Le
troppe vacanze mi hanno lasciato solo l’ultima recita (secondo cast) per
godermi questo immortale spettacolo che è La Cenerentola di Ponnelle. Arrivato
all’ottava stagione di ininterrotta presenza: 1973-74-75-82 (con Abbado);
2001-05 (con Campanella) e 2019 (con Dantone).
- Curiosamente anche le (uniche) tre presenze dell’opera al ROF (1998-2000-2010) portano la firma di uno stesso regista, Luca Ronconi.
- Nota critica all’organizzazione: come già accaduto in occasione della stagione 18-19, il libretto del teatro (Edizione critica curata da Alberto Zedda per la Fondazione Rossini in collaborazione con Ricordi) indica la protagonista Angelina e la sorellastra Tisbe come soprani, quando sono contralto e mezzosoprano e Alidoro come tenore, quando è basso. Per nostra fortuna, i cantanti erano quelli con la tessitura appropriata.
- I tre contributi di Luca Agolini. Costui era un collaboratore cui Rossini affidò, per la presentazione dell’opera nel 1817, la composizione (oltre che di recitativi) di tre brani di un certo peso: nel primo atto l’intera Scena 7 (dove Alidoro preleva Angiolina per portarla alla festa); nel secondo l’apertura, con il Coro dei cavalieri; e infine l’aria di sorbetto di Clorinda (Sventurata!) Orbene, in tutte tre le edizioni del ROF sono stati proposti i due ultimi contributi di Agolini, mentre il primo è stato sempre sostituito dalla versione, effettivamente più… sostanziosa, composta da Rossini nel 1820. La Scala, fin dai tempi di Abbado-Ponnelle, ha fatto una scelta assai drastica: bandire Agolini, tagliando di netto il coro e l’aria e rimpiazzando la scena Alidoro-Angiolina con la versione di Rossini. Ed in ciò è stata seguita da quasi tutte le messeinscena dell’opera in giro per il mondo. Ma in realtà l’edizione critica di Zedda consente – stile meccano – anche altre soluzioni. Una di queste l’ha proposta lo stesso Zedda nel 2017 a Pesaro (extra-ROF) in occasione di una recita commemorativa, in forma di concerto, da lui personalmente curata (anche se non diretta, per ragioni di salute) dove ha eseguito i primi due dei tre contributi di Agolini, cassando l’aria di Clorinda.
La
direzione di Capuano ha esaltato tutta la freschezza, il brio e lo humor di
questa partitura, che mescola in maniera mirabile il buffo, la commedia, il
patetico, il sarcastico e il… demenziale. Perfetta l’intesa con le voci, che
viene dalla lunga consuetudine di Capuano con il suo ensemble vocale, spesso
esibitosi in passato in Auditorium con quello strumentale di Ruben Jais
in indimenticabili concerti di barocco. E l’orchestra e il coro maschile degli
accademici (di Salvo Sgrò) hanno risposto alla grande alle
sollecitazioni del Direttore, alle quali si sono uniti gli interventi di
fortepiano (Valentina Rando) e di cembalo (Davide Costantino),
sempre azzeccati e pertinenti rispetto allo sviluppo dell’azione.
Fra
le voci, tre erano di accademici, e si son fatti ben valere: soprattutto
il Dandini di Chao Liu, una vera rivelazione, fin dalla cavatina
d’esordio (Come un'ape ne' giorni d'aprile)
e poi nel duetto con Magnifico (Un segreto
d'importanza) e nel quintetto e sestetti. Voce baritonale chiara
e corposa, coniugata ad autorevole presenza scenica.
E poi le sbifide, petulanti e scatenate sorellastre María Martín Campos (Clorinda, peraltro privata della sua arietta…) e Dilan Şaka (Tisbe), efficaci nelle parti singole e nei contributi ai concertati.
Gli
altri interpreti (già ex-accademici ormai… navigati) hanno tutti ben meritato.
In primo piano il Magnifico di Paolo Ingrasciotta, autorevolmente
presentatosi con la cavatina Miei rampolli
femminini e poi confermatosi con l’aria Sia qualunque delle figlie e infine nel duetto con Dandini, oltre che nei
concertati. Apprezzabile poi la verve con la quale ha animato l’intera
serata.
Mara
Gaudenzi è
stata una convincente Angelina: nelle reiterate, patetiche riprese di Una volta c’era un Re, nel duetto del
primo atto con Ramiro (Un soave non so che)
e infine nell’impegnativo finale (Aria-Rondò Nacqui
all'affanno - Non più mesta). Davvero una prestazione di alto
livello, dove ha messo in mostra la sua corposa voce contraltile, riuscendo
anche ad emergere nei tumultuosi concertati che costellano la partitura.
E a proposito di Don Ramiro, Pierluigi D'Aloia ha mostrato tutte le qualità del classico tenorino rossiniano: voce squillante, senza sbavature, intonazione perfetta, il tutto confermato e culminato nella sicurezza con la quale ha affrontato la sua impegnativa aria Sì, ritrovarla io giuro, popolata di DO acuti a profusione.
Li
Huanhong (Alidoro)
ha più che dignitosamente svolto il suo compito, che ha il culmine nell’aria La del ciel nell’arcano profondo, quella
appositamente scritta da Rossini per un famoso basso dell’epoca (Gioachino
Moncada).
Ma naturalmente non si possono dimenticare i contributi delle voci (singole e coro) ai pezzi concertati, che abbondano e rappresentano uno dei pregi in assoluto di questa partitura. Lascia sempre a bocca aperta il sestetto del second’atto (Questo è un nodo avviluppato) con quei versi di italica Stabreim, dove Rossini raggiunge vette davvero eccelse. O lo stupefacente Nel volto estatico del primo atto; o ancora il Parlar, pensar, vorrei, che anticipa l’irresistibile finale primo.
Insomma,
una prestazione complessiva di grande spessore, salutata alla fine da un
uragano di ovazioni, per tutti, culminato in un interminabile applauso ritmato all’uscita
della Gaudenzi e poi di Capuano, che ha giustamente chiamato il pubblico ad uno
speciale applauso per i valorosi strumentisti.
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