XIV

da prevosto a leone
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02 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°12


Zhang Xian torna a guidare laVERDI in un concerto di impaginazione piuttosto insolita: si parte dal romantico Schumann di metà ‘800, poi si sfiora il tardo-romantico Goldmark di fine secolo per chiudere in pieno ‘900 con Malipiero. Credo che chiunque avrebbe precisamente invertito l’ordine dei brani, lasciando per ultimo il cosiddetto piatto forte: così invece si è quasi voluta far toccare con... orecchio l’idea (magari sbagliata, ma diffusa) che la qualità della musica, dopo i fasti ottocenteschi, sia andata progressivamente degradando. Sia detto ciò con tutto il rispetto per Malipiero, sulle cui capacità e sul cui entusiasmo non v‘è da dubitare, ma insomma: al cospetto del grande Robert, ehm. Chissà poi se c’è un nesso causa-effetto fra il programma, diciamo, bizzarro e l’affluenza del pubblico, che non ha riempito per più del 60% le poltrone dell’Auditorium...

C’è anche un labile filo, come dire, stagionale a legare le tre composizioni: le prime due ispirate più o meno precisamente alla primavera e la terza alle quattro stagioni.

Si comincia quindi con la Prima di Schumann, che la Xian, forse per allinearla in durata alle altre due composizioni, comprime al massimo, evitando i ritornelli principali (dei due movimenti esterni, in forma-sonata). In più, mette a fondo scala la manopola del volume e così ne esce una cosa di grande effetto sì, pari però alla grossolanità, il che non rende un buon servigio a Schumann. L’unica nota positiva sono, al solito, i bravissimi ragazzi che non sbagliano un passaggio che è uno. Ma (per me, almeno) non basta.
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Ecco poi Im Frühling di Karl Goldmark, già presentato qui da Bignamini poco più di un anno fa. Con una battuta di bassa lega si potrebbe dire che, volendo proprio proporre un brano primaverile, assai meglio avrebbe figurato, per dire, Frühlingstimmen, che almeno è un gran bel walzer del sommo Johann Strauss. Insomma, qui mi pare che siamo al velleitarismo allo stato puro: una mappazza dolciastra che (almeno a me personalmente) non desta alcun particolare moto dell’animo, ecco.
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Gian Francesco Malipiero era dichiaratamente avverso alle forme classiche, così compose... sinfonie e concerti a profusione! Ma si tratta di veri e propri equivoci programmatici, essendo quasi sempre opere costruite con il metodo del Durchkomponieren, dove in sostanza una nota tira l’altra quasi senza alcun rimando tematico o strutturale, ma giustificata solo dall’ispirazione del momento. Quindi soltanto dei titoli appiccicati dall’esterno ci guidano a cercare riferimenti concreti nella narrativa. Che i quattro movimenti di questa sedicente sinfonia rappresentino le stagioni ce lo dice il sottotitolo dell’opera, altrimenti ciascuno di noi potrebbe pensare a qualunque altro soggetto, o semplicemente... a nulla!

Dopodichè ammettiamo trattarsi di musica che si lascia ascoltare piacevolmente, per carità, solo che alla fine uno si chiede inevitabilmente: ma il concerto finisce così? Insomma, è come se ad un pranzo ti servissero come primo una faraona arrosto e poi, dopo un sorbettino, un’acciuga di falstaffiana memoria, e chiusa lì (!?)

12 marzo, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°10


Riecco Tito Ceccherini (stavolta da titolare) nel decimo concerto della stagione 2016, tutto dedicato all’Italia (emigrati inclusi...) L’impaginazione prevede di incastonare due concerti per violino (Busoni e Malipiero-1, protagonista Domenico Nordio) fra due - i più eseguiti - dei tre poemi sinfonici romani di Respighi. Quanto alle date, si esplorano 35 anni, che separano il Busoni tardo-romantico di fine ‘800 - passando per il Respighi a cavallo della Grande Guerra (1916-1924) - dal Malipiero in pieno fascismo (1932).     

Si parte con Fontane di Roma, in cui subito appare nei secondi violini (ad introdurre il tema debussyano negli oboi) una vaga reminiscenza mahleriana: sono le prime battute di Der Einsame im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si ode il lento sciacquìo, che rimanda al tenue sgocciolare della fontana di Valle Giulia. Seguono due sezioni mosse, con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina (qui fa capolino Sheherazade del grande Rimski, maestro di Respighi) e poi la fantasmagoria di zampilli e cascatelle di Trevi. Si chiude con il tramonto di Villa Medici, languido quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai 29 (!) rintocchi della campana. 

Come sempre impeccabile l’orchestra, dalla quale Ceccherini sa cavar fuori le appropriate sonorità, in particolare dai timbri di legni, arpa e tastiere (celesta, organo, pianoforte) per questo brano di grande raffinatezza impressionista.
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La parte centrale del concerto è dedicata a due opere per violino solista. Ceccherini e Nordio rifanno coppia in Auditorium - lo sono spesso in Svizzera - dopo nemmeno un anno (lo scorso maggio si erano esibiti in Bartók). Nordio prosegue da parte sua l’esplorazione del repertorio italiano, dopo che nel 2012 ci aveva proposto Castelnuovo-Tedesco.

Oggi: Busoni e Malipiero, due compositori che hanno molti aspetti in comune, ma altrettanti, se non di più, che li differenziano radicalmente. Il mai abbastanza compianto Sergio Sablich ci ha lasciato al proposito un acutissimo scritto, che mette in risalto la complessità del rapporto fra i due musicisti.  

Il Concerto di Busoni fu presentato l’8 ottobre 1897 alla Singakademie Berlin, con l’Autore sul podio alla guida dei Berliner Philharmoniker, solista Henri Petri, dedicatario dell’opera. Il concerto, che fu bollato da un critico berlinese come abbastanza scialbo e scarso di contenuti (!) da allora ha invece avuto un discreto successo presso i principali interpreti: qui una storica interpretazione (1936) del grande Adolf Busch con Bruno Walter, al Concertgebouw.

Busoni, trentenne alla data della composizione, si muove ancora nell’800, come mostrano reminiscenze di Beethoven, Brahms e persino di Bruch, ma al contempo cerca un po’ velleitariamente di innovare: la struttura è più vicina a quella di una fantasia dove i motivi si susseguono ma senza svilupparsi, nè interagire (quindi: niente forma-sonata); le sezioni (movimenti?) sono tre, caratterizzate da tempi diversi, ma tra loro concatenate (tipo Mendelssohn e Bruch). In definitiva l’impressione che se ne trae è di qualcosa di indecifrabile: al confronto il concerto di Sibelius, sfornato quasi 8 anni dopo a ‘900 ormai inoltrato, avrà un successo largamente superiore, proprio per la sua caratteristica di rifarsi esplicitamente (e assai prudentemente) alla tradizione ottocentesca, senza pretese di innovare, non dico stravolgere, alcunchè.
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Proviamo a decifrare quest’opera piuttosto fuori dagli schemi, seguendone la citata interpretazione di Busch-Walter.

L’inizio dell’Allegro moderato è di pretta marca beethoveniana: su un RE all’unisono di tutti gli archi, i legni e i corni presentano subito (4”) un primo tema cantabile (tema-a, che tornerà anche nelle altre due sezioni del concerto, conferendogli quindi una caratteristica di ciclicità) che si chiude con tre quarte e una quinta discendenti dei clarinetti e poi si spegne rapidamente sulla sottodominante per far posto all’entrata del solista (27”) che per ora si limita a sciorinare virtuosismi, con ondeggiamenti di crome e poi semicrome, accompagnato quasi soltanto da rulli di timpano, finchè il fagotto prima (56”) quindi i clarinetti (1’04”) ancora fagotto e corni (1’10”) ne contrappuntano le evoluzioni con un motivo (tema-b) costituito da una scala ascendente che copre un’intera ottava (rispettivamente di DO, FA# e LA, sfociando un semitono più in alto) e che tornerà nel seguito.

Finalmente il solista, dopo una sospensione di sapore brahmsiano in corona puntata sulla sensibile DO#, espone a sua volta (1’26”) il tema-a, successivamente reiterato (1’51”) con sviluppo di virtuosismi e sfociante (2’02”) in una plateale perorazione cadenzante dell’orchestra. Subito il solista (2’05”) si imbarca in virtuosismi sopra il tema-b esposto (sul RE) da fagotto e viole, poi ancora (sul LA) da fagotti e clarinetti, fino ad arrivare ad una nuova feroce esternazione dell’orchestra (2’25”) che richiama le quarte discendenti del tema-a.

Il violino (2’31”, tranquillo) riprende i suoi virtuosismi accompagnato con discrezione da oboi e poi corni (che ripetono la cadenza di poco prima) e clarinetti e corni, per giungere (2’59”, più moderato) ad un passaggio dei fiati che paiono anticipare un nuovo tema, per ora solo accennato (ricorda qui l’Italiana di Mendelssohn) e subito interrotto (3’05”, allegro) dal solista, sempre più ostinato e scalpitante finchè non si acqueta (3’30”, quasi adagio) per esporre in ottave in corda doppia (sul SOL#) il tema-b e quindi ancora adagiarsi su trilli di DO#.

Ora (4’03”, Tempo I) i fiati espongono compiutamente il nuovo tema (tema-c) che il solista ancora accompagna con i suoi svolazzi di semicrome, fino ad arrivare (4’23”) ad un fortissimo a piena orchestra, sul quale corni e tromboni reiterano pomposamente (sul LA) il tema-b, chiudendolo (4’27”) con uno schianto di settima diminuita dal quale il solista si lancia in un’ennesima volata di semicrome, prima staccate, poi in corda doppia. Su esse intervengono (4’34”) i corni e gli archi bassi con l’incipit del tema-c, quindi tutti si incaponiscono in una pesante cadenza, che sfocia (4’57”, Gemessen, mit Humor) invece che nel canonico sviluppo e poi ripresa, in una sorprendente e bizzarra sezione che si potrebbe plausibilmente interpretare come la lunga coda del primo movimento del concerto.

Il solista espone un nuovo, spigliato motivo in LA maggiore e poi dialoga con l’orchestra su un ostinato ritmo marziale degli archi in pizzicato, poi (5’25”, Scherzoso) tutti si sbizzarriscono in trilli e note staccate, quindi è ancora il solista a trascinare l’orchestra animando sempre più, finchè su un suo MI acuto in trillo le trombe (6’04”) espongono per l’ennesima volta e con grande luminosità (sul MI) il tema–b. Qui si innesta la perorazione finale (sulla dominante LA maggiore) della sola orchestra, enfatica e magniloquente, che si spegne però (6’27”) su una cadenza sommessa in continuo ritardando, in cui si riaffacciano le quarte e quinta discendenti del tema-a, e che porta direttamente ad un tempo quasi andante sul quale di fatto ha inizio la sezione centrale (o movimento lento, se così si preferisce) del concerto.

I contrabbassi (6’59”) la aprono, subito dopo affiancati dai celli, in un cupo DO minore, sul quale si ode (7’14”) un richiamo della tromba (SOL-DO); poi, dopo un altro richiamo di corno e tromboni, ecco l’oboe (7’42”) che canta la sua melopea, sempre in DO minore, insieme ai clarinetti. Sembra affacciarsi (8’14”) il DO maggiore nei corni, ma il solista (8’17”) entra per esporre il suo languido motivo in FA maggiore, che però (8’43”) vira a DO maggiore e poco dopo, con un’ulteriore modulazione a SOL maggiore (8’52”) ci porta ad una chiara reminiscenza di Bruch (tema in MIb maggiore – poi DO maggiore - dell’Adagio del celebre concerto op.26). La melodia del violino si estende ancora largamente con successive increspature e modula più volte, fino a morire sul RE maggiore (10’16”).

Qui il tempo accelera a Poco agitato e sul tremolo di RE di primi violini e viole il solista in corda doppia (10’20”) ricorda ancora Bruch (in SOL maggiore). Sono poi gli archi bassi a rimuginare un lugubre motivo sul quale il violino innesta il suo canto appassionato, che sfocia (11’11”, Tempo I) in un prolungato dialogo con i fiati. Il solista poi (11’56”) espone una nuova, lunga melodia in corda doppia in MIb, accompagnato dapprima da fagotti e corni, poi (12’49”) dai clarinetti. Dopo una modulazione a DO maggiore, ecco (13’57”, Più lento) entrare corni e tromboni con un inciso corale, basato sulle prima note del tema-a, con cui il concerto si era aperto, tema il cui incipit infatti ritorna (14’29”) nel violino.

Con il sottofondo dei corni il solista si avvia a concludere, in territorio... beethoveniano: dapprima (14’59”) con una ondeggiante cadenza e poi (15’15”) con una reminiscenza del Larghetto dell’op.61. I tromboni accompagnano con la triade di DO maggiore e un sommesso rullo di timpano la corona puntata del MI sovracuto del violino.

Senza soluzione di continuità attacca (15’48”) il conclusivo Allegro impetuoso, in atmosfera di SI minore che sfocia poi nel RE maggiore d’impianto. Il solista si esibisce, interrotto da brevi incisi di fagotti e archi, in velocissime scale discendenti in semicroma, seguite – contrappuntato dai fiati -  da una scalata di trilli di ben 9 terze maggiori (3 ottave!) dal LA# sotto il rigo al LA# sovracuto, che sfocia poi (16’04”) nel SI, da dove il solista si imbarca in un’agitatissima specie di moto perpetuo (tema-d) che si muove dal SI minore per sfociare (16’51”) sul un fortissimo RE maggiore di tutta l’orchestra, che adesso si esibisce da sola in una cadenza che si chiude (16’59”) con il ritorno del solista.

Il quale espone un nuovo motivo in corda doppia, e quasi subito ricompare nelle viole (17’04”) il tema-a. Ora il violino torna ad esibire grandi volate di semicrome, accompagnato dapprima da note lunghe del clarinetto e poi (17’15”) dal flauto che lo imita una terza sotto. A 17’22” il flauto tace e si ode un richiamo della tromba (lo stesso inciso dell’apertura) ripetuto dal clarinetto, mentre il solista prosegue imperterrito con le sue semicrome, che sostengono (17’29”) veloci terzine ascendenti. Il fagotto lo accompagna, con crome in staccato, con un motivo in MI maggiore - che riprende le quarte discendenti del tema-a, qui esposte proprio con un chiaro sapore mahlerian-titanesco - più volte reiterato, che poi (17’42”) passa ai corni modulando a DO maggiore e poi ancora - mentre il solista torna in corda doppia – passa alla tromba (17’48”) in SI maggiore e infine (17’54”) arriva al DO, enfatico, negli archi.

Dopo che questi hanno emesso quattro proterve strappate, ecco (17’59”) il solista riesporre in SI minore il tema-d, che culmina (18’19”) in una perorazione di corni e trombe cui segue, nel violino (18’25”) un nuovo tema ondeggiante, di languido sapore zingaresco, interrotto dall’orchestra (18’35”) che intercala altre folate del violino e poi riduce la velocità e (18’53”) in tempo Moderato, attacca un ritmo marziale nelle trombe. Ecco quindi - Alla marcia, pomposo umoristico (!) – i legni presentare (19’05”) un nuovo motivo per terze, che sembrerebbe venire da Smetana, la cui conclusione è ripresa poi (19’31”) dal solista in corda doppia.

Il dialogo fra orchestra e violino prosegue, fra velocissime folate del solista ed incisi anche pesanti (20’20”) del pieno strumentale. A 20’32” ha inizio (Più stretto) la forsennata coda del concerto, con il solista che accelera sempre più esponendo un tema eroico fino al Quasi presto (21’05”) e poi (21’25”) al definitivo Più presto, dove tutti ingaggiano una vera e propria rincorsa verso gli schianti conclusivi.
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Splendida davvero l‘esecuzione di Nordio e dell’orchestra: il solista accentua il lato per così dire romantico del brano, con ampio uso di rubato e sonorità che spaziano dall’elegiaco all’eroico; e Ceccherini accentua da parte sua tutti i contrasti che emergono da questa interessante partitura, che meriterebbe forse di essere messa in programma più spesso di quanto non accada.  
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Il primo Concerto per violino di Gian Francesco Malipiero è del 1932 e vide la prima esecuzione ad Amsterdam, Concertgebouw. 

Erano gli anni d’oro (si fa per dire, come del ventennio berlusconiano...) del fascismo e un personaggio in vista come Malipiero non poteva non trovarsi nella scomoda posizione in cui è difficile far convivere le proprie convinzioni progressiste e allo stesso tempo patriottiche con tutti i vincoli che il regime bene o male imponeva. Insomma, una storia di successi e riconoscimenti cui si accompagnarono parecchie (vere o presunte, o millantate) umiliazioni, che per certi versi ricorda quella dello Shostakovich alle prese con lo stalinismo. E il risultato delle (apparenti?) ambiguità degli atteggiamenti di Malipiero verso il fascismo fu di renderlo inviso (cosa che lo addolorò sommamente) anche al CNL di Venezia, che dopo la Liberazione lo accusò senza mezzi termini di connivenza con il regime appena abbattuto.

E proprio il concerto per violino in programma in Auditorium ci presenta un Malipiero che percorre strade altrettanto lontane dalla tradizione romantica (forma-sonata e sviluppi tematici, come il virtuosismo fine a se stesso, erano per lui quasi delle bestemmie) quanto dalle (allora) relativamente recenti conquiste dell’atonalità e della serialità.

Il suo conterraneo Domenico Nordio, che oltre a quello di Castenuovo-Tedesco ha già inciso anche il concerto di Casella, ha mirabilmente colto lo spirito dell’opera, che si muove fra tonalità e modalità arcaiche sulle quali si innestano spunti di assoluta modernità. La forma tripartita è soltanto un involucro che nasconde in realtà un continuo alternarsi di momenti vivaci e di pause di riflessione, quasi una simbiosi di Vivaldi e Monteverdi, i due autori più amati da Malipiero. Nordio in particolare è parso particolarmente coinvolto nel centrale Lento ma non troppo, interpretato quasi con sofferenza fisica.

Grande successo per lui che ci dedica (con Santaniello in veste di gira-pagine) un bis moderno fatto di spettacolari invenzioni virtuosistiche.
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Chiusura in bellezza con Pini di Roma. Introdotti dal corno inglese e dal primo fagotto, con la punteggiatura dei corni, che intonano – a Villa Borghese - la popolaresca Oh quante belle figlie madama Dorè. E non è la sola filastrocca che compare in questo quadro d'apertura; poco dopo ecco infatti un paio di giro-girotondo, il primo introdotto da archi e fiati a canone, il secondo da oboi e clarinetti, che viene ripetuto più volte, fino a sfociare nel lugubre passaggio presso le Catacombe, con il suo sghembo intermezzo in 5/4, pieno di note ribattute.

Nei Pini del Gianicolo, proprio alla fine (ultime 10 battute e mezza) è previsto che canti un usignolo vero: no, non è in gabbia ed in penne ed ossa, oltretutto ci vorrebbe anche l'ammaestratore a corredo, per dargli l'attacco giusto… In partitura è segnato come una registrazione su nastro (ai tempi gli mp3 potevano essere, al massimo, dei moschetti) e invece ieri lo si è udito proprio suonato dal computer.

Nel conclusivo I Pini della via Appia, dopo un lungo assolo del corno inglese, compaiono le sei buccine, specie di enormi unicorni che accompagnavano le marce delle legioni romane. Respighi – che ne prevederà tre anche in Feste Romane - prescrive in partitura dei flicorni (2 soprani, 2 tenori e 2 bassi). Sul martellante ritmo di timpani e gran cassa, sono loro a portare all'enfatico epilogo dell'opera.

Strepitosa la prestazione dei ragazzi, che non fanno rimpiangere esecuzioni ormai storiche, come questa del venerabile Prêtre con i ceciliani.

L’unico neo della serata è costituito dall’affluenza invero scarsa all’Auditorium. Ma mai come in questo caso gli assenti (che hanno ancora domenica pomeriggio per rimediare) hanno avuto torto marcio!

27 novembre, 2009

Stagione dell'OrchestraVerdi - 8

Programma pesante (ma in senso buono) per la nuova apparizione di Damian Iorio sul podio de laVerdi (Orchestra disposta alla tedesca, come evidentemente preferisce il Maestro).

L'apertura è dedicata a Gian Francesco Malipiero, e alle sue prime (1917) sette Pause del silenzio. Sette – numero fatidico per il compositore – brani composti in piena Grande Guerra a descrivere atmosfere o stati d'animo. La composizione intercala regolarmente un tempo lento o andante a uno mosso, chiudendo poi con un altro Allegro vivace e marcato. Ha un segnale che si ripete, variato e proposto da strumenti diversi (fiati) all'inizio di ciascuna pausa. In ciò è labilissimamente legata alla sinfonia mahleriana, che apre con un altro squillo, quel celebre pa-pa-pa/pà in DO#, suonato dalla prima delle quattro trombe. Se posso muovere una critica, non è all'esecuzione ma alla logistica: fare un intervallo di 20' dopo un brano introduttivo di 13' mi è parso fuori luogo; si poteva omettere tranquillamente l'intervallo (spesso la Quinta di Mahler viene anche presentata da sola, senza preamboli, senza offesa per Malipiero, sia chiaro!)

Ecco quindi la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Un'opera da tempo entrata stabilmente nei repertori di tutte le orchestre e di tutti i Direttori di questo mondo. Perché, almeno dall'ultimo dopoguerra, Mahler ha finalmente cessato di essere inattuale, e il suo tempo è finalmente venuto (come lui stesso profetizzava quando era in vita). Ma più di un secolo fa l'establishment musicale – che gli riconosceva indubbi meriti come Direttore – nutriva assai scarsa considerazione per le sue doti di compositore.

Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell'incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: "Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l'originalità né dell'uno né dell'altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest'altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L'idea di un'esecuzione a Torino è da scartarsi."

Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra

Positivo, ma con qualche frecciatina, l'amico-rivale Richard Strauss, che scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: "La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un'immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po' troppo lungo…"

Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: "La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l'Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria."

Come è andata ieri sera? Purtroppo un'esecuzione che poteva essere più che dignitosa è stata macchiata da troppe imprecisioni degli strumentisti, in special modo delle parti semi-solistiche. La prima tromba, ad esempio, dopo aver eseguito in modo impeccabile l'esordio (strumento in SIb) ha invece steccato e storpiato totalmente (con lo strumento in FA) la frase che precede immediatamente la coda nel movimento iniziale. Nello Scherzo, il corno obligato (in FA) ha rovinato una performance che poteva essere ottima con più di un'imprecisione (l'abbiamo visto far ripetutamente ruotare lo strumento, come per …svuotarlo). Ma queste sono solo le più evidenti fra le pecche che si sono riscontrate qua e là nell'esecuzione. Peccato, poiché Iorio ha da parte sua staccato tempi sempre rispettosi della partitura, senza prendersi mai libertà né introdurre effetti personali.

A proposito del Maestro, non possiamo che augurargli di seguire le orme di un altro inglese di sangue italiano, che ha raggiunto i vertici assoluti.

Come sempre ben curato il programma di sala, in particolare la presentazione della sinfonia del professor Enrico Girardi, alla quale mi permetto di fare solo un piccolo appunto riguardo le autocitazioni di Mahler (di propri Lied) che non sono tre (Nun will die Sonn', Ich bin der Welt e Lob des hohen Verstandes) ma quattro: al numero 29 del rondò finale compare, in flauti, oboi e clarinetti, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge (un Lied la cui ispirazione Mahler candidamente confessò di aver avuto nel 1899 durante una seduta sul WC!)

La settimana prossima, come dice il titolo del concerto, si va dalla Russia all'America.