Riccardo
Chailly
e la Filarmonica scaligera hanno
chiuso ier sera all’Arcimboldi la
sessione milanese del MITO (questa sera si ripeteranno per chiudere la
manifestazione, sotto la Mole) con un concerto di musiche
novecentesche,
seguendo un percorso a ritroso che partendo dal ’67 ci ha fatto risalire al ’45
e da qui al ’16 (poi al ’24). Percorso che l’onnipresente Gaia Varon ha
presentato in senso contrario, sottolineando le grandi diversità formali e
sostanziali fra le opere dei tre autori in programma. L’anfiteatro della Bicocca
presentava parecchi vuoti... ma è talmente enorme che riempirlo è impresa davvero
ardua.
Ha aperto la serata Lontano di György Ligeti, che qui si può
ascoltare diretto da uno dei più strenui ammiratori del musicista ungherese
nato in Transilvania, Claudio Abbado con i Wiener nel 1988.
Musica che
sembra provenire dallo spazio siderale (è in effetti parente di quella che Kubrick
impiegò nel celebre 2001, a Space Odissey)
a partire dalla quinta vuota (LAb-REb)
dei due violoncelli soli sulla quale flauti, clarinetti e fagotti in sequenza (seguiti
poi da corni, viole, oboe, tromba, violini...) tutti in pppp e/o con sordina, fanno nascere la prima delle tre ondate
sonore che – separate da due intermezzi – richiamano visioni ancestrali,
oniriche, come di galassie che si vanno formando per continua espansione ed
arricchimento (grazie alla cosiddetta micropolifonia
che ne costituisce il tessuto sonoro) salvo poi magari finire risucchiate da
qualche buco nero... ultimo dei quali
evocato dal diminuendo-morendo-niente
dei due clarinetti e clarinetto basso.
Musica unica e
irripetibile, uscita dalla mente di un essere umano la cui esistenza aveva
attraversato i tempi più bui del ‘900, passando dai campi di lavoro del ’44 (e
da quelli di concentramento – Mauthausen e Auschwitz - che ospitarono fratello
e genitori) all’Ungheria del ’56. Forse oggi non ci fa più quell’effetto di sconvolgente
novità, ma resta un’esperienza di ascolto davvero emozionante, che i
Filarmonici e il loro Direttore hanno saputo rinnovare con grande efficacia.
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Julian
Rachlin
ci ha poi proposto quello che è in pratica il canto del cigno di Béla Bartók,
il Concerto
per viola, composto nel 1945 - su commissione del famoso William Primrose - a poche settimane
dalla morte e rimasto purtroppo allo stato di abbozzo (la linea del solista e
scarne-scarse indicazioni di strumentazione) poi completato dal fido allievo Tibor Serly. Su una pagina del
manoscritto si trova anche l’indicazione dei tempi di esecuzione del Concerto:
20’15” (10’20” + 5’10”+ 4’45”):
Qui un’ormai storica interpretazione del
grande Yehudi Menhuin. Pezzo di grande modernità, a
dispetto della struttura assolutamente classica dei tre movimenti, la cui verve non è per nulla offuscata dalla
miseria delle condizioni materiali in cui versava l’Autore quando vergava queste
note sui righi. Rachlin l’ha interpretata da par suo, ben spalleggiato dall’orchestra,
che evidentemente Serly (dovendola... inventare) ha tenuto su un profilo di...
non ingerenza sulle linee bartokiane della viola. Applausi e ripetute chiamate per
il 43enne lituano, che si sottrae a un bis
uscendo per l’ultima volta... a mani vuote!
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Dopo la pausa, i due più eseguiti poemi
della trilogia romana di Ottorino
Respighi: Fontane e Pini di Roma. Debussy-iano
il primo, Strauss-iano il secondo, si
potrebbe arguire con massima semplificazione, due output certamente influenzati dall’atmosfera del
post-tardo-romanticismo ed estranei alle novità (digeribili – Stravinski – o meno
– Schönberg&C)
di quel primo quarto del secolo scorso.
L’Orchestra li suona assai di frequente
e non si smentisce, guidata con polso sicuro e gesto energico da Chailly. Così
c’è modo anche per un encore, altro
cavallo di battaglia degli scaligeri (qui mentre lo provano in quella che per
anni fu la casa del
Direttore!)
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