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19 settembre, 2019

MITO-2019 - Chiusura milanese di Axelrod al Dal Verme


Ultima tappa del mio MITO-parcour milanese (con omaggio di T-shirt gentilmente offerto da uno sponsor) con John Axelrod che in un DalVerme gremito ha diretto la OSN-RAI in un programma classico-moderno, dove un lavoro di un maturo cinese contemporaneo (in prima italiana) si è inserito fra due opere del primo novecento.

Si è quindi aperto con Debussy e la sua Isle joyeuse, composta originariamente nel 1904 per pianoforte e successivamente (1917) orchestrata (col beneplacito dell’Autore) da Bernardino Molinari. Rispetto alla versione per la sola tastiera, quella orchestrata da Molinari presenta per ovvie ragioni sonorità più ricche e complesse (e un finale tardo-romantico); in compenso appare meno asciutta e impressionista. Tuttavia ad un ascolto superficiale si potrebbe tranquillamente credere trattarsi della scrittura orchestrale dello stesso Debussy.

Sono poco più di sei minuti che scorrono piacevolmente, come del resto suggeriscono il titolo dell’opera e l’ispirazione che Debussy ebbe dal quadro di Watteau, oltre a risvolti vagamente autobiografici (l’estate passata al mare con l’amante che diventerà la sua seconda moglie). Servono bene a scaldare i motori dell’Orchestra e... le mani del pubblico.
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Il 68enne cinese Qigang Chen (di lui si ascoltò in Auditorium anni fa un pezzo per violoncello e orchestra) è l’autore di Joye eternelle, un concerto per tromba e orchestra, ispirato ad un’antica melodia cinese, esposta all’avvio dal clarinetto:

Concerto composto per la famosa trombettista Alison Balsom e dedicato al maestro YU Long: dopo la prima in Cina, nel 2014, il lavoro venne eseguito a Londra (PROMS) nel luglio dello stesso anno, con gli stessi interpreti (Balsom e YU).

Qui ad interpretarlo per l’esordio italiano è stata un’altra rappresentante del gentil sesso, la 32enne norvegese Tine Thing Helseth, che - presentatasi a piedi nudi! - ha messo in mostra le sue eccezionali doti tecniche superando brillantemente le difficoltà di cui è popolato questo brano, rilevabili dall’esempio qui sotto:



Il finale è davvero pirotecnico e la simpatica Tine si merita ovazioni ripetute, che ricambia con un bis assai più... tranquillo.
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Chiusura con Mahler e la sua Quarta sinfonia. L’Orchestra la conosce evidentemente come le sue tasche e Axelrod, che con i nazionali-RAI ha un’antica consuetudine, va proprio sul velluto. Lui ci mette ovviamente del suo e devo dire con grande profitto, quanto a tempi e dinamiche sciorinati nei diversi scenari che la sinfonia propone.

Francamente mi sarei aspettato di più dalla Rachel Harnisch, che ha esposto con discreto portamento il Lied conclusivo, ma la voce è scarsina di decibel, specialmente nelle note gravi, davvero poco udibili. Ma il pubblico ha mostrato di apprezzare, richiamando ripetutamente al proscenio lei e il Direttore.

Per quanto posso giudicare dalla mia (scarsa) frequentazione di questo MITO, mi pare che abbia dato parecchie soddisfazioni al suo Direttore artistico, il valente Nicola Campogrande. Arrivederci (e risentirci) quindi al 2020!

15 settembre, 2019

MITO-2019 - Marin rimpiazza Temirkanov al Conservatorio


Altra stazione del MITO, in un Conservatorio stracolmo, dove purtroppo il venerabile Yuri Temirkanov, annunciato sul programma originario, ha dovuto dare forfait (ancora una volta... managgia, ma mica si può criminalizzare un 81enne dalla salute malferma se si vede costretto a disdire appuntamenti; o lo giudichiamo alla stregua di una qualunque starlette capricciosa che si prende gioco di tutto e di tutti?) sostituito dal solido, ma non ancora venerabile, austro-rumeno Ion Marin a dirigere i Filarmonici di SanPietroburgo.

Programma testa-coda: una prima italiana e una... millesima mahleriana.

L’apertura è stata però una... cerimonia: presenti la Presidente e il Direttore artistico del MITO, nonchè l’immancabile maieuta Gaia Varon, l’Assessore DelCorno ha infatti premiato il compositore James MacMillan con il prestigioso Sigillo della città, in omaggio al suo consolidato sodalizio con Milano. E proprio del compositore scozzese abbiamo ascoltato la prima italiana del Larghetto for Orchestra, trascrizione strumentale di un brano per coro a cappella del 2009 (originariamente dedicato al complesso londinese The Sixteen) intitolato Miserere (tratto dal Salmo 51). La strumentazione è del 2017 e fu dedicata al 10° anniversario di Manfred Honeck come guida della Pittsburgh Symphony, dei quali si può apprezzare proprio la prima esecuzione (suggerisco di scaricare l’mp3 per poi ascoltarlo su iTunes o altro player).

Mentre il Miserere può essere scambiato - ad un ascolto naïf - per gregoriano o fiammingo, il Larghetto, introducendo modiche dosi di armonia, si presenta quasi come un lavoro di primo-novecento, sospeso fra diatonismo e atonalità. Lo schema che segue consente di allineare i versi del Miserere al Larghetto: i tempi indicati si riferiscono alla citata esecuzione di Honeck a Pittsburgh.

Larghetto
Miserere
21”
.
1’11”
.
2’02”
.
2’40”
.
3’40”
.
4’22”
.
5’08”
.
5’50”
.
6’28”
.
7’04”
.
7’34”
.
8’01”
.
8’32”
.
9’42”
.
10’06”
.
10’41”
.
11’18”
.
11’57”
.
12’39”
.
13’31”
.
Miserere mei, Deus,
secundum magnam misericordiam tuam.
Et secundum multitudinem miserationum tuarum,
dele iniquitatem meam.
Amplius lava me ab iniquitate mea:
et a peccato meo munda me.
Quoniam iniquitatem meam ego cognosco:
et peccatum meum contra me est semper.
Tibi soli peccavi, et malum coram te feci:
ut justificeris in sermonibus tuis, et vincas cum judicaris.
Ecce enim in inquitatibus conceptus sum:
et in peccatis concepit me mater mea.
Ecce enim veritatem dilexisti:
incerta et occulta sapientiae tuae manifestasti mihi.
Asperges me hyssopo, et mundabor:
lavabis me, et super nivem dealbabor.
Auditui meo dabis gaudium et laetitiam:
et exsultabunt ossa humiliata.
Averte faciem tuam a peccatis meis:
et omnes iniquitates meas dele.
Cor mundum crea in me, Deus:
et spiritum rectum innova in visceribus meis.
Ne projicias me a facie tua:
et Spiritum sanctum tuum ne auferas a me.
Redde mihi laetitiam salutaris tui:
et spiritu principali confirma me.
Docebo iniquos vias tuas:
et impii ad te convertentur.
Libera me de sanguinibus, Deus, Deus salutis meae:
et exsultabit lingua mea justitiam tuam.
Domine, labia mea aperies:
et os meum annuntiabit laudem tuam.
Quoniam si voluisses sacrificium, dedissem utique:
holocaustis non delectaberis.
Sacrificium Deo spiritus contribulatus:
cor contritum, et humiliatum, Deus, non despicies.
Benigne fac, Domine, in bona voluntate tua Sion:
ut aedificentur muri Jerusalem.
Tunc acceptabis sacrificium justitiae, oblationes, et holocausta:
tunc imponent super altare tuum vitulos.

Brano davvero di grande effetto, che i sanpietroburghesi hanno perfettamente introiettato per poi restituirlo ad un pubblico che ha ascoltato in religioso silenzio, prorompendo alla fine in un calorosissimo applauso: per gli esecutori e per l’Autore, tornato sulla ribalta a ringraziare.
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La super-inflazionata Titan-Sinfonie ha poi chiuso la parte ufficiale della serata. A partire dalla Mahler-renaissance del dopoguerra, chissà quante volte le pareti della vetusta Sala Verdi hanno accolto e riverberato i Naturlaute e i fracassi di quest’opera... ricordo personalmente un’esecuzione degli anni ’70, con l’Orchestra RAI-MI e un ventenne israeliano di belle speranze (quel Daniel Oren che in questi giorni è protagonista del Rigoletto alla Scala) dirigerla danzando sul podio come un orso da circo ed accompagnandola con rantoli e urla strozzate! 

Ieri sera i Filarmonici-della-Neva, pur orfani del loro condottiero, hanno offerto una prova magistrale: grazie ai buoni uffici del compassato ma un po’ gigionesco Marin, naturalmente, ma soprattutto - credo io - alla loro perfetta intesa, che li fa assomigliare ad una macchina (come si cerca di fare oggi nel campo automobilistico) che sa perfettamente districarsi da sola anche in mezzo al traffico più caotico! Insomma: difficile stabilire il nesso causa-effetto fra i suoni prodotti dall’Orchestra e le mossette del Direttore... 

Trionfo assicurato e congedo con un Brahms ungherese

12 settembre, 2019

MITO-2019 - Chung-Romanovsky agli Arcimboldi


Ieri sera il vasto anfiteatro degli Arcimboldi - riempito più di un uovo! - ha ospitato la Filarmonica scaligera per un concerto tutto russo. Sul podio il redivivo orientale-estremo Myung-Whun Chung e alla tastiera l’orientale-semplice (ma svezzato qui da noi, nel bolognese) Alexander Romanovsky.

É curioso ricordare il diverso atteggiamento tenuto (ai suoi tempi) verso i due brani in programma da tale Gustav Mahler. Il quale, nel 1911 a New York, si adoperò allo spasimo per ribadire il successo al nuovissimo Terzo concerto di Rachmaninov con la NY Philharmonic, un paio di mesi dopo la prima eseguita dalla NY Symphony con Damrosch sul podio. Lo stesso Autore (e interprete) rimase stupefatto dal rigore e dal perfezionismo di Mahler, che non esitò a strapazzare gli orchestrali, costringendoli ad un super-lavoro nelle prove per raggiungere l’eccellenza nell’esecuzione.

Ecco invece come lo stesso Mahler, nell’estate di 10 anni avanti, a Vienna, aveva descritto a Guido Adler la Patetica ciajkovskiana:

Si tratta di un lavoro superficiale e senza profondità. Anche il colore dovrebbe darci qualcosa di più di se stesso, altrimenti rimane un mero ornamento e polvere negli occhi! Osservandolo da vicino, non ne resta poi gran cosa. Questi arpeggi, che vanno dal grave all’acuto, queste concatenazioni armoniche insignificanti non possono dissimulare il vuoto e l’assenza di invenzione.

Apperò!
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Dopo il consueto pistolotto (in senso non salviniano!) della maestrina Gaia Varon, che è incorsa in un tipico lapsus da lateral-thinking (attribuendo l’idea di appiccicare alla Sesta il titolo di Patetica a Modest... ehm, Musorgski) il 35enne ukraino si è quindi cimentato con il famigerato Rach3, da lui caricato di tutto il possibile tardo-decadente-romanticismo, che da sempre suscita nel pubblico e nei critici ampie divisioni, fra ammiratori estasiati e detrattori nauseati. Ma il ragazzo (non sembra cambiato molto dal lontano 2001 quando si impose al Premio Busoni) ha una tal carica espressiva, coniugata con una innata modestia (temprata dagli anni duri che lui e famiglia passarono dopo l’emigrazione) da garantirsi un successo clamoroso e ripetute chiamate, alle quali risponde dapprima con un altro Rachmaninov e poi con un Bach... adulterato!      
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Chiusura quindi in grande con la Patetica, dove Chung ha avuto modo di smentire ampiamente il velenoso giudizio di Mahler, mettendo in risalto di questa ormai inflazionata partitura il carattere di sguardo-all’indietro (come sarà, ma guarda un po’ la nemesi, la Nona mahleriana) a ripercorrere una vita artistica accidentata e costellata di grandezze - lo spontaneo applauso arrivato alla fine dell’Allegro molto vivace ne è stato testimone - e di miserie, destinata inesorabilmente a chiudersi nel silenzio, dopo le ultime battute della triade di SI minore esalate dagli archi bassi, sull’indicazione Molto ritenuto (e non... Morendo, come la simpatica Gaia ha inventato, anche qui parlando di Mahler!)   

Pubblico entusiasta e prodigo di battimani e ovazioni per Direttore e Professori.

20 settembre, 2018

MI-TO al capolinea



Il MI-TO 2018 ha chiuso ieri a Milano con un concerto al Dal Verme, che replicava quello torinese della sera precedente, all’Auditorium Toscanini. Sala non proprio ricolma; sul podio il sempre più convincente Stanislav Kochanovsky, alla guida della OSN-RAI.


Con lui il grande Enrico Dindo che - dopo la sempre interessante e colta introduzione di Gaia Varon - si è esibito in quel particolarissimo Concerto per violoncello (, fisarmonica, percussioni) e orchestra che va sotto il nome di Azul, composto nel 2006 da Osvaldo Noé Golijov, ebreo argentino di origini rumeno-ukraine (58 anni il prossimo 5 dicembre) trapiantato a Boston.
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Opera fascinosa e accattivante, ispirata da esperienze vissute dal compositore (letture di Neruda, lo spettacolo del pianeta visto dalla stazione orbitante, l’Intifada del 2000) ma che si fa apprezzare come musica pura, un festival di suoni che appagano l’orecchio e toccano il cuore.

La struttura è in quattro movimenti - di quasi pari durata, 6-8 minuti ciascuno - che si legano senza soluzione di continuità, e i cui sottotitoli richiamano vagamente le fonti di ispirazione del lavoro. Sorprendente la semplicità dei piani armonici: con poche eccezioni, tutto il concerto si muove nelle zone tonali fra il DO e il SOL! Senza per questo indurre mai sensazioni di monotonia.     

Originariamente dedicato a Yo-Yo Ma, che lo suonò alla prima assoluta del 2006 a Tanglewood e che ne ha interpretato anche la versione riveduta, incidendola nel 2016,  il concerto è stato poi eseguito da diversi interpreti in diverse parti del mondo. Qui una performance a Buenos Aires nel 2017, introdotta da interventi dell’Autore, della Direttora d’orchestra e dei due solisti:

I. Paz Sulfúrica (21’36”) ispirato dal Macchu Picchu di Pablo Neruda, precisamente da un passaggio dell’ultima quartina della prima delle 12 parti del poema:

Puse la frente entre las olas profundas,
descendí como gota entre la
paz sulfúrica,
y, como un ciego, regresé al jazmín
de la gastada primavera humana.

Il violoncello suona ininterrottamente, alternando melodie sognanti a motivi via via più mossi, culminanti in un crescendo quasi affannoso dell’intera orchestra, chiuso dall’intervento delle percussioni.

II. Silencio (29’30”) L’Autore ha definito la sua opera come un viaggio interstellare, in assenza di gravità: ecco, la musica di questo movimento sembra proprio evocare i suoni dello spazio vuoto, prima di trasformarsi in una pesante marcia di tutti gli strumenti, che porta senza soluzione di continuità al...

III. Transit (35’50”) che si configura come una vera e propria, lunghissima cadenza del violoncello (su un ostinato della fisarmonica) assai articolata, dove atmosfere dell’Europa orientale e klezmer tengono banco, ma ammiccando anche a Bach... Anche qui si raggiunge un climax, grazie al concertino di percussioni (con annessi urletti!) dal quale si diparte una cupa, poi sempre più eterea transizione verso...

IV. Yrushalem (43’35”) introdotta da un assolo del corno, che riprende ciclicamente il motivo udito all’inizio dell’opera, imitato dal violoncello. L’atmosfera si fa poi sempre più rovente (ricordi di Palestina?) e infine ecco due cadenze che il compositore indica esplicitamente con i termini di Pulsar e Stelle cadenti, prima del ritorno al sienzio degli spazi siderali (in questa occasione il pubblico bairense ha però rovinato la conclusione con applausi decisamente anticipati).
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Davvero trascinante l’esecuzione di ieri, che ha catturato l’attenzione del pubblico senza mai lasciare un attimo di respiro, il che ha guadagnato agli interpreti un autentico trionfo, che ha replicato quello torinese della sera precedente.
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Kochanovsky ha poi guidato la OSN-RAI nella Quarta di Brahms. Approccio assai sostenuto, anche se mai pesante, nel primo tempo, con qualche tocco personale (piccole pause di respiro prima delle grandi arcate in legato). Poi massima trasparenza nell’Andante e quindi briglie sciolte per i due Allegri. Senza sbavature la prestazione dell’Orchestra, come sempre compatta in ogni sezione.

Come a Torino, commiato a dir poco travolgente con la quinta ungherese.  

21 settembre, 2017

MITO – Chiusura a Milano con Chailly


Riccardo Chailly e la Filarmonica scaligera hanno chiuso ier sera all’Arcimboldi la sessione milanese del MITO (questa sera si ripeteranno per chiudere la manifestazione, sotto la Mole) con un concerto di musiche novecentesche, seguendo un percorso a ritroso che partendo dal ’67 ci ha fatto risalire al ’45 e da qui al ’16 (poi al ’24). Percorso che l’onnipresente Gaia Varon ha presentato in senso contrario, sottolineando le grandi diversità formali e sostanziali fra le opere dei tre autori in programma. L’anfiteatro della Bicocca presentava parecchi vuoti... ma è talmente enorme che riempirlo è impresa davvero ardua.  

Ha aperto la serata Lontano di György Ligeti, che qui si può ascoltare diretto da uno dei più strenui ammiratori del musicista ungherese nato in Transilvania, Claudio Abbado con i Wiener nel 1988.
Musica che sembra provenire dallo spazio siderale (è in effetti parente di quella che Kubrick impiegò nel celebre 2001, a Space Odissey) a partire dalla quinta vuota (LAb-REb) dei due violoncelli soli sulla quale flauti, clarinetti e fagotti in sequenza (seguiti poi da corni, viole, oboe, tromba, violini...) tutti in pppp e/o con sordina, fanno nascere la prima delle tre ondate sonore che – separate da due intermezzi – richiamano visioni ancestrali, oniriche, come di galassie che si vanno formando per continua espansione ed arricchimento (grazie alla cosiddetta micropolifonia che ne costituisce il tessuto sonoro) salvo poi magari finire risucchiate da qualche buco nero... ultimo dei quali evocato dal diminuendo-morendo-niente dei due clarinetti e clarinetto basso.   

Musica unica e irripetibile, uscita dalla mente di un essere umano la cui esistenza aveva attraversato i tempi più bui del ‘900, passando dai campi di lavoro del ’44 (e da quelli di concentramento – Mauthausen e Auschwitz - che ospitarono fratello e genitori) all’Ungheria del ’56. Forse oggi non ci fa più quell’effetto di sconvolgente novità, ma resta un’esperienza di ascolto davvero emozionante, che i Filarmonici e il loro Direttore hanno saputo rinnovare con grande efficacia.
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Julian Rachlin ci ha poi proposto quello che è in pratica il canto del cigno di Béla Bartók, il Concerto per viola, composto nel 1945 - su commissione del famoso William Primrose - a poche settimane dalla morte e rimasto purtroppo allo stato di abbozzo (la linea del solista e scarne-scarse indicazioni di strumentazione) poi completato dal fido allievo Tibor Serly. Su una pagina del manoscritto si trova anche l’indicazione dei tempi di esecuzione del Concerto: 20’15” (10’20” + 5’10”+ 4’45”):


Qui un’ormai storica interpretazione del grande Yehudi Menhuin. Pezzo di grande modernità, a dispetto della struttura assolutamente classica dei tre movimenti, la cui verve non è per nulla offuscata dalla miseria delle condizioni materiali in cui versava l’Autore quando vergava queste note sui righi. Rachlin l’ha interpretata da par suo, ben spalleggiato dall’orchestra, che evidentemente Serly (dovendola... inventare) ha tenuto su un profilo di... non ingerenza sulle linee bartokiane della viola. Applausi e ripetute chiamate per il 43enne lituano, che si sottrae a un bis uscendo per l’ultima volta... a mani vuote!
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Dopo la pausa, i due più eseguiti poemi della trilogia romana di Ottorino Respighi: Fontane e Pini di Roma. Debussy-iano il primo, Strauss-iano il secondo, si potrebbe arguire con massima semplificazione, due output certamente influenzati dall’atmosfera del post-tardo-romanticismo ed estranei alle novità (digeribili – Stravinski – o meno – Schönberg&C) di quel primo quarto del secolo scorso.

L’Orchestra li suona assai di frequente e non si smentisce, guidata con polso sicuro e gesto energico da Chailly. Così c’è modo anche per un encore, altro cavallo di battaglia degli scaligeri (qui mentre lo provano in quella che per anni fu la casa del Direttore!)

20 settembre, 2017

laVerdi va in Spagna col MITO


L’Orchestra milanese ha fornito il suo contributo al MITO con un concerto (dato a Torino il 18 e replicato ieri in Auditorium) intitolato Paesaggi spagnoli, introdotto da Gaia Varon. Sul podio un giovane direttore, ovviamente iberico in omaggio al programma, il 34enne Andrés Salado da Madrid. 

Il primo brano in programma è una primizia per l’Italia, il Concerto per violino e orchestra, titolato Al-Andalus, del 32enne compositore americano Mohammed Fairouz (il nome ne tradisce chiaramente l’origine araba). L’Andalusia è quindi il soggetto ispiratore del concerto, composto nel 2013 per la violinista americana Rachel Barton Pine e l’Orchestra dell’Alabama e qui interpretato dalla 30enne cicciottella albionica Chloë Hanslip.

Che dire: che nel terzo millennio si può ancora comporre musica tonale come ai tempi di DeFalla e Ravel (che seguiranno nel programma) senza per questo apparire retrogradi e scopiazzatori... Un brano che nella forma, ma anche nei contenuti, è assai lontano da quella del concerto classico, in realtà si tratta di tre fantasie, scritte si direbbe con tecnica durchkomponiert, dove è difficile, almeno a primo ascolto, riconoscere temi ricorrenti o chiare strutture formali. I tre movimenti si ispirano programmaticamente ad altrettanti personaggi dell’epoca d’oro della civiltà islamica (800-1200) prosperata nella Spagna moresca e – ahinoi – inariditasi dopo la riconquista cattolica e mai più capace di un Rinascimento quale quello maturato da noi grazie alla progressiva conquista del principio di laicità delle istituzioni, tuttora pervicacemente negato dal mondo islamico. Che peraltro noi tendiamo a criminalizzare in-toto come ben sa lo stesso Fairouz, oggetto di tutti i sospetti che oggigiorno nascono su chi ha la sola colpa di avere nomi di origine araba.

Il primo movimento (Ibn-Firnas’ flight) è un’orgia sonora nella quale il suono del violino solista scompare, subissato da quelli dell’orchestra, salvo sporadicamente isolarsi in slanci... aerei con salite a note acutissime in armonici; deve durare 11 minuti, quanto il primo volo di Abbas Ibn Firnas, precursore nientemeno che dei fratelli Wright! Per contrappasso, il secondo movimento (The Ring of Doves, tratto da un trattato sull’amore di Ibn Hazm) è per lunghi tratti una melopea per violino solo, cui si accompagnano qua e là il violino di spalla, il clarinetto, il violoncello e la tromba, che ricorda scopertamente ambientazioni orientaleggianti. Il conclusivo movimento (Dancing Boy, poesia di Ibn Kharouf) mescola stilemi prettamente arabi ad altri andalusi e gitani, esposti dal violino (in quattro sezioni, corrispondenti alle stanze della poesia) che trascina l’intera orchestra verso un’esilarante conclusione.

Beh, una cosa godibile, che anche il pubblico – ieri foltissimo, direi sopra la media delle presenze alla stagione principale, segno che MITO attira... – ha mostrato di apprezzare assai.
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Lilya Zilberstein, un’affezionata visitatrice dell’Auditorium, è poi arrivata per porgerci il celebre Noches en los jardines de España di Manuel  deFalla, già ascoltata qui meno di un anno fa (con altri interpreti). La pianista russa ma ormai cosmopolita ha sciorinato la sua solidissima tecnica e la grande sensibilità nel percorrere l’immaginario cammino notturno da Granada a Córdoba, dove la Spagna di deFalla, composta a Parigi, mutua atmosfere... francesi. Anche qui grande successo e ripetute chiamate.
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Ha chiuso in bellezza il BolerodiRavel, che laVerdi ormai suona a memoria (anche perchè le note da ricordare sono davvero poche, solo che vanno ripetute qualche dozzina di volte...) Ivan Fossati, primo percussionista dell’Orchestra, ha ancora una volta preso posto sul suo trespolo proprio davanti al Direttore e ha segnato per tutto il tempo il ritmo ai colleghi; sono (non una di meno) ben 169 ripetizioni di queste due battute:


Insomma, roba da uscirne praticamente pazzi! Ma il bravo Ivan non manca un colpo e si merita alla fine ben due chiamate al proscenio! Trionfo per tutti e... viva MITO!

15 settembre, 2017

MITO – Rimpatriata di migranti russi in USA


In ambito MITO, ieri sera il Conservatorio di Milano (in una Sala Verdi piena come un uovo) ha ospitato l'OSN-RAI in un concerto tutto russi-in-america (!) Già, perchè i due autori dei pezzi in programma rispondono ai nomi di Rachmaninov e Stravinski, che nei primi decenni del ‘900 pensarono bene di stare alla larga da Russia e, poi, URSS per guadagnarsi fama in Europa e poi dollaroni in USA. Ma anche i due interpreti, Kirill Gerstein e Semyon Bychkov, pur non minacciati da subdoli nipotini di Stalin, sono ormai di casa in America e la Russia la visitano solo se hanno dei buoni ingaggi.

Dopo la chiaccherata introduttiva di Gaia Varon abbiamo ascoltato il più celebre dei 4 concerti di Rachmaninov, il Secondo (quello composto dopo la guarigione dalla semi-pazzia che aveva colto il giovane Sergei per colpa di... Glazunov) che Gerstein ha suonato mille volte e anche un anno fa con i Berliner (anche lì con Bychkov). Musica tanto tardo-romantica che il severo Hanslick (non credo abbia avuto occcasione di ascoltare il concerto) avrebbe tacciato di olezzare di vodka, giudizio a suo tempo affibbiato al concerto per violino di Ciajkovski. E questo Rachmaninov, da certi punti di vista, è anche peggio del modello...

Gerstein e Bychkov non ci fanno mancare nemmeno un grammo della melassa, l’Adagio sostenuto è proprio strappalacrime, il finale (da incorniciare qui l’attacco delle viole – messe al proscenio - del secondo tema) trascina il pubblico all’entusiasmo. Così il robusto Kirill ci propina il Rachmaninov giovanissimo dell’op.3, versione originale, conclusa da un impertinente fff, al posto del ppp indicato sullo spartito. Per lui davvero un trionfo.
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Ha chiuso la serata lo stravinskiano Sacre du Printemps, autentico banco di prova per ogni orchestra e ogni direttore. E qui orchestra e direttore hanno dato il meglio, sciorinando in modo invero superlativo questa mirabile barbarie musicale, che dopo più di un secolo ancora fa rizzare i capelli in testa anche a chi – come me – li ha persi da tempo. Alla fine tifo da stadio per tutti e ripetute chiamate al grassottello Semyon, per l’occasione bardato con uniforme regolamentare (cosa rara a vedersi da lui).   

Per i giandoja, si replica domani sera a casa dell’OSN-RAI.

08 settembre, 2017

MITO – Bostridge fa il mugnaio


Fra le mille offerte del MITO (a proposito, eccone il logo twitterino scomposto nei 5 simboli della notazione musicale)


ieri sera ho scelto (non solo perchè a ingresso gratuito...) l’esibizione di Ian Bostridge al Teatro della Cooperativa, una meritoria struttura (con sala da quasi 200 posti) situata in zona Bicocca-Niguarda. Accompagnato dal pianista Julius Drake, il tenore britannico si è esibito nel grande ciclo schubertiano Die schöne Müllerin.

I testi vengono da una delle 5 raccolte di Wilhelm Müller raggruppate sotto il titolo Sieben und Siebzig Gedichte aus den hinterlassenen Papieren eines reisenden Waldhornisten (Settantasette poemi da carte postume di un suonatore di corno itinerante) pubblicate nel 1821. La prima di queste, che è anche la più estesa, consistendo di 25 poemi - le altre ne comprendono rispettivamente 10, 15, 13 e 14 - fu (parzialmente, 20 poemi) musicata da Schubert fra il 1822 e il 1824.

I testi del ciclo sono consultabili in rete, ad esempio su questo sito specializzato in Lieder (tradotti da Amelia Maria Imbarrato).

Lo specchietto sottostante mostra la struttura dei poemi originali e quella del ciclo schubertiano:


La colonna più a destra indica una suddivisione in 5 blocchi dell’opera di Schubert, corrispondente ai 5 quaderni in cui essa venne pubblicata per la prima volta a Vienna per i tipi di Suer&Leidesdorf. I titoli riportati sono del tutto arbitrari, frutto di ipotesi di lavoro di alcuni musicologi – Schubert inizialmente prevedeva una pubblicazione in sole 4 rate - tuttavia hanno una loro accattivante plausibilità, rappresentando le vicissitudini vissute dal protagonista, un mugnaio che se ne va per il mondo, arriva al mulino dove incontra la bella e giovane mugnaia di cui si innamora, prima che un cacciatore più attraente/intraprendente di lui gliela soffi di sotto il naso, gettandolo in uno stato di profondo sconforto che lo porta ad augurarsi la morte. Anche la successione delle tonalità dell’opera segue il percorso esistenziale del protagonista, con i primi tre atti prevalentemente in maggiore (ma con frequenti screziature) il quarto in minore e il quinto in un misto dei due modi, a chiudere in modo tragico ma allo stesso tempo serenamente rassegnato.

Come si vede, la collana originale di Müller – a proposito, qui è tutto un mulinare di mugnai: l’autore si chiama Mugnaio e il protagnista è un mugnaio che si innamora di una mugnaia! - comprende 25 poesie, mentre Schubert ne musicò soltanto 20. Infatti il compositore omise di musicare prologo, epilogo e tre poesie della raccolta. A suo tempo (1961) Dietrich Fischer-Dieskau incise il ciclo includendovi (a mo’ di Singspiel) anche il parlato dei due testi estremi, cosa in sè francamente bizzarra, e più tardi colmò la misura leggendo anche i testi dei tre Lieder omessi da Schubert come corredo ad un’incisione proprio di Bostridge. Del quale troviamo in rete un’esecuzione... nipponica del 2005 (ma lui si era già cimentato con l’opera almeno 10 anni prima).

La musica originale è scritta per voce di tenore – certo la più plausibile rispetto al soggetto letterario - ed è poi stata trasposta (di uno o due o tre o fino a quattro semitoni) anche per voci più basse (di baritono o basso). Bostridge ovviamente ha cantato la versione originale (il primo Lied, ad esempio, in SIb e non in LA come lo canta un baritono). Un’incisione tenorile assai interessante è quella storica (1957) di Fritz Wunderlich. E di recente anche il divo Jonas non si è sottratto alla sfida. Seguiamo proprio lui in questo affascinante cammino.

Quaderno I

N°1 Wanderschaft (SIb maggiore, 2/4, moderatamente rapido). Il protagonista, un garzone di mugnaio, ci presenta la sua irresistibile attrazione per il viaggiare, citando come esempi l’acqua del ruscello, la ruota del mulino e la mola, che incessantemente si muovono senza mai arrestarsi. Così chiede ai padroni il permesso di andarsene.

2’43” - N°2 Wohin? (SOL maggiore, 2/4, moderato). Il giovane mugnaio si mette a seguire il corso del ruscello, al quale comincia a parlare come ad un compagno di viaggio dal quale lasciarsi guidare. 

4’56” - N°3 Halt! (DO maggiore, 6/8, non troppo rapido). Il mugnaio arriva nei pressi di un mulino; il paesaggio è idilliaco: mormorio dell’acqua e delle pale, una linda casetta, il sole che splende... è proprio il caso di fermarsi lì. 

6’32” - N°4 Danksagung an den Bach (SOL maggiore, 2/4, piuttosto lento). Il viandante protagonista ha conosciuto la bella molinara e ringrazia il ruscello che lo ha condotto da lei. Ora lui ha un lavoro e un sogno da realizzare. 

Quaderno II

8’56” - N°5 Am Feierabend (LA minore, 6/8, abbastanza rapido). Il ragazzo vorrebbe essere il garzone più forte e laborioso, per ingraziarsi la bella molinara, ma si rende conto di essere come ogni altro lavorante. La sera il padrone loda tutti e la molinara dà la buona notte.

11’37” - N°6 Der Neugierige (SI maggiore, 2/4, adagio). Il giovane ha un cruccio, che vorrebbe risolvere, ma non osa chiedere risposta nè ai fiori, nè alle stelle, così si rivolge all’amico ruscello, che pare stranamente silenzioso. (SI maggiore, 3/4, molto adagio). E gli chiede un o un no: lei mi ama?

15’40” - N°7 Ungeduld (LA maggiore, 3/4, piuttosto rapido). L’innamorato vorrebbe manifestare il suo amore scrivendolo su pietre e fiori, facendolo cantare ad uno storno alla finestra della molinara; vorrebbe che il bosco, l’aria e l’acqua portassero alle orecchie di lei il suo sentimento; che dovrebbe essere evidente dal suo sguardo, dal suo volto e dalla sua bocca silente. E invece lei non se ne accorge!    

18’22” - N°8 Morgengruß (DO maggiore, 3/4, moderato). Lui vuol dare il buongiorno all’amata, che però sembra nascondersi. Allora lui guarda da lontano la sua finestra, sperando che lei si affacci. Poi la implora di schiudere i suoi occhi al giorno, e infine osserva l’allodola che parla di amore, tormento e pena.

22’23” - N°9 Des Müllers Blumen (LA maggiore, 6/8, moderato). Il giovane vede nei fiori presso il ruscello gli occhi dell’amata. Allora li vorrebbe piantare sotto la finestra di lei, perchè a sera le trasmettano il suo amore e le sussurrino il suo non-ti-scordar-di-me. E al mattino le lancino uno sguardo d’amore, bagnato dalla rugiada delle sue lacrime. 

Quaderno III

26’03” - N°10 Thränenregen (LA maggiore, 6/8, abbastanza lento). Il garzone ricorda (o immagina, o sogna?) quando stava con la bella molinara a guardare il ruscello. C’era la luna, ma lui guardava solo la sua bella. Lei si chinava verso l’acqua e anche i fiori e le stelle sembravano imitarla e trascinarlo giù nel profondo. Poi lei disse: arriva la pioggia, io me ne torno a casa.

30’03” - N°11 Mein! (RE maggiore, 4/4 alla breve, moderatamente rapido). E finalmente (ma sarà realtà o sogno?) la bella molinara ha corrisposto all’amore del giovane mugnaio. Che chiede al ruscello, al mulino, ai fiori, di smettere i loro suoni per cantare con lui: è mia! La primavera non ha abbastanza fiori e il sole non abbastanza luce, così lui resta solo con la parola mia!, incompreso dal resto del creato.   

32’25” - N°12 Pause (SIb maggiore, 4/4, abbastanza rapido). Il giovane ha appeso il suo liuto al chiodo: il suo cuore è troppo gonfio di felicità per poter cantare. Lui prima cantava la nostalgia e le sue pene, ora la sua gioia è troppo grande per essere espressa in suoni. Se le corde sono mosse da una brezza o da un’ape, ciò lo fa rabbrividire. Spesso il nastro verde che lo regge ne sfiora le corde che emettono lamenti: che sia questo un presagio? 

Quaderno IV

36’52” - N°13 Mit dem grünen Lautenbande (SIb maggiore, 2/4, moderato). La molinara ha osservato che il nastro verde che regge il liuto si sta scolorendo. Il garzone decide allora di mandarglielo. A lui piace il bianco, ma anche il verde, che è il simbolo del loro giovane amore, oltre che della speranza. La prega di annodare il nastro attorno ai suoi riccioli... e il verde gli piacerà ancor di più!

38’45” - N°14 Der Jäger (DO minore, 6/8, rapido). Un cacciatore è arrivato al mulino, e il nostro mugnaio comincia a preoccuparsi per la sua innamorata. Lo invita a tornare nel bosco, lì è fuori posto come un pesce in giardino o uno scoiattolo in acqua. Se proprio vuol fare un favore alla sua amata, che uccida i cinghiali che le devastano l’orto!

39’52” - N°15 Eifersucht und Stolz (SOL minore, 2/4, rapido). Il mugnaio chiede al ruscello dove corra così rapido: forse rincorre il cacciatore? No, invece dovrebbe rimproverare la sua amata, che ha fatto la civetta con quello, ieri sera, affacciandosi al portone mentre il cacciatore tornava a casa. Ma non le dica della sua tristezza: le dica che lui intaglia un flauto per suonare danze e canzoni ai bambini.

41’33” - N°16 Die liebe Farbe (SI minore, 2/4, piuttosto lento). Il verde è il colore dell’amata, e il mugnaio vorrebbe vestirsi di verde e piangere verdi lacrime, poi cercare cipressi e rosmarini, tutti verdi. Andare a caccia nella macchia, la caccia che piace tanto all’amata, ma lui va a caccia della morte! E chiede una tomba nel verde, senza croci o fiori variopinti... solo verde, che è il colore dell’amata.

46’06” - N°17 Die böse Farbe (SI maggiore, 2/4, abbastanza rapido). Il colore verde ora ossessiona il giovane, che vorrebbe distruggere tutto il verde che lo circonda, lui che è una creatura bianca. Poi vorrebbe sdraiarsi alla porta di lei, cantandole lungamente il suo addio. Sogna di poter occhieggiare alla finestra di lei che si affaccia, non per lui, ma per il suono di un corno da caccia... Le chiede di sciogliersi il nastro verde dalla fronte e di salutarlo con la mano. 

Quaderno V

48’13” - N°18 Trockne Blumen (MI minore.maggiore, 2/4, abbastanza lento). Il povero mugnaio parla ora ai fiorellini che lei gli donava e che finiranno sulla sua tomba. Ma ora appassiscono e nemmeno le lacrime li possono far rivivere, come non fanno rivivere un amore morto. Poi a primavera i fiorellini rispunteranno sulla sua tomba e lei andrà per i campi pensando: lui era fedele. E allora sbocciate tutti, fiorellini, è arrivato maggio e l’inverno se n’è andato!

52’02” - N°19 Der Müller und der Bach (SOL minore-maggiore, 3/8, moderato). Il mugnaio parla ora al ruscello: se un cuore fedele si strugge d’amore, i gigli appassiscono, la luna si nasconde e gli angeli cantano singhiozzando mentre accompagnano l’anima al suo riposo. Il ruscello risponde: quando l’amore supera il dolore, allora una stella sorge in cielo, tre rose bianco/rosse fioriscono per mai più appassire e gli angeli si tagliano le ali per scendere ogni mattina sulla terra. Ancora il mugnaio: caro ruscello, hai proprio ragione; sai cosa fa l’amore? Quaggiù, quaggiù è il fresco riposo. Ruscelletto, continua a cantare!

56’04” - N°20 Des Baches Wiegenlied (MI maggiore, 4/4 alla breve, moderato). Il ruscello invita il viandante a riposare presso di lui, finchè il mare non abbia bevuto tutti i ruscelli. Poi chiama a raccolta tutto ciò che possa cullarlo. Se il corno risuonerà nel bosco, allora il suo suono verrà coperto dallo scrosciare dell’acqua. E i fiorellini non guardino qui, per non portare brutti sogni. E tu, cattiva fanciulla, vattene dal mulino, perchè la tua ombra non lo svegli: gettami il fazzoletto con cui gli coprirò gli occhi. Dormi, dormi, fin che tutti si sveglino, mentre sale la luna piena, la nebbia si dirada e il cielo, lassù... oh com’è immenso!
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Dico subito che Bostridge è stato semplicemente straordinario! Per la purezza del suono della sua voce, cristallina come l’acqua del ruscello; per l’espressività con la quale ha ulteriormente impreziosito le note schubertiane; e infine per la teatralità della sua performance, davvero sconvolgente nelle gestualità del corpo e nelle espressioni del volto.

Credo sia impossibile rendere la meravigliosa arcata drammatica della Müllerin con più efficacia e sollevando tanta emozione! Un encomio doveroso al suo impeccabile accompagnatore Julius Drake, che ha realizzato con il pianoforte una perfetta simbiosi con la voce del tenore.

Al termine la piccola sala della Cooperativa, piena come un uovo, è esplosa in lunghi applausi e ovazioni, strameritati. E allora mi permetto di lanciare un appello ai torinesi (e non...): chi  appena può, questa sera vada di corsa al Tempio Valdese di Torino!