sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel
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20 settembre, 2025

Ultima Cenerentola alla Scala.

Le troppe vacanze mi hanno lasciato solo l’ultima recita (secondo cast) per godermi questo immortale spettacolo che è La Cenerentola di Ponnelle. Arrivato all’ottava stagione di ininterrotta presenza: 1973-74-75-82 (con Abbado); 2001-05 (con Campanella) e 2019 (con Dantone).

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Note a margine:

- Curiosamente anche le (uniche) tre presenze dell’opera al ROF (1998-2000-2010) portano la firma di uno stesso regista, Luca Ronconi.

- Nota critica all’organizzazione: come già accaduto in occasione della stagione 18-19, il libretto del teatro (Edizione critica curata da Alberto Zedda per la Fondazione Rossini in collaborazione con Ricordi) indica la protagonista Angelina e la sorellastra Tisbe come soprani, quando sono contralto e mezzosoprano e Alidoro come tenore, quando è basso. Per nostra fortuna, i cantanti erano quelli con la tessitura appropriata.

- I tre contributi di Luca Agolini. Costui era un collaboratore cui Rossini affidò, per la presentazione dell’opera nel 1817, la composizione (oltre che di recitativi) di tre brani di un certo peso: nel primo atto l’intera Scena 7 (dove Alidoro preleva Angiolina per portarla alla festa); nel secondo l’apertura, con il Coro dei cavalieri; e infine l’aria di sorbetto di Clorinda (Sventurata!) Orbene, in tutte tre le edizioni del ROF sono stati proposti i due ultimi contributi di Agolini, mentre il primo è stato sempre sostituito dalla versione, effettivamente più… sostanziosa, composta da Rossini nel 1820. La Scala, fin dai tempi di Abbado-Ponnelle, ha fatto una scelta assai drastica: bandire Agolini, tagliando di netto il coro e l’aria e rimpiazzando la scena Alidoro-Angiolina con la versione di Rossini. Ed in ciò è stata seguita da quasi tutte le messeinscena dell’opera in giro per il mondo. Ma in realtà l’edizione critica di Zedda consente – stile meccano – anche altre soluzioni. Una di queste l’ha proposta lo stesso Zedda nel 2017 a Pesaro (extra-ROF) in occasione di una recita commemorativa, in forma di concerto, da lui personalmente curata (anche se non diretta, per ragioni di salute) dove ha eseguito i primi due dei tre contributi di Agolini, cassando l’aria di Clorinda.

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Devo dire che avviarsi alla Scala (per godersi un divertimento) passando sul sagrato del Duomo dove stazionavano, immobili, manifestanti pro-Gaza, inalberanti bandiere palestinesi ed esponenti appelli perché qualcuno metta fine ad un genocidio… ecco, è stato piuttosto frustrante… ma questa ahinoi è la nostra attuale civiltà, caratterizzata da macabre polifonie.
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Oggi a nobilitare quest’opera sono stati Gianluca Capuano e un cast di splendidi giovani (già svezzati o tuttora accademici). Certo, dietro e sopra a tutti vegliava tale Gioachino da Pesaro, il sommo chèf che confezionò questo straordinario menu più di due secoli orsono.  

La direzione di Capuano ha esaltato tutta la freschezza, il brio e lo humor di questa partitura, che mescola in maniera mirabile il buffo, la commedia, il patetico, il sarcastico e il… demenziale. Perfetta l’intesa con le voci, che viene dalla lunga consuetudine di Capuano con il suo ensemble vocale, spesso esibitosi in passato in Auditorium con quello strumentale di Ruben Jais in indimenticabili concerti di barocco. E l’orchestra e il coro maschile degli accademici (di Salvo Sgrò) hanno risposto alla grande alle sollecitazioni del Direttore, alle quali si sono uniti gli interventi di fortepiano (Valentina Rando) e di cembalo (Davide Costantino), sempre azzeccati e pertinenti rispetto allo sviluppo dell’azione.

Fra le voci, tre erano di accademici, e si son fatti ben valere: soprattutto il Dandini di Chao Liu, una vera rivelazione, fin dalla cavatina d’esordio (Come un'ape ne' giorni d'aprile) e poi nel duetto con Magnifico (Un segreto d'importanza) e nel quintetto e sestetti. Voce baritonale chiara e corposa, coniugata ad autorevole presenza scenica.     

E poi le sbifide, petulanti e scatenate sorellastre María Martín Campos (Clorinda, peraltro privata della sua arietta…) e Dilan Şaka (Tisbe), efficaci nelle parti singole e nei contributi ai concertati.

Gli altri interpreti (già ex-accademici ormai… navigati) hanno tutti ben meritato. In primo piano il Magnifico di Paolo Ingrasciotta, autorevolmente presentatosi con la cavatina Miei rampolli femminini e poi confermatosi con l’aria Sia qualunque delle figlie e infine nel duetto con Dandini, oltre che nei concertati. Apprezzabile poi la verve con la quale ha animato l’intera serata. 

Mara Gaudenzi è stata una convincente Angelina: nelle reiterate, patetiche riprese di Una volta c’era un Re, nel duetto del primo atto con Ramiro (Un soave non so che) e infine nell’impegnativo finale (Aria-Rondò Nacqui all'affanno - Non più mesta). Davvero una prestazione di alto livello, dove ha messo in mostra la sua corposa voce contraltile, riuscendo anche ad emergere nei tumultuosi concertati che costellano la partitura.

E a proposito di Don Ramiro, Pierluigi D'Aloia ha mostrato tutte le qualità del classico tenorino rossiniano: voce squillante, senza sbavature, intonazione perfetta, il tutto confermato e culminato nella sicurezza con la quale ha affrontato la sua impegnativa aria Sì, ritrovarla io giuro, popolata di DO acuti a profusione.     

Li Huanhong (Alidoro) ha più che dignitosamente svolto il suo compito, che ha il culmine nell’aria La del ciel nell’arcano profondo, quella appositamente scritta da Rossini per un famoso basso dell’epoca (Gioachino Moncada).

Ma naturalmente non si possono dimenticare i contributi delle voci (singole e coro) ai pezzi concertati, che abbondano e rappresentano uno dei pregi in assoluto di questa partitura. Lascia sempre a bocca aperta il sestetto del second’atto (Questo è un nodo avviluppato) con quei versi di italica Stabreim, dove Rossini raggiunge vette davvero eccelse. O lo stupefacente Nel volto estatico del primo atto; o ancora il Parlar, pensar, vorrei, che anticipa l’irresistibile finale primo.

Insomma, una prestazione complessiva di grande spessore, salutata alla fine da un uragano di ovazioni, per tutti, culminato in un interminabile applauso ritmato all’uscita della Gaudenzi e poi di Capuano, che ha giustamente chiamato il pubblico ad uno speciale applauso per i valorosi strumentisti.

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Ecco, una serata di musica davvero da ricordare. Peccato che all’uscita i media ci abbiano ripiombato implacabilmente nelle quotidiane miserie di guerre e carneficine… 

11 febbraio, 2019

Alla Scala una Cenerentola sempre giovane


Proseguendo la serie dei revival di produzioni ormai catalogabili come storiche (domanda: nel 2060 si riprenderà ancora la Traviata di Cherniakov?) la Scala ha ospitato ieri la prima della Cenerentola della premiata coppia Abbado-Ponnelle, ripresa a 46 anni di distanza dalla sua originaria comparsa nel 1973. Produzione già riproposta da allora in diverse stagioni (74, 75, 82, 01, 05) e oggi affidata alle esperte mani di Grischa Asagaroff, ben coadiuvata da Marco Filibeck alle luci. Immortalata anche in DVD (con altri interpreti rispetto al ’73, e con riprese fatte in studio e in play-back) nel 1981. E proprio a Claudio Abbado, a 5 anni dalla scomparsa, è dedicata questa ripresa. Che mantiene, più o meno, anche i (consueti) tagli: qualche recitativo secco e i due contributi di Luca Agolini (coro di apertura atto secondo e aria di sorbetto di Clorinda). Cassata anche l’altra componente agoliniana (Alidoro) in favore del Rossini autentico.

Nel progettare la loro Cenerentola, il librettista Ferretti e Rossini si erano posti un obiettivo assai chiaro: sfrondare il racconto di Perrault da ogni e qualsivoglia componente favolistica, magica, miracolistica, bambinesca (aspetti che si reputavano sgraditi se non addirittura offensivi per l’evoluto pubblico romano di allora) per mettere più che altro in risalto - pur in un contesto giocoso - gli aspetti drammatici, sociologici ed etici del racconto, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo come pari-opportunità. (Lo stesso Barbiere, di un anno precedente, dietro la maschera del buffo poneva problemi mica da poco, quali l’avvento della borghesia alla guida della società.) Quindi niente comari-fatine, zucche-carrozze e topi-cavalli che appaiono dal nulla, ma solo un po’ di alone arcano col quale rivestire un illuminato filosofo (Alidoro, precettore del principe Don Ramiro, una specie di Marco Pannella ante-litteram) che procura alla povera Angelina i mezzi per godere, appunto, delle pari-opportunità, negatele dal retrivo padre e dalle sorellastre viziate.

E Ponnelle(-Asagaroff) interpreta alla perfezione l’approccio degli Autori, facendone passare il messaggio col mettere in ridicolo gli aspetti più retrivi della società. Niente miracoli, ma nemmeno avanspettacolo: le gag sono limitate allo stretto necessario e tutto viene mantenuto entro i confini del buon gusto. E per questo l’allestimento resiste alla grande anche in tempi di regie fatte solo per far parlare del regista, ma di fatto prodotti usa-e-getta.
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Che dire poi della prestazione musicale?

Intanto si apprende dal curatissimo libretto della Scala che Angelina-Cenerentola è diventata improvvisamente soprano, come pure la Tisbe, e che Alidoro ha innalzato la sua tessitura a quella di tenore... evabbe’, è il progresso, bellezza! (Il testo pubblicato nel 2005 riportava correttamente le tessiture dei ruoli... o forse è Alberto Zedda che ha inviato dall’aldilà un aggiornamento alla sua edizione critica, chissà.)

Marianne Crebassa per fortuna canta da mezzosoprano qual è e quale l’ha voluta Rossini. La sua è stata una prestazione non strepitosa, tuttavia il personaggio è uscito discretamente bene: un po’ legata all’inizio, è poi cresciuta nel corso della recita, arrivando ben rodata in tempo per la sua finale aria strappalacrime, che ha anche strappato... applausi a scena aperta, applausi che per la verità hanno accolto tutti i principali numeri dell’opera.  

Don Ramiro è una parte non propriamente impossibile (peraltro nell’aria del second’atto presenta diversi DO sovracuti...) e lo smilzo Maxim Mironov l’ha padroneggiata assai bene (a proposito di acuti, ha esagerato anche con un RE): peccato che la sua voce non abbia sufficiente potenza per diffondersi adeguatamente in spazi come quelli del Piermarini altrimenti, invece di un più che discreto, si meriterebbe un più che buono...   

Dandini è Nicola Alaimo (credo che Cenerentola fosse anche il suo debutto in carriera); personalmente lo ricordo in questa parte già al ROF nel 2010... direi che da allora, anche grazie al passaggio su terreni diversi, vedi Falstaff, ha imparato a meglio controllare l’emissione, a giudicare dall’assenza di sguaiatezze e schiamazzi.

Carlos Chausson è un più che convincente Don Magnifico, gran potenza e rotondità di voce, ha brillantemente superato gli scogli della sua parte (anche quantitativamente) assai impegnativa. Subito in spolvero con i rampolli femminini, ha poi ben cantato  l’aria del second’atto e ha contribuito alla riuscita del duetto-di-bassi a suon di scioglilingua con Alaimo.

Erwin Schrott (anche lui non ha velleità tenorili...) - da qualche anno (esordio nel Turco al ROF-2016) si dedica a Rossini - è un ottimo Alidoro, personaggio cui conferisce appropriatamente quell’arcano aplombe soprannaturale che ne caratterizza la figura. Pregevole la sua interpretazione dell’aria del primo atto, quella di Rossini e non di Agolini.  

Le due sbifide sorellastre vengono dalla scaligera Accademia e devo dire che si sono ben portate, la Capitelli in primo luogo, ma anche la Giorgadze. Prezioso il loro contributo agli ensemble, in particolare al sestetto del second’atto.

Il coro è impegnato solo al maschile, e per di più senza grandi difficoltà, quindi Casoni ha fatto il suo dovere, e basta così.

Ottavio Dantone, di professione barocchista, ha riportato saldamente questo Rossini nel ’700, il che non è affatto un demerito, tutt’altro. Apprezzabile la sua concertazione, in specie negli insiemi, dove basterebbe poco a trasformare le mirabilia di Rossini in puro e semplice caos sonoro.
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Pubblico meno folto rispetto a quello della recente Traviata, ma prodigo di applausi per tutti.

21 agosto, 2010

Il ROF-2010: Cenerentola

Ier sera quarta ed ultima rappresentazione de La Cenerentola in un'affollatissima Adriatic Arena (una volta cattedrale-nel-deserto, ora circondata e soffocata da nord da edifici costruiti e costruendi) nella ripresa dell'allestimento di Ronconi.

Una regìa da lungo tempo apprezzata, che tornava per la terza volta al ROF. Prendendosi, come unica libertà rispetto all'originale di Ferretti-Rossini, di re-introdurre nella trama un pizzico – ma poco-poco, la cicogna che trasporta al ballo Cenerentola - della magìa di Perrault, da cui gli autori l'avevano invece accuratamente depurata, convinti che il pubblico moderno (dell'anno di grazia 1817) faticasse a digerirla (Ferretti stesso scrisse della delicatezza del gusto romano, che non soffre sul palcoscenico, ciò che lo diverte in una storiella accanto al fuoco). Evidentemente a noi (del terzo millennio) invece un poco di magìa non dispiace affatto… salvo però quando la si trova già nell'originale, chè allora applaudiamo a chi la toglie di mezzo - si veda l'Alcina di Carsen. (Come dice Wotan? Wandel und Wechsel liebt, wer lebt!)

In compenso la protagonista Marianna Pizzolato è una Cenerentola che più realista di così si muore: pare la Concettina, moglie della guardia-giurata Vito Catozzo (famosa macchietta di Faletti al Drive-in) cientoquaranta-pè-cientoquaranta, praticamente 'na scfera… Simpaticamente stridente il confronto con le due sorellastre (al secolo Manon Strauss Evrard e Cristina Faus) che hanno fisici da modelle (ma la voce purtroppo non altrettanto nobile). Ieri sera poi, nel primo atto, dovendosi destreggiare sulle cataste di mobili di cui Ronconi ha riempito il palco, la povera Marianna è incappata in una piccola caduta: lì per lì è parsa una cosa prevista dal copione, ma nell'intervallo è stato annunciato che la protagonista si era procurata una seria distorsione ad una caviglia, e avrebbe continuato la recita, ma con qualche handicap di carattere scenografico. Ed infatti lei è rientrata con la caviglia destra abbondantemente fasciata ed imbragata in uno stivaletto ortopedico (una piccola vendetta della scarpina di vetro di Perrault, bandita dagli autori?) zoppicando vistosamente. E così è apparsa a noi come una Cenerentola ancor più patetica e quindi simpatica. Però la voce è davvero bella, piena e calda, le manca solo un pizzico di potenza in più per essere quasi perfetta. Per lei un gran trionfo lungo l'intera serata.

Don Ramiro era Lawrence Brownlee, la cui vocina ha una potenza direttamente proporzionale alla sua stazza fisica, da peso-piuma. Peccato, perché intonazione, espressione ed acuti sono apparsi eccellenti.

Paolo Bordogna ha trionfato come Don Magnifico: sia sotto l'aspetto vocale che attoriale, una vera macchietta, perfettamente aderente al personaggio.

Nicola Alaimo, nei panni di Dandini, ha ricevuto un'autentica ovazione dopo la cavatina d'esordio. Per il resto: una prestazione vocalmente discreta, e ottima dal lato della presenza scenica.

Alex Esposito è stato un dignitoso Alidoro, che ha ben retto l'impatto con la nobile e difficile aria del primo atto, composta da Rossini in un secondo tempo, a rimpiazzare quella originale scritta in sua vece da Luca Agolini.

A proposito del quale, perfino la Strauss Evrard ha avuto la sua messe di applausi, dopo l'esecuzione dell'aria scritta appositamente per Clorinda.

Tutti insieme efficaci nei concertati; uno su tutti il sestetto del second'atto, con quell'inizio in versi di italica Stabreim: Questo è un nodo avviluppato / Questo è un gruppo rintrecciato / Chi sviluppa più inviluppa / Chi più sgruppa più raggruppa dove Rossini raggiunge vette davvero eccelse.

Sempre all'altezza della situazione il coro di Paolo Vero.

Yves Abel ha guidato l'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna in modo pulito, pur senza suscitare entusiasmi.

Come sempre, applausi a scena… cangiante durante le due (principali) mutazioni di ambiente ideate dal duo Ronconi-Palli.

Al termine gran trionfo per tutti, con parecchi minuti di applausi, e fragor di tavolato: uno spettacolo ancora e sempre godibilissimo, al di là del livello non stratosferico degli interpreti. Insomma, ci voleva un allestimento vecchio di 12 anni e dai tratti assolutamente tradizionali per riscattare le regìe - più strampalate che interessanti - delle due novità di questo Festival.

Festival che chiude oggi il programma operistico, con l'ultima del Sigismondo. Domani lo Stabat Mater metterà il definitivo sigillo, e poi si guarderà al n° 32, i cui titoli sono di tutto rispetto: Mosè, Adelaide e Scala (più un Barbiere in forma di concerto).