesso e volentieri, il solista fa il suo imperioso ingresso (1’46”) ripetendo per due volte una perorazione ascendente di ottave (B), anche lui intercalato dall’inciso (a) dell’orchestra. Poi (1’57, grandioso) si imbarca anzitempo (stando alle regole in uso ai tempi) in una Cadenza (C) di accordi che compie un arco salita-discesa, per poi sfociare (2’05”) nella riproposizione del tema A, subito sottoposto ad ampliamenti e virtuosismi (strepitoso) che esplorano l’intera tastiera.

L’orchestra (2’27”) reitera (più sommessamente) il tema A seguita dal solista che, stringendo un poco, sale dal MIb al MI naturale esponendo (2’37”) un sognante motivo (D) chiuso da un veloce svolazzo che scende dalla dominante acuta SI si MI due ottave sotto. L’episodio si ripete (2’53”) con l’orchestra che espone A e il solista che risponde ancora con D, ma adesso assai ampliato e arricchito di virtuosismi. Il pianoforte si limita poi (3’23”) ad accompagnare il clarinetto che espone il motivo E, chiudendolo poi con un altro veloce passaggio di biscrome. 

É ancora il solista (4’05”) ad esporre (accentata la melodia e rubato) il tema F, quanto mai romantico, che viene successivamente ripreso in sequenza (e in tonalità variate) da clarinetto, violino e celli per poi aprire la strada ad un crescendo e stringendo che conduce (5’04”) ad un colossale ritorno in orchestra (in FA) del tema A, seguito da una sua enfatica coda.

Ora (5’17”, con impeto) il solista reitera il tema in FA#, aumentandone la velocità e facendolo scendere da altezze crescenti ma sempre più in basso, fino a sfociare nella proterva ripetizione (5’29”, grandioso) dell’attacco della cadenza C. Il fagotto (5’39”) esala ancora il tema A e il pianoforte gli risponde, come sopra, con il motivo D; la cosa si ripete (6’02”) protagonista l’orchestra (tema A) cui il solista replica con D, di cui varia virtuosisticamente la chiusa.

Siamo ormai arrivati (6’31”) alle ultime 14 battute di questo primo tempo: su veloci arpeggi (quasi arpa!) del solista (che ha in chiave SI maggiore) l’orchestra (in MIb) ripete il tema A, arricchendolo di continui ondeggiamenti. Compare nel clarinetto (6’44”) l’arcata melodica dell’arpeggio C, finchè il pianoforte (6’52”) su un tappeto tenuto dei fiati, chiude con una salita di 49 semicrome in ottava (la mano sinistra ne ha una in più del... dovuto!) e con un’ultima croma sul RE#(=MIb).

Come si evince da questa sommaria analisi, la struttura di questo primo tempo è ben lontana da quella classica della forma-sonata che caratterizzava le composizioni strumentali dell’800. Qui ci si avvicina piuttosto ad una struttura eterodossa di Rondo, con tre blocchi tematici messi in sequenza X-Y-Z-X-Y-X.

Una seconda caratteristica (epidermicamente) innovativa si riscontra nella struttura del secondo tempo: al classico movimento lento qui Liszt ne aggiunge uno veloce, a mo’ di Scherzo (anticipando ciò che attuerà molti anni più tardi proprio Brahms nell’Op.83) e poi chiude questo tempo centrale con il sorprendente ritorno ciclico del tema A. Ecco lo schematico elenco dei nuovi temi qui proposti:

Si apre in Quasi Adagio, SI maggiore con il nobile tema G introdotto dapprima (7’00”) dagli archi bassi e poi da violini e viole e poi (7’40”) compiutamente esposto dal pianoforte. Si noti l’inciso g (8’11”) che ritornerà presto a farsi vivo. Ma è soprattutto la seconda sezione del tema (riquadrata nella figura) che avrà un ruolo importante. Gli archi (9’17”) ripropongono il tema G subito incalzati dal solista che (9’31”) parte dall’inciso g per lanciarsi in un serrato recitativo di semicrome con veloce discesa e risalita di biscrome. Ancora i violoncelli (9’41”) ad esporre il tema G ((seconda sezione) ma subito il pianoforte li zittisce riprendendo dall’inciso g il recitativo con maggior vigore, fino a sfociare trionfalmente (9’55”) nel DO maggiore dell’eroico tema H (una chiara derivazione dalla seconda sezione del G) chiuso da una veloce discesa di biscrome.

Sempre in DO maggiore ecco (10’11”) l’inciso g (quieto) per tre volte affacciarsi nel pianoforte intercalato al tema H e chiudendo con un lunghissimo trillo sul SOL. Su quel trillo (10’36”) il flauto espone ora un nuovo tema (I) dal sapore di celeste beatitudine; ripreso poi dal clarinetto (10’46”) che modula a MI maggiore (e il pianoforte sale conseguentemente con il trillo al SI) dove il tema è ancora ripreso dall’oboe (10’57”); e infine dal violoncello, seguito dal clarinetto che ne accompagna poi la chiusura sul lunghissimo trillo del pianoforte.

E qui ecco che arriva la grande sorpresa: in effetti Liszt ci gioca un bello Scherzo! (possiamo solo immaginare come ci sarà rimasto il pubblico del 1855...) Siamo tornati in MIb (minore) e veniamo accolti (11’31”, 3/4, Allegretto vivace) da un nuovo protagonista fra gli strumenti, fino ad allora relegato in orchestra ad accompagnare marce turche o circasse: il triangolo! Che qui assurge quasi al ruolo di strumento obbligato.

É l’inciso giambico a che scandisce il ritmo sul quale gli archi in pizzicato introducono dapprima timidamente, poi con più decisione, il tema J che il pianoforte (11’40”) si incarica di esporre compiutamente, con il triangolo e i corni a ribadire qua e là il ritmo con l’inciso a.

Dopo che il solista ne ha anticipato i tratti, una subitanea modulazione a LA maggiore ci porta (11’55”) al tema K (ogni Scherzo che si rispetti deve avere il suo Trio...) esposto - sempre con la scorta del triangolo, dal flauto e dal pianoforte, che poi si incarica di abbellirlo con qualche virtuosismo. Si torna (12’08”) in MIb minore all’attacco dello Scherzo, che il solista riprende poi arricchendolo di... note. Altra modulazione (12’30”) e riecco il tema K in FA# maggiore. Altro ritorno all’attacco dello Scherzo (12’42”) in SIb, cui segue un rapida scalata di semicrome del solista che riprende (12’49”) il tema J con un’ennesima variazione e con un successivo ulteriore sviluppo.

Il tema K riappare poi (13’11”) in RE maggiore, anch’esso variato nella linea del solista, finchè (13’29”) una cadenza del pianoforte chiude lo Scherzo e apre la sezione finale di questo tempo centrale del concerto.

Che comporta inaspettatamente (? o no?) il ritorno ciclico (13’35”, Un poco marcato) del tema A! In Allegro animato (un po’ come era avvenuto nel tempo iniziale a 5’17”, con impeto) anche qui il pianoforte reitera (ora in DO#) il tema A che non sfocia però nella cadenza C bensì in una ripresa (negli archi in tremolo, 14’07”) del medesimo tema, seguita da un crescendo che conduce ad una sua ennesima esplosione (14’22”) nei tromboni. Alla quale segue (14’31”, tornando a MIb) il rude motivo B nel pianoforte.

Altra sorpresa (14’46”) la riapparizione (oboi e poi violini) del tema I, subito ripetuto e sviluppato a piena orchestra e sui trilli del solista, che conduce ad un’ulteriore esplosione (15’15”) del tema A nel pianoforte accompagnata dai secchi accordi dell’orchestra, cui il solista risponde (15’23”) reiterando il motivo B, chiuso (15’36”) su un accordo di settima di dominante (FA-LAb-RE-FA) che conduce direttamente al (formale) terzo tempo (in realtà il quarto) del Concerto.

Nel quale tempo non aspettiamoci di ascoltare nuovo materiale musicale (salvo la pedissequa melodia che porta alla coda conclusiva): già fin troppo ce n’è stato propinato da Liszt. Il quale invece pensò bene di chiudere questo suo ardito lavoro con un... riassunto delle due puntate precedenti (la seconda soprattutto). Ma ovviamente trattasi non di una pedissequa ripetizione di ciò che già abbiamo udito, bensì di un suo geniale ripensamento.

Proprio a cominciare da ciò che si ode immediatamente nell’Allegro marziale animato: dopo la veloce scala discendente del pianoforte, i clarinetti e poi gli altri legni espongono il tema G, che però, da nobile e riservato quale era comparso dianzi, si è qui trasformato in baldanzoso e impertinente! Ancora i clarinetti e i legni lo ripetono (15’44”) con intervento dei piatti, subito imitati (15’51”) per due volte dall’intera orchestra.

La seconda sezione di G, che già in precedenza si era trasfigurata nel tema H, ora (16’04”) si ammanta pure di tracotanza scendendo in SIb in fagotti e tromboni. Il solista risponde su un motivo che nasce dall’inciso g. La figura (16’15”) si ripete, ma ora il pianoforte sviluppa il suo intervento modulando a SI maggiore e ritrovando (16’24”) il piglio eroico di H. E già che c’è resta in SI per riproporre (16’33”) anche il romantico tema I, chiuso poi sul MIb dove viene ripreso (16’47”) anche dall’oboe, poi ripetuto più volte e completato da virtuosismi del solista.

Il tema G (ultimo... travestimento) fa di nuovo capolino (17’12”) in archi, clarinetti e fagotti, con il pianoforte ad arabescarne i connotati e poi a ripeterlo prima di ritornare (17’39”) su una vecchia conoscenza: il tema J dello Scherzo! Ma qui innalzato di un semitono, a MI minore, per essere poco dopo (18’02”, Più mosso) riportato al MIb.

E qui inizia la finale cavalcata: il tema J viene letteralmente fatto a pezzi dal solista, cui pochi strumenti reggono il moccolo con ripetuti strappi sull’inciso g. Alla breve, Più mosso (18’21”) i violini attaccano una semplice melodia in semiminime, caratterizzata da discese alternate a salti all’insu, che il pianoforte imita con 4 semicrome per semiminima; Più presto (18’41”) sono flauto e oboe a prendere il posto dei violini in un’orgia sonora che sfocia, dopo forsennate discese di semicrome del pianoforte, nel conclusivo Presto (19’11”) dominato dal tema A ora davvero scatenato, che porta alla strepitosa conclusione.
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08 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°15


Per un italiano (Bignamini) che, lanciato da laVerdi, va a far fortuna in America, ecco un americano che ha fatto fortuna in Europa e con l’orchestra milanese in particolare: John Axelrod, che torna sul podio dell’Auditorium per proporci un programma davvero insolito. Sia come impaginazione che come contenuti: fra due lavori ottocenteschi (di un suocero e del suo genero!) si inserisce un brano che non ha ancora compiuto due anni. In realtà è ciò che la locandina prevedeva in origine... poi, per evidenti ragioni di praticabilità logistica è il brano moderno ad essere eseguito per primo.

E così prima di Liszt e Wagner ascoltiamo un’opera che si esegue per la seconda volta in Italia (dopo la prima dello scorso 15 novembre a Parma, eseguita dalla Toscanini). Si tratta di Eternal Rhythm, dell’israelo-americano Avner Dorman. Opera del 2018 che viene presentata come un singolare Concerto per percussioni e orchestra. Il solista, che ad essa si è legato a doppio filo, essendone il dedicatario, è il funambolico Simone Rubino, 27enne di Chivasso, che deve destreggiarsi con una serie di percussioni, disposte a ferro di cavallo attorno al podio, quali marimba, crotali, gamelan, glockenspiel, vibrafono, campane e campanacci, tom-tom, timpani e... pentolame vario.

Il brano è in 5 movimenti, senza soluzione di continuità, ciascuno dei quali ha una sua differente fisionomia: il quarto ad esempio è ispirato da un antico testo ebraico intonato dal solista (Rubino ha sfoggiato una bella voce da contralto...) che ci rammenta come noi esseri viventi non siamo che parte integrante dell’universo.

Ammesso che siamo di fronte a musica che si faticherebbe a definire... classica, resta la sua gradevolezza e la sua godibilità. E poi è un piacere di per sè ascoltare (e guardare!) il fenomeno Rubino! Che il pubblico ha subissato di ovazioni, ricambiato da una geniale esecuzione (a voce senza parole) della celebre AveMaria di Gounod
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Liszt e Wagner ancora non erano parenti quando composero i due lavori che aprono e chiudono il programma: il quarto dei poemi sinfonici dell’ungherese è del 1854, mentre la Handlung fu sbozzata a partire da quel medesimo anno e poi completata nel 1859. La relazione di parentela ufficiale intervenne solo nel 1870, con il matrimonio di Richard e Cosima (lasciata libera da vonBülow) i quali peraltro avevano già reso Ferenc (di soli due anni maggiore di Richard) tre volte nonno!

Ma il legame di parentela fra i due non si ferma ovviamente all’aspetto anagrafico, essendo ben più forte quello artistico ed estetico. Che si era stabilito ben prima che sopraggiungesse quello famigliare: Liszt era stato fra i primi ad intuire le qualità delle opere di Wagner e in particolare aveva tenuto amorevolmente a battesimo, nel 1850 a Weimar, il Lohengrin, ai tempi in cui Wagner era esule dopo i moti di Dresda (e Wagner nel 1852 lo ringraziò pubblicamente, nella prefazione all’edizione manoscritta della partitura, dedicandogli il lavoro ed esaltandolo come colui che l’aveva salvato dall’oblio). La stima di Liszt per il futuro genero non cessò mai, a dispetto delle divisioni che separavano i due riguardo l’antisemitismo di Wagner, che il cattolico (abate!) Liszt condannava come un’incomprensibile ossessione. Durante il ricevimento alla chiusura delle prime rappresentazioni del Ring a Bayreuth (1876) Wagner indicò pubblicamente Liszt come colui che aveva reso possibile il suo successo.

Fra i due brani in programma - per quanto diversissimi come genere e struttura - si può scorgere qualche vicinanza: Orfeo e Tristan celebrano la sublimazione dell’amore; entrambi perdono l’amata nella luce solare, la conquistano o riconquistano nelle tenebre, per poi riperderla al ritorno del giorno... Addirittura la prefazione che Liszt scrive alla partitura dell’Orpheus (la lode dell’Arte e della Musica in particolare come strumenti di edificazione dello spirito umano e di lotta contro la barbarie della società) sembra richiamare le sfrenate ambizioni di Wagner (non a caso aperto ammiratore di questo poema sinfonico) che si autostimava come un messia che redime la società attraverso l’Arte, considerata alla stregua di una nuova Religione.  
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Come altri poemi sinfonici di Liszt, anche Orpheus ebbe un’origine curiosa: prima di ribattezzarlo come Symphonische Dichtung, Liszt lo compose e lo eseguì come anteprima per una rappresentazione a Weimar della versione francese dell’Orfeo di Gluck, quella curata da Hector Berlioz, di cui Liszt fu fin da giovane fervente ammiratore e seguace. Ecco quindi ripristinato quel filo rosso (Berlioz > Liszt > Wagner) che tanta parte ha avuto nell’evoluzione della musica nell’800 (e ben oltre!)

Significativo l’impiego che Liszt fa - fin dalle prime battute - di ben due arpe: certo giustificato dal richiamo alla lira di Orfeo, ma che è debitore al Berlioz della Fantastica (Un bal...) e che il megalomane Wagner spingerà all’eccesso con le sette arpe (!) prescritte per il suo Rheingold, coevo dell’Orpheus!    

Altra relazione con Wagner si trova nell’intervento del corno inglese, che poco prima della chiusura nell’etereo DO maggiore espone una breve melopea che non può non ricordarci l’incipit di quella interminabile che lo strumento suona all’inizio del terz’atto del Tristan. 

Il brano si struttura macroscopicamente come ternario (A-B-A) con una breve introduzione e una coda conclusiva; le tonalità di fondo sono DO (sezione A) e MI (sezione B). In sostanza la melodia è quasi monotematica, un tema che viene sottilmente variato lungo l’arco del brano.
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L’agogica prevalente è piuttosto sostenuta, come possiamo constatare in questa ispirata interpretazione di Kurt Masur a Lipsia: si parte con un Andante moderato; l’Introduzione (7”) è affidata a corni e arpe (le quali accompagneranno la melodia sin quasi alla fine) con dolce tappeto dei legni. A 37” inizia la sezione A con il tema principale, in DO maggiore, tema che si sviluppa con leggere variazioni e con una breve piccola accelerazione, per poi rallentare fino a sfociare (2’08”) modulando a MI maggiore, nel Lento della sezione B. Qui il tema è ancora sottilmente variato, con lunghezze dimezzate che compensano la maggior lentezza del tempo. Il quale (3’35”) comincia ad accelerare impercettibilmente, poi (5’10”) più marcatamente, in corrispondenza del ritorno a DO maggiore (la ripresa di A) per sfociare (5’47”) in un Andante con moto; dove il tema principale viene ribadito con più enfasi e a piena orchestra. Il tempo ora torna a degradare fino al Lento (6’49”) dove il tema è ripreso in forma variata e quindi (7’36”) ancora a piena orchestra nella sua forma originale. Ecco quindi (8’16”, Poco ritenuto) il già citato intervento del corno inglese, che conduce alla Coda (8’48”, Ritardando). Essa è costituita da una sequenza di nove accordi che sintetizzano mirabilmente il viaggio di Orfeo agli Inferi e ritorno: dal DO maggiore si muovono a LA maggiore, SOL minore, MIb maggiore e FA# maggiore (eccoci negli abissi, il più lontano possibile - nel circolo delle quinte - dal DO della luce) per tornare al DO maggiore conclusivo. Sono archi e legni a suonarli, cui si aggiungono gli ottoni e i timpani nelle ultime 6 battute, mentre significativamente le arpe tacciono, quasi ad osservare stupefatte Orfeo che... sale alle sfere celesti.
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Pregevole davvero l’esecuzione, che il non oceanico pubblico gratifica di convinti applausi. 
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E per finire, un... bigino di Tristan-und-Isolde, uno di quelli predisposti dal grande Leopold Stokowski. Che ha il solo difetto di concentrare troppo il piatto da gustare. Come se di un panettone si tenessero buoni soltanto i canditi, la copertura al cioccolato e la guarnizione di crema... roba da indigestione! 

Il brano, che dura circa 35 dei 230 minuti dell’intera opera, è un assemblaggio di tre sue parti sostanziose (Preludio, duetto atto II e Liebestod) e di alcuni frammenti che fanno da riempitivo. Precisamente così (minutaggi dalla registrazione sopra segnalata): 

minutaggio
contenuto
riferimenti
     10” - 10’10”
Preludio (completo)

10’11” - 11’40”
Atto I: finale Scena IV
da I: Für tiefstes Weh a K: Herr Tristan
11’41” - 13’06”
           inizio Scena V
Entrata di Tristan da Isolde
13’07” - 13’31”
battute aggiunte

13’32” - 14’16”
Atto II: inizio Scena I
Corni da caccia in lontananza
14’17” - 24’25”
            Scena II (T-I)
da 16 battute prima di T: O sink’ hernieder
a T: Laß den Tag dem Tode weichen
24’26” - 25’51”
Atto III: scena I
da T: Sie lächelt mir Trost
a T: Wie schön bist du
25’52” - 26’05”
battute aggiunte
modulazione MI - LAb
26’06” - 29’38”
Atto II: Scena II (T-I)
da T: Starben wir, um ungetrennt
a T: Muß ich wachen
29’39” - 32’26”
            Scena II (T-I)
da I-T: O ew’ge nacht a I: Ohne scheiden
32’27”
Atto III: Liebestod
da I: Höre ich nur diese Weise

La scelta degli ingredienti si può discutere, e lo stesso Stokowski (oltre ad occuparsi anche di Ring e Parsifal) predispose più di un’ulteriore variante di queste Symphonic Syntheses, operazione che del resto era proprio stato Wagner ad inaugurare con la sua accoppiata da concerto Vorspiel-Liebestod.

Axelrod, che non nasconde la sua infatuazione per quest’opera, ci mette tutto se stesso per rendercela apprezzabile, e devo dire che i suoi sforzi sortiscono un discreto effetto. Certo, per chi ha una minima conoscenza del Tristan, la sensazione di ascoltare qualcosa di innaturale e irrisolto è fatalmente presente, ma si spera almeno che qualche neofita si aggiunga alla lunga lista degli innamorati! 

Per il momento registriamo con piacere come l’Orchestra abbia saputo rendere in modo davvero apprezzabile queste atmosfere cariche di Sehnsucht (termine intraducibile, che incorpora concetti quali: anelito, struggimento... magone) che Wagner ha saputo mirabilmente evocare con la sua musica. Alla fine interminabili applausi per tutti, inclusi quelli dei ragazzi al Direttore.