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18 agosto, 2024

ROF-2024-live: Ermione.

Ho riservato la mia prima presenza al ROF45 a quella che (non solo io) considero l’opera più innovatrice e moderna di Rossini: Ermione.

Il mio interesse era anche solleticato dalla presenza sul podio di Michele Mariotti, che ebbi occasione di vedere ed ascoltare proprio al suo battesimo al ROF, nell’ormai lontano 2010, con Sigismondo (prima ed ultima, al momento, rappresentazione) e con lo Stabat Mater. Da allora il direttore pesarese che, come molti suoi pari, del resto, ha avuto molto dalla sorte (essere figlio del fondatore-sovrintendente del Festival ed essere quindi cresciuto a pane-e-Rossini) di strada ne ha fatta assai ed oggi eccelle non solo in Rossini ma in una vasta area dell’immenso repertorio del teatro musicale.

E dico subito che, a conferma della buona impressione generale lasciatami dall’ascolto radiofonico della prima, anche questa terza recita ha per me meritato un voto ampiamente positivo.

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Ermione (tratto da Tottola dall’Andromaque di Racine, a sua volta liberamente derivata da quella di Euripide) è un soggetto tutto incentrato sulla psicologia (-schizofrenia?) dei quattro protagonisti (tutti, Andromaca esclusa, della generazione successiva a quella dei belligeranti di Troia) e sull’incredibile catena di rapporti conflittual-sentimentali che intercorrono fra gli stessi:

- Oreste (che ha appena vendicato il padre Agamennone, ammazzando sua madre Clitemnestra e l’amante di lei, il cornificatore Egisto) è invaghito della figlia di Menelao e della fedifraga Elena, la spartana Ermione;

- costei è patologicamente innamorata di Pirro (figlio del leggendario Pelide);

- il quale si è trovato in casa, come bottino di guerra, la povera Andromaca (più il figlioletto di lei Astianatte, che Racine e Tottola hanno tutto l’interesse a mantenere in vita, invece che credere alla sua morte per scaravento giù dalle mura troiane, da parte del futuro Odisseo) e se ne innamora all’istante, dimenticando una futile promessa fatta ad Ermione;

- ma Andromaca (unico personaggio con la testa sulle spalle, va subito detto, in mezzo a quei tre scavezzacollo figli/e di papà…) resta inflessibilmente fedele alla memoria del marito Ettore, fatto secco a Troia proprio dal padre del suo attuale spasimante!

Insomma, un inestricabile groviglio di sentimenti: l’infatuazione selvaggia, di Oreste per Ermione, di Ermione per Pirro e di Pirro per Andromaca, tutti amori impossibili e inquinati da cieca gelosia, che inevitabilmente potranno trovare sbocco solo in totale tragedia.      

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Mamma mia, come si vede, un soggetto di per sé fuori dall’ordinario, dal quale uno come il 27enne Rossini, all’apice del furore creativo degli anni napoletani, non poteva non rimanere soggiogato al punto da riservargli un trattamento adeguato, quindi fuori dall’ordinario

A cominciare già dall’Ouverture, che si apre in atmosfera cupa, dolente e poi agitata, presto interrotta dall’insolito ingresso del coro (!) dei deportati troiani; poi seguita da un motivo leggero e spiritoso e dal proverbiale crescendo, che Rossini si auto-impresterà in ben tre Ouverture di opere immediatamente successive (Eduardo, Bianca e Matilde).

L’opera inizia poi con la presentazione dei quattro personaggi principali e delle rispettive menti disturbate. E si capisce quindi come la musica, per seguirne questi psicologici labirinti, ne sia inevitabilmente contagiata, discostandosi dagli stilemi usuali. Al confronto anche le innovazioni dell’ultimo Gluck o di Cherubini sembrano solo dei timidi tentativi.

Dapprima si presenta Andromaca, che trepida per la sorte del figlio, ma contemporaneamente apprende delle profferte di amore da parte di Pirro, disposto per di più ad adottare Astianatte qual figlio ed erede al trono! Ma la sua coscienza le impedisce di tradire la fedeltà alla memoria del consorte, Ettore. Da qui il suo stato di prostrazione.

Ecco poi Ermione, circondata da premurose ancelle in un’atmosfera apparentemente idilliaca. Ma subito rotta dal cruccio che attanaglia la principessa spartana: Pirro la sta tradendo per Andromaca!  

Ed ecco appunto arrivare Pirro, in cerca della troiana. Ermione lo affronta a viso aperto, ma il Re si vanta della sua autorità e della sua decisione, pur con l’animo oppresso dall’incertezza riguardo le intenzioni di Andromaca, che non pare proprio disposta a… dargliela!

Ora tocca ad Oreste entrare in scena ed esporre subito la lancinante contraddizione che ne caratterizza la personalità: il suo amore non corrisposto per Ermione; e l’ingrato compito che lo attende, che ha risvolti per lui esiziali: convincere Pirro a dimenticare Andromaca, giustiziarne il figlio e quindi inducendolo a tornare da Ermione, col che lui perderebbe per sempre la sua amata!

Inizia adesso l’azione vera e propria. Pirro convoca Oreste e i greci per ascoltarne le ragioni, presenti anche Ermione e Andromaca. Dopo che Oreste lo ha invitato a liberarsi dei troiani, in particolare di Astianatte, Pirro, con tono arrogante, dichiara apertamente le sue determinazioni: impalmare Andromaca e porre in futuro Astianatte sul trono, ignorando bellamente il mortale rischio che ciò farebbe correre alla Grecia.

Ermione si dispera, mentre Oreste, ovviamente, spera (mors tua… etc,) Ma Andromaca ha fatto sapere a Pirro di non accettare le sue profferte. Al che il Re non esita a ricattarla, ipocritamente offrendo, per ingelosirla, la sua mano ad Ermione, e contemporaneamente gettando Astianatte, perché venga giustiziato, nelle mani di Oreste, che quindi raggiungerebbe il fine politico, ma a spese di quello sentimentale. Un mirabile concertato generale ci propone le quattro diverse attitudini dei protagonisti rispetto a questa drammatica quanto insostenibile situazione.   

Andromaca allora non vede altra via d’uscita che quella - poi scopiazzata in più di un melodramma - di fingere di promettersi a Pirro per averne in cambio il giuramento di salvar la vita al figlio, per poi suicidarsi prima di concedersi a quell’invasato. È in quest’atmosfera carica di tensione e incertezza che si chiude – con un finale concertato -  il primo atto.

Il secondo si apre con Pirro che esulta, informato della decisione di Andromaca di accettare le sue profferte. E proprio i due sono protagonisti di un incontro dove la gioia del Re, che finalmente vede coronarsi il suo sogno, si scontra con il cruccio di Andromaca, ormai preparata all’estremo sacrificio pur di salvare il figlioletto.

Dopo un fugace incontro-scontro di Ermione con la povera Andromaca, oggetto del disprezzo della prima, che ne ignora il tremendo stato di necessità, eccoci arrivati alla gran scena di Ermione. Davvero il compendio di tutte le straordinarie novità introdotte da Rossini: si va dalla vana speranza di un ripensamento di Pirro, alla constatazione del crollo di ogni prospettiva futura, al risentimento contro l’uomo che l’ha tradita e la donna che è stata causa del tradimento! 

Ora ci si avvicina allo scioglimento del dramma. E ci pensa Ermione ad… accontentare tutti: consigliata dalla fida Cleone, che le suggerisce di usare la sua influenza su Oreste - uno che per lei sarebbe disposto a tutto, per amore e per… esperienza pratica - finge di accettare le smanie di cui costui la fa bersaglio, lo convince a ripetere quel gesto di cui lui è ormai specialista universalmente riconosciuto: ammazzare il fedifrago Pirro! Omicidio che Oreste compie, non senza schizofreniche dissociazioni psichiche. 

Ma la stessa Ermione, in una seconda scena di altissima drammaticità, pentitasi subito dell’ordine impartito ma ormai non più revocabile, altrettanto schizofrenicamente maledice il sicario, al quale non resta che lasciarsi trascinare via dai compagni di missione.

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Beh, se ancor oggi noi scafati spettatori del terzo millennio, passati attraverso mille esperienze e rivoluzioni (e vessazioni?) restiamo sconvolti ed allibiti di fronte a simile esplosione di creatività musicale, possiamo capire perché per quasi 150 anni nessuno più si curò di tale autentico tesoro nascosto, meritoriamente ritrovato qui da noi negli anni’70 e poi definitivamente riportato alla ribalta dalla Fondazione Rossini e dal ROF.
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Johannes Erath ci propone una scena (di Heike Scheele) praticamente fissa, un ambiente incastonato in una cornice di neon (luci di Fabio Antoci) e abitato ora da personaggi della corte di Pirro, in abbigliamento moderno e vistoso (costumi di Jorge Jara) e dediti a libagioni e gozzoviglie, ora dal coro (il popolo dell’Epiro) rigorosamente in anonimi abiti neri. La passerella che circonda l’orchestra è parsimoniosamente impiegata per accogliere, portandoli proprio alla ribalta, i più drammatici incontri fra le coppie (Ermione-Pirro o Ermione-Oreste).

Sullo fondo della scena e ai due lati appaiono saltuariamente immagini marine (video di Bibi Abel) oppure i palchi del Teatro Rossini. Fin troppo invadente l’impiego di un mimo ad impersonare l’immanente presenza di Cupido, le cui frecce (da guerre stellari) sortiscono peraltro (come vuole il soggetto di Tottola) solo esiti nefasti. Eccessivamente duro mi è parso il trattamento riservato al povero Astianatte, perennemente bistrattato da tutti (mamma esclusa, per fortuna…)

Per il resto, la gestione dei personaggi è assai curata, mettendo nel dovuto risalto tutti i lati deteriori delle rispettive psiche.

In sintesi, una proposta intelligente e di buon gusto, ma soprattutto aderente allo spirito del testo.

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Torno ora al piano sonoro, ribadendo la meticolosa attenzione riservata da Mariotti ad ogni minimo dettaglio della partitura, testimoniata da passaggi in punta di cesello, affidati a strumenti solisti, a improvvisi strappi e scoppi orchestrali per sottolineare ogni sfumatura delle menti disturbate dei protagonisti. E una maniacale attenzione al canto, dei singoli e del coro, sempre guidati con millimetrica precisione. Più che meritata la lunga ovazione finale per il Direttore di casa.

Ma come non lodare il coro del Ventidio Basso e il suo curatore Giovanni Farina, alle prese con compito assai gravoso e fondamentale nell’economia dello spettacolo; compito assolto con il massimo dei voti per compattezza, potenza e omogeneità di suono.

Anastasia Bartoli è stata ancora una volta la trionfatrice della serata: voce senza sbavature, svettante nella parte alta della tessitura e davvero imponente negli sfoghi di passione e odio di questo personaggio: delirio per lei dopo la grande scena, e meritate ovazioni all’uscita finale.

Enea Scala non mi aveva convinto alla prima ascoltata per radio: acuti spesso ingolati e con vibrato piuttosto sgradevole. Ieri devo dire che si è – in buona misura – riscattato, anche se mi limiterò a dargli una piena sufficienza, non di più. Il pubblico per la verità è stato assai più indulgente, riservandogli un’accoglienza calorosa.

Assai più calorosa ancora quella ricevuta da Florez, che sa supplire con mestiere ed esperienza alle purtroppo naturali conseguenze… dell’età, ecco. In ogni caso, il suo è un Oreste forse meno svalvolato di quanto Tottola e Rossini non lo dipingano in versi e note, ma il suo carisma resta tuttora intatto.

Chi dalla ripresa radiofonica aveva tratto vantaggi forse eccessivi è stata l’Andromaca di Viktoria Yarovaya, che dal vivo ni è parsa meno autorevole, in specie bella parte bassa della tessitura, non proprio impeccabile.

Hanno confermato invece le buone impressioni sia Antonio Mandrillo (Pilade) che Michael Mofidian (Fenicio): voci ben impostate su tutta la gamma, che gli hanno meritato anche l’applauso dopo il loro siparietto nel finale. Oneste le prestazioni di Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Davvero una bella serata di musica, che il foltissimo pubblico della Vitrifrigo Arena ha accolto con grande entusiasmo.


08 agosto, 2024

Il ROF-2024 alla radio.

Radio3, fedele alla tradizione, irradia le prime del Festival, che quest’anno sono quattro e non tre, in omaggio allo status di Capitale italiana della cultura di cui gode Pesaro per il 2024.

Rompere il ghiaccio, nel rinnovato Auditorium Scavolini, è toccato a Bianca&Falliero, alla quarta presenza al ROF (dopo 1986-89 e 2005). A guidare dal podio la OSN-RAI era Roberto Abbado; Giovanni Farina ha diretto il Coro del Teatro Ventidio Basso.

Nei quattro ruoli principali figurano due (ormai) vecchie glorie del ROF: le voci acute di Bianca di Jessica Pratt e di Contareno (suo padre!) di Dmitry Korchak; affiancate da quelle più gravi di due promesse già battezzate al ROF in anni recenti: il(la) Falliero di Aya Wakizono e il Capellio di Giorgi Manoshvili.

Premesso che l’ascolto tecnologico ha sempre i suoi limiti, mi sento di giudicare positivamente la prova di Abbado, almeno sul lato delle agogiche. Bene anche il coro di Farina.

Quanto alle voci, la Pratt ha subito approfittato delle opportunità di coloratura offerte da Rossini per sciorinare i suoi proverbiali sovracuti (DO#, RE e persino MI) chiudendo il rondò finale con uno stentoreo e lunghissimo MIb. La cantante aussie ormai di casa qui da noi mi è parsa anche la voce più centrata sul personaggio.

Non così le altre tre voci. Korchak più che discreto, ma forse questa parte di bari-tenore non gli è proprio congeniale (ascoltare il Merritt del 1986…) così lui se l’è cavata sopperendo con il mestiere. Per la Wakizono stesso discorso: voce assai bella ed espressiva, ma non certo di contralto (ascoltare la Horne del 1986 ma anche la Barcellona 2005…) anzi di mezzo spinto (DO acuti come nulla fosse) che soprattutto nei duetti con Pratt si faticava a distinguere dal soprano. Fin troppo grave e cavernosa invece la voce di Manoshvili. Doveroso segnalare anche la Costanza di Carmen Buendìa, il Doge di Nicolò Donini, e poi Claudio Zazzaro e Dangelo Dìaz.

Accoglienza per tutti più che calorosa, anche se… ristretta. Forse il pubblico era esausto per l’autentica maratona durata dalle 20 fin quasi a mezzanotte! In effetti l’opera mostra tutte le sue contrastanti caratteristiche: quelle di una summa di tutto lo scibile del teatro musicale messa insieme da Rossini a partire dalla Camerata dei Bardi per arrivare ai giorni suoi, Beethoven incluso! Lunghissime scene, duetti, terzetti, quartetti e concertati con coro di splendida ma ipertrofica fattura, alternate a recitativi accompagnati in declamato e pure a recitativi secchi (ieri proprio nulla è stato tagliato!)


Insomma, ci si spiega ancor oggi la reazione ammirata del pretenzioso pubblico della Scala del 1819, ma anche la contemporanea stroncatura degli spocchiosi critici di allora.   
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2. L’equivoco stravagante.

Quarta comparsa al ROF (dopo 2002-08-19) anche per La terza opera di Rossini (seconda ad essere rappresentata) che ha fatto riaprire i battenti al glorioso Teatro intitolato al Maestro e rimesso in sesto dopo il terremoto del 2022 che ne aveva compromesso la sicurezza.

Opera che – causa bando dai teatri per divieti di censori-bacchettoni - ha generosamente imprestato sue parti a parecchie sorelle arrivate dopo di lei; citerò solo tre macroscopici esempi: il Coro introduttivo dell’Atto II, che verrà reimpiegato in Ciro in Babilonia e poi in Tancredi; il quintetto dell’atto II (Speme soave) ripreso nel corrispondente Spera se vuoi (Pietra di paragone, a 21’55”); e l’aria finale di Ernestina (qui a 43”) passata ancora nella Pietra di paragone a Clarice (qui a 1’28”).

Michele Spotti (al suo terzo impegno importante al Festival: Barbiere streaming 2020 e Bruschino 2021) sta facendo grandi progressi e ha diretto da par suo la Filarmonica Rossini, dando un taglio davvero mozartiano a questa partitura del todeschino, che al Teofilo si ispirò assai nei suoi primi anni di carriera. Mirca Rosciani ha guidato il Coro del Teatro della Fortuna ad una prestazione più che apprezzabile.

Oltre a orchestra e coro, anche il cast è totalmente rinnovato rispetto alla stessa produzione del 2019 (allora ospitata nella smisurata Vitrifrigo Arena). Artisti quasi tutti (Alaimo escluso) di recente frequentazione dell’Accademia. La debuttante nel cartellone principale del ROF, Maria Barakova, veste i panni della protagonista Ernestina, alla quale presta in modo convincente (cavatina, duetti e rondò finale) la sua bella e calda voce di mezzosoprano lirico. 

I due buffi sono il navigato trascinatore Nicola Alaimo (Gamberotto) e il quasi esordiente (dopo la Cambiale del 2018) Carles Pachòn (Buralicchio): entrambi degni di elogio nelle rispettive cavatine/arie ma anche nel duetto (con gag) del primo atto e nei concertati.

Pietro Adaìni (già nel Turco del 2018 e ne La Gazzetta del 2022) impersona il romantico Ermanno e lo fa con buon profitto: voce squillante e acuti (incluso un DO#) senza sbavature.     

I suoi due sodali per la conquista della cinica Ernestina (Rosalia e Frontino) sono Patricia Calvache (praticamente all’esordio) e Matteo Macchioni, già presente nella Gazza del 2015 e in Adina del 2018. Anche per loro (cui Rossini riserva le classiche arie da sorbetto) note più che positive.

Da ultimo sottolineo ancora il perfetto affiatamento di tutti nei pezzi d’insieme: duetti, quartetto, quintetto e finali d’atto.

Insomma, almeno all’ascolto radio, una riproposta più che positiva.

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3. Ermione.

Ermione rappresentò per Rossini un (fugace) momento di rottura dei collaudati schemi (napoletani) dell’opera seria, tanto che fu categoricamente bocciata dal pubblico e messa in naftalina dallo stesso compositore, per essere poi dimenticata lì per decenni. Questa fu – ante-litteram – un’operazione di tipo breakthrough (come usano dire i moderni barbari…) che solo 30 anni dopo troverà il massimo epigono in tale Wagner!

Se oggi ne possiamo apprezzare tutta la straordinaria modernità, è soprattutto grazie al recupero fattone dalla Fondazione Rossini e dal ROF, che lo mette in scena oggi per la terza volta, dopo 1987 e 2008.

E poi - ça va sans dire – il merito va anche riconosciuto a Direttori come Michele Mariotti, che la concerta qui per la prima volta proprio a casa sua, sapendone esaltare tutte le straordinarie qualità e la grande varietà di accenti, dal dolente, al lirico, alle esplosioni degli animi esacerbati. In ciò assecondato alla grande dalla OSN-RAI, davvero senza una sola sbavatura, e dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.

Ma anche il cast ovviamente conta, e quello messo in campo in questa produzione ha avuto la sua punta di diamante nella protagonista, la sempre più convincente Anastasia Bartoli, già segnalatasi lo scorso anno come Cristina: davvero torreggiante, soprattutto nelle due grandi scene del second’atto.

Molto bene anche l’appassionata Andromaca di Viktoria Yarovaya, anche lei ormai veterana del ROF (esordio nel Demetrio del lontano 2010). 

Praticamente scontato il successo per il Direttore Artistico del Festival, tale J.D.F. (Oreste) ormai ultra-decano del ROF (esordio 1996!) che ha sciorinato il meglio del suo bagaglio virtuosistico. 

Maluccio, ahilui e ahinoi, il Pirro di Enea Scala. Al quale credo proprio manchi il phisique-du-role per questo personaggio. Senza scomodare il sontuoso Merritt, basterà aver presenti un Kunde o uno Spyres per fare confronti impietosi. Ma poi, a parte la vocalità naturale, ier sera mi è parso anche fuori forma, con difficoltà di intonazione, acuti gutturali e spesso ghermiti dal semitono sottostante, oltre ai gravi quasi inudibili. Peccato davvero!

Buone notizie invece per Antonio Mandrillo (Pilade) che ieri è stato, per meriti sul campo, il secondo e non il terzo tenore del cast.

Più che dignitose le prove di Michael Mofidian (Fenicio), Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Comunque accoglienza calorosissima per tutti, con punte per Mariotti, Florez e Bartoli.

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4. Il barbiere di Siviglia.

Da quest’anno il Barbiere diventa recordman in solitaria in fatto di presenze al ROF (7, senza contare lo streaming dell’autunno 2020 in epoca Covid, contro le 6 della Scala). Consideriamolo un doveroso tributo a quella che è indiscutibilmente ancora l’opera più nota e gettonata del grande Gioachino.

E per omaggiarla se ne omaggiano quest’anno alcuni iconici interpreti. A partire da uno che calcò le scene del ROF, vestendo i panni di Assur, nel remoto 1992 (!!!) Michele Pertusi. Il quale ha cantato come DonBasilio nelle ultime apparizioni. E anche ieri la sua Calunnia ha mandato il pubblico in visibilio!

Un altro navigatissimo del ROF (Siége del 2000 dopo presenza in una kermesse del 1996) è Carlo Lepore, che impersona, come nello streaming del 2020, il mangiapane-a-tradimento Don Bartolo. Anche la sua è stata un’interpretazione sontuosa, che ha avuto la punta di diamante nell’aria del primo atto, caratterizzata da quella incredibile raffica di scioglilingua che lascia sempre di stucco. 

Ma a proposito di veterani, che dire di Patrizia Biccirè, che fu Giulia ne La scala di seta del 1992! E che già fece Berta nel 1997! E anche ieri ha raccolto ovazioni dopo a sua arietta del vecchiotto

Dopo i decani, ecco i promettenti giovani della nuova leva di cantanti rossiniani. Il protagonista è Andrzej Filonkzyk, in terminologia goliardica un fagiolo, essendo alla seconda apparizione al ROF, dopo il Raimbaud (Ory) del 2022. Il suo è un accattivante Figaro: voce potente, buon portamento, subito esibiti nella celebre cavatina d’esordio. Certo, l’esperienza gli gioverà per migliorare ancora. 

Come lui, viene dall’Ory di due anni fa anche la Rosina di Maria Kataeva. E anche per lei vale lo stesso discorso: una prova superata con voto più che discreto, voce dal timbro morbido, bene impostata su tutta l’ampia tessitura mezzosopranile, oltre a buona sensibilità interpretativa.   

Jack Swanson (già Florville nel Bruschino del 2021) è oggi il lezioso Conte/Lindoro, cui ha prestato la sua bella voce chiara e dagli acuti squillanti. Anche per lui il futuro si prospetta roseo, a patto di continuare a... studiare.

Alla terza uscita (dopo 2018 e streaming 2020) come Fiorello/Ufficiale è William Corrò, che ha dato il suo valido contributo al buon successo della serata.

Successo propiziato dall’energica direzione – tempi a volte persin troppo parossistici - di Lorenzo Passerini, alla guida della solida Sinfonica Rossini, ben coadiuvati dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.   

Insomma, un Barbiere più che positivo, un’esibizione che il pubblico ha giustamente accolto con grandissimo calore.

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Ecco, chiuso il ciclo radiofonico delle prime, ora non mi resta che assistere dal vivo… dopo Ferragosto.

Ma intanto, Ernesto Palacio ha già annunciato il cartellone del 2025:

·       Zelmira (Sagripanti/Bieito)

·       Italiana (Korchak/Cucchi)

·       Turco (Ceretta/Livermore)

·       Messa per Rossini
 

27 aprile, 2023

Pagelle sulla Lucia scaligera targata Oropesa-JDF/Chailly-Kokkos

La quinta (su 8) rappresentazione di Lucia di Lammermoor è andata in scena ieri sera alla Scala, in un teatro ben lungi dall'esaurito.

Tradita la prima per rispetto a… Rachmaninov, ho quindi iniziato l’approccio a questa nuova produzione attraverso lo streaming-on-demand di RaiPlay, che (ancora per pochi giorni, parrebbe) mette la recita del 13 aprile a disposizione del pubblico. (Nel frattempo è comparsa la registrazione anche su youtube, finchè qualcuno non reclamerà…) Come spesso accade, la ripresa televisiva dà assai di più (e non sempre meglio?) di ciò che si vede in teatro, soprattutto grazie alle angolazioni di ripresa e ai primi piani. 

Parto quindi dalla regìa, che in un’opera come questa conta (ad esagerare) per 20 su 100, rispetto alla musica, per dire che Jannis Kokkos ha fatto il minimo sindacale (ma per lui il salario minimo è un filino più alto degli stratosferici 9€ all’ora che tuttora si negano qui da noi…) limitandosi a coprire i personaggi con abiti contemporanei, il che ce li rende però ancor più antipatici e ridicoli, diciamolo francamente: volendo darci un riferimento all’attualità avrebbe potuto ambientare la vicenda fra le bande del Bronx (tipo West Side Story, per dire) visto che il soggetto è una scopiazzatura di Romeo&Juliet (con tanto di alias di Frate Lorenzo…)

E a proposito di scopiazzature, mi viene in mente la grande scalinata di Brockhaus-Svoboda del 2012, nella produzione del circuito lombardo; per il resto, trovate abbastanza bambinesche: animali di cartapesta – incluso un ramicornuto cervo -  assortiti qua e là e improbabili statue da Cimitero Monumentale… Insomma, una regìa inconsistente, che il loggione alla prima aveva disapprovato assai, e a ragione, mentre ieri sera è stato un filino più clemente (o talmente disinteressato, data l’assenza del regista alle uscite finali, da risparmiare anche sui buh…)

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I suoni - ancora una volta, e come sempre, se emessi come si deve! – hanno solo parzialmente rivalutato questa produzione.

Merito al 60% almeno di Direttore, buca e coro, davvero irreprensibili per ricercatezza di tempi, di suono, di sfumature e di pathosIl restante 40% se lo devono dividere i protagonisti, ai quali mi permetto di assegnare il premio di produzione nelle seguenti quote:

10% Lisette Oropesa (Lucia) [voce calda e morbida, acuti pennellati, agilità virtuosistiche, buona recitazione anche se un po’ contratta]

9% Boris Pinkhasovich (Enrico) [bella sorpresa, voce importante, sicura ed efficace presenza scenica]

7% JDF (Edgardo) [queste sue escursioni extra-rossini non (mi) convincono, fatta salva la sua grande professionalità e la voce ancora abbastanza integra; che però al loggione arrivava a malapena (la glassharmonica si sentiva di più!)]

5% Carlo Lepore (Raimondo) [ha fatto il possibile per non far rimpiangere Pertusi]

4% Giorgio Misseri (Normanno) [in proporzione al peso dei ruoli, all’altezza di JDF]

3% Leonardo Cortellazzi (Arturo) [minimo sindacale per lui]

2% Valentina Pluzhnikova (Alisa) [incoraggiamento per l’accademica]

Primo e terzo atto complessivamente discreti, il secondo francamente meno, con la punta di diamante dell’opera (il sestetto) passato via senza emozione.

Alla fine qualche bravo! per Oropesa, Pinkhasovich, Florez, Chailly e coro; applausetti per i restanti. Regista, come detto, non presentatosi. In tutto forse 7-8 minuti, poi tutti a nanna.

In conclusione, che dire? Maliziosamente: dovremmo ringraziare il Covid per averci risparmiato di sorbire questa passabile minestrina come cenone di un SantAmbrogio? 

17 agosto, 2022

ROF-43 live: Le Comte Ory

Terza recita, ieri sera alla Vitrifrigo Arena, de Le Comte Ory, nella nuova produzione targata DeAna-Matheuz. Qui l'audio della precedente realizzazione del 2009. Qui invece l’audio della prima del 9 scorso.

Vitrifrigo Arena non propriamente esaurita, ma abbastanza densamente popolata da un pubblico ben… caricato.

Che cosa sia, in termini di genere, quest’opera è cosa a prima vista inafferrabile, tanto che musicologi e critici si sono spesso divisi su come battezzarla. Due eccellenti saggi (a firma di Emanuele Senici e Mark Everist) comparsi sul programma di sala del ROF ci aiutano a districarci in questa specie di labirinto.

Intanto: l’Ory, pur essendo stato espressamente commissionato e messo in scena dall’Académie Royale (aka l’Opéra) manca dei principali requisiti imprescindibilmente prescritti dal capitolato tecnico del Teatro in fatto di GrandOpéra: è in soli 2 atti (anziché 4 o 5); non prevede alcun balletto; ed infine ha un soggetto lontano le mille miglia da quello (a sfondo storico-epico) tipico di questo genere e più vicino caso mai (per struttura e contenuti) all’Italiana o al Barbiere o al Turco...

E allora come si spiega l’arcano? Col fatto che a Parigi stava prendendo piede, accanto al GrandOpéra, anche il PetitOpéra! Magari ottenuto per spacchettamento (via i balletti) di opere esistenti o, come nel caso dell’Ory, per riproposizione di musiche composte per altre opere (qui Il Viaggio a Reims) per supportare nuovi soggetti, facendone quindi la parodia. Opere quindi relativamente brevi che venivano poi rappresentate in abbinamento a balletti totalmente indipendenti nel contenuto: tutte le recite dell’Ory del 1828 (la prima e 9 repliche) furono immancabilmente appaiate a (6 diversi!) balletti.

Quanto al concetto di parodia, esso era inteso nel duplice significato di rivisitazione del contenuto musicale e di sdrammatizzazione o dissacrazione del soggetto. E l’Ory altro non è che una grandiosa parodia: travestimenti (Ory per primo, poi tutti i suoi compari); scambi di persona e qui-pro-quo (il terzetto finale) che sono elementi tipici della farsa; banalizzazione e ridicolizzazione di situazioni drammatiche (l’esplorazione dei sotterranei del castello da parte di Raimbaud, che ha contorni spaventevoli ma porta alla scoperta di una catasta di fiaschi e bottiglie di vino); comportamenti totalmente difformi dalle esternazioni dei personaggi (primo fra tutti, la Comtesse, ma anche il Gouverneur e Ragonde…)

Bene, a che scopo tutto ‘sto po’po’ di tormentone? Per definire non meno che geniale l’impostazione registica del mitico Hugo De Ana!

Che ha colto in pieno l’intima essenza e lo spirito dell’opera, restituendocela in tutto il suo irresistibile fascino. Si è ispirato per le scene (e in parte i costumi) al celebre trittico di Hieronymus Bosch del Giardino delle delizie, del quale compare subito in formato gigantesco il pannello di sinistra mentre la scena è occupata più spesso da elementi della parte mediana del pannello di destra (l’Inferno musicale, non a caso) ma anche di quello centrale.

Il trittico è una rappresentazione, dei concetti di ogni religione che si rispetti, oltre che della musica secolare e profana. Non è fuori luogo considerarlo una (involontaria?) parodia delle vicende umane e calza quindi come un guanto sul soggetto dell’Ory.

Il Conte, travestito da eremita, mostra in testa un paio di cornetti da diavolo; al momento del riconoscimento, scoprirà il suo vero abbigliamento da satana tentatore; poi catechizzerà Isolier munito delle due tavole mosaiche della legge, con i 10 comandamenti che si illuminano a comando.

La Comtesse esprime concetti quali fedeltà, rigore morale, austerità, sobrietà… nel mentre si comporta come una donna in cerca di… manico, con atteggiamenti ed abbigliamenti allusivi e provocanti (persino un accenno di pole-dance per Ory). Non parliamo della Ragonde, custode del castello e delle sue virtù, che invece organizza pellegrinaggi dal falso eremita per le mogli e fidanzate dei crociati lontani, in cerca di piaceri secolari.

Il Gouverneur si presenta come severo tutore del Conte, facendo fallire il suo primo approccio verso la Contessa; ma poi lo scopriamo in mezzo alla banda dei gaudenti amici di Ory nell’assalto alle donne del castello.

Il primo atto si svolge in un’atmosfera esilarante, occupato da masse femminili in costumi dai colori sgargianti, che si muovono (vedi la polonaise) in un giardino di delizie fatto di ortaggi e altre cibarie, messe in carrelli del vicino Spazio Conad…  

Il secondo atto si distingue per le scene dei bagordi di Ory&soci, interrotte dall’arrivo di Ragonde, che provoca la sparizione istantanea di bottiglie e fiaschi e la comparsa di luminose aureole sul capo delle finte monache.

Che dire del famoso trio? Lo vediamo in piena luce me le mosse dei tre protagonisti sono proprio quelle che si possono facilmente immaginare data la situazione di totale oscurità prevista dal libretto: con il povero Ory che è preso in mezzo da due donne (sì, perché anche Isolier lo è nella realtà anagrafica…) il che rappresenta il culmine della parodia!   

Insomma, tutta la messinscena merita una lode incondizionata, per il gusto e il garbo che mai scadono a volgarità (ricordo con ribrezzo una produzione di Pelly passata anche in Scala anni orsono) e sono certo che gli applausi del pubblico siano andati virtualmente anche al regista, pur assente alle chiamate finali.
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Anche sul fronte sonoro-canoro, buone se non ottime notizie. A cominciare da Matheuz, che alla radio mi era parso un tantino pesantuccio e che invece ieri ha ottenuto dai professori della OSN-RAI un risultato di tutto rispetto, per varietà di sfumature e adarenza allo spirito scanzonato della partitura. Il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina ha da parte sua movimentato le brillanti scene d’insieme che costellano la partitura con apprezzabile qualità.

JDF è prevedibilmente stato il mattatore della serata: la voce cambia (non necessariamente in peggio) con gli anni e… il repertorio, ma insomma il nuovo Direttore artistico del ROF ha dimostrato di aver ancora molto, moltissimo da dire cantare anche in futuro!

Accanto a lui Julie Fuchs ha confermato in pieno (ed anzi in meglio) ciò che di buono aveva sciorinato alla prima: a teatro si sono potute ammirare ed apprezzare anche le sue innegabili doti di attrice, perfetta nella parodistica interpretazione della donna pia che nasconde un’eccezionale carica sensuale.  

Monica Bacelli poco meno che perfetta in Ragonde, e non solo per la presenza scenica, ma anche per la voce, che evidentemente non conosce età…

La travestita (come Isolier) Maria Kataeva ha ricevuto meritati consensi del pubblico, che l’hanno ripagata di una prestazione davvero all’altezza, un perfetto connubio di vocalità e presenza scenica. Anna-Doris Capitelli ha dato il suo piccolo ma importante contributo al successo dello spettacolo.  

Resta da dire dei due bassi della compagnia. Entrambi da elogiare, il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, convincente in particolare nella sua esternazione del second’atto; e Nahuel Di Pierro, un Gouverneur che ieri mi è parso più a punto rispetto alla prima udita in radio.
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Concludo ribadendo il giudizio complessivamente positivo sulla serata, 10 e lode a De Ana e voti comunque alti a tutti gli altri protagonisti.

18 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Ricciardo e Zoraide



Ieri l’Adriatic Arena gremita del tradizionale pubblico cosmopolita ha ospitato la terza rappresentazione del titolo principale di questa edizione del ROF: Ricciardo&Zoraide. La performance musicale ha confermato (con punte più o meno marcate) quanto alto sia il valore di questa partitura ancor oggi immeritatamente trascurata.

Da elogiare la prestazione di orchestra (la OSN-RAI che Giacomo Sagripanti ha condotto con grande autorevolezza, gesto misurato ma sempre preciso ed efficace, e grande attenzione ai dettagli nell gestione delle dinamiche e delle agogiche) e di coro (il Ventidio Basso di Giovanni Farina, compatto e brillante negi momenti di maggior enfasi, in cui si esibisce in primo piano, come in quelli di religioso raccoglimento, cantando di lontano, dietro la scena).

Juan Diego Flórez era ovviamente - dati i suoi precedenti al ROF, che gli ha dato fama imperitura - il più atteso e devo dire che non ha deluso i suoi ammiratori con una prestazione davvero all’altezza della sua fama. Potrei sbagliare, ma rispetto alla prima (ascoltata per radio) mi è parso ancora più sicuro ed efficace nello sciorinare tutto il suo repertorio di virtuosismi, spiccando impeccabili acuti e sovracuti, ma anche sapendo cesellare da par suo i risvolti più introspettivi del personaggio di Ricciardo.

Pretty Yende ha (a mio modesto parere) confermato pregi e difetti già emersi alla prima: buona impostazione generale, ma alternanza di alti e bassi, sopratutto negli acuti e nelle colorature: i primi spesso ghermiti con una certa approssimazione, le seconde che non paiono essere proprio la sua miglior dote. In ogni caso, una prestazione che merita ampia sufficienza (il pubblico è andato direttamente all’ottimo!)

Sergey Romanovsky, ritornato a Pesaro a un anno dall’esordio, ha cercato di dare nerbo al personaggio di Agorante, riuscendovi a metà: l’approccio interpretativo è più che corretto, ma la voce (e qui conta madre-natura) non è propriamente quella di un baritenore quale il ruolo pretenderebbe, il che costringe il tenore russo a innaturali forzature. In ogni caso anche per lui successo caloroso.

Xavier Anduaga (ospite in anni recenti dell’Accademia rossiniana ed esordiente al ROF un anno fa) ha mostrato interessanti doti naturali di tenore contraltino che ne fanno interprete approprito del personaggio del crociato Ernesto, il che gli ha garantito un’accoglienza fin troppo... trionfale.

La (comprensibilmente) gelosa Zomira ha trovato in Victoria Yarovaya un’interprete all’altezza, per impostazione, portamento e qualità della voce. Rispetto alle prestazioni non memorabili degli anni scorsi il contralto russo mi pare decisamente cresciuto. Peccato però che alla sua voce manchi qualche decibel per passare dal discreto al buono, ecco.

Il veterano del ROF (vi esordì nell’ormai lontano ’97) Nicola Ulivieri ha messo tutta la sua esperienza nel creare in maniera eccellente il personaggio di Ircano, che irrompe sulla scena solo a metà del second’atto ma poi vi ha una presenza tutt’altro che marginale. La sua voce potente e ben impostata ha svettato anche nei concertati che chiudono l’opera.

I tre accademici (Sofia MchedlishviliMartiniana Antonie e Ruzil Gatin) hanno più che onorevolmente completato il cast.

Come detto, gran successo per tutti, con tambureggiamenti del tavolato e ripetute ovazioni. Personalmente non sono facile agli entusiasmi, ma mi fa piacere constatare quelli che animano il pubblico come accaduto ieri.
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Sull’allestimento si potrebbe tranquillamente sorvolare, data la sua totale inconsistenza rispetto al soggetto; il quale è già inconsistente di suo, figuriamoci! Dovendo rappresentare l’opera in forma scenica (molto più senso avrebbe darla in forma concertante, o semi-scenica) tutto diventa possibile, soprattutto se il regista non si chiama... Ronconi (!)

Ecco che allora (scene di Gerard Gauci) l’esterno della reggia di Agorante assume l’aspetto di una gigantesca tenda Tuareg (ma anche quello del tendone di un gran circo barnum...) mentre al suo interno si erge miracolosamente una struttura a due piani di architettura mista occidentale (volte a semicerchio) e pseudo-orientale (volte ad ogiva tendente al... triangolo). Il fiume Nubio che costeggia Duncala è esondato al punto da trasformarsi nel... lago Nasser (la reggia sarà stata spostata in alto pietra-a-pietra come si fece con i templi di Abu-Simbel, immagino).

I costumi dei protagonisti sono ispirati (da Michael Gianfrancesco) a geniale sincretismo, chè si va dal corpetto-su-petto-nudo di Agorante all’abbiglimento zigano di Ricciardo (quando da paladino... paludato si traveste da baluba) alla purpurea veste cardinalizia di Ernesto (certo siamo alle crociate ordinate dal Papa, ohibò) alle gonne rococò delle signore, che però hanno le parrucche sostituite da prosaiche cucuzze...) Ircano ha proprio l’aspetto di un cavaliere medievale (ma qui anche il libretto non scherza...)

I personaggi si muovono come  nelle recite scolastiche (cioè stanno spesso impalati) oppure sfruttano furbescamente la passerella da avanspettacolo (ormai divenuta una costante degli allestimenti all’Adriatic Arena) anche per avvicinarsi al pubblico scavalcando la rumorosa orchestra così da farsi meglio udire. I cori si dispongono al lati della scena, oppure si allineano rigorosamente in mezzo al palco.

Essendo i registi (Marshall Pynkoski e consorte Jeannette Lajeunesse Zingg) di professione coreografi, ecco che infarciscono le scene di danzatori e balletti, trasformando l’opera in grand-opéra. Si salva da tutto questo pot-pourri Michelle Ramsay, che mostra di saper bene come maneggiare le luci.

Insomma, una... farsa, ecco, sul cui carattere dissacrante si può disquisire, nel senso di stabilire se sia proditorio o involontario. 

01 marzo, 2018

L’Orfeo parigino importato da Londra a Milano



Ieri sera alla Scala (con parecchi vuoti) seconda delle sette recite del parigino Orphée, approdato finalmente da noi a quasi due secoli e mezzo dal suo esordio (segno comunque che buon sangue non mente...)

La prima di sabato era stata unanimemente (pubblico e critica, almeno a giudicare da ciò che si legge su carta e pixel) accolta con grande calore, per non dire con entusiasmo. E ieri la cosa si è puntualmente ripetuta, a testimonianza evidente della bontà del prodotto di Gluck e del suo allestimento londinese, importato qui e riproposto impiegando forze locali (parlo ovviamente di orchestra, cori, direttore e strutture).

Opera indubbiamente problematica da mettere in scena oggi, date le sue peculiari caratteristiche: non ha l’austera concisione e l’apollinea bellezza dell’Orfeo viennese, e in compenso ciò che vi fu aggiunto per Parigi non è (in larga misura) materia che si sposi perfettamente con i nostri gusti, di pubblico del terzo millennio.

La soluzione scelta dalla coppia coreografo-regista (Hofesh Shechter - John Fulljames, non a caso è il coreografo ad avere fra i due la precedenza) ha il merito di tenere sempre viva l’attenzione dello spettatore, anche attraverso movimenti scenici piuttosto inconsueti: alludo a quelli dell’intera orchestra, sistemata nella zona centrale del palcoscenico in modo da creare spazi sia verso il proscenio che verso il fondo-scena, e soprattutto traslabile in verticale, per aprire o chiudere spazi in cui far muovere non solo i tre protagonisti, ma soprattutto i mimi/danzatori e il coro, che operano a volte disgiunti e a volte fra loro mescolati (sempre distinguibili peraltro dal diverso abbigliamento). La buca dell’orchestra rimane vuota, trovandovi spazio soltando i grandi schermi sui quali i cantanti possono televisivamente vedere il Direttore (al quale danno materialmente le spalle) più qualche faro che illumina la scena dal basso.

Insomma, un allestimento che scongiura il pericolo di cadute di tensione, legato precisamente ai contenuti dell’opera, in particolare ai lunghi minuti occupati da intermezzi di danza, dove l’alta qualità della musica gluckiana potrebbe non bastare da sola a sopperire alla staticità dell’azione scenica.

E ovviamente una condizione necessaria (non sempre sufficiente) per la riuscita dello spettacolo è costituita dal livello della prestazione di tutti gli addetti-ai-suoni. Qui devo dire che tutti meritano encomi, a partire dal Concertatore: Mariotti ha superato di slancio anche il test con questo particolarissimo repertorio (non è barocco, ma non è certo... Rossini) con una direzione raffinata e attenta ad ogni preziosità della partitura. Solo un paio di esempi: l’introduzione alla seconda scena dall’atto secondo, con il celestiale (siamo nei Campi elisi) assolo del flauto di Marco Zoni (poi affiancato da quello di Max Crepaldi, vecchia conoscenza de laVerdi) e l’accompagnamenmto dell’oboe di Armel Descotte al mirabile recitativo di Orfeo, nella scena successiva. (Non a caso alla fine il Direttore ha fatto alzare i tre strumentisti per ricevere un applauso singolo.)

Benissimo anche il Coro di Casoni, chimato ad un compito non proprio facile, perchè assai lontano dal repertorio, diciamo così, di tradizione.

Juan Diego Florez ha suscitato ovazioni entusiastiche: il suo Orphée ha pienamente convinto: certo lui non è (nessuno oggi lo è) un haute-contre come  presumibilmente era il famoso Joseph Legros, per il quale la parte fu scritta in origine (un tenore capace di raggiungere iperbolici sovracuti ma con uso del falsetto, del canto di testa); cionondimeno il divo peruviano, che ovviamente canta sulla voce, ha prestato al personaggio il suo timbro chiaro, limpido e allo stesso tempo sensuale.

Le due voci sopranili (Euridice di Christiane Karg e Amore di Fatma Said) non toccano le vette di JDF, ma meritano entrambe un encomio, da estendere a chi le ha scelte per i due ruoli, ai quali le due voci si attagliano perfettamente: più corposa quella della Karg, le cui qualità emergono nel lungo e straziante recitativo di apertura dell’atto terzo; e più leggera e acuta quella della Said che impersona, en-travesti, il giovinetto e ammiccante Cupido.

In definitiva, una proposta di eccellente livello, che il pubblico ha mostrato di apprezzare assai, a giudicare dal calore dell’accoglienza riservata a tutti.