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16 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°18


John Neschling torna dopo un paio d’anni in Auditorium portando (un po’ come l’altra volta) un programma inconsueto, il che ogni tanto è un bene, per evitare di adagiarsi - chi suona e chi ascolta - sui facili oltre che comodi cavalli di battaglia... Così il 71enne maestro brasiliano (ma il cognome tradisce le origini austriache, cui si deve aggiungere persino una parentela con Schönberg) accosta il classico Mozart al nostrano Respighi (uno dei suoi autori preferiti, va detto).

L’altro protagonista della serata è il trentenne rampante Federico Colli, che esordisce qui con il K491 di Mozart. Che avevamo ascoltato precisamente or son 3 anni dalle dita magiche di un altro giovane virgulto del nostro pianismo, Gabriele Carcano. Il brano rappresenta una pietra miliare nella produzione pianistica mozartiana e la sua struttura è quanto di più innovativo (non solo per i suoi tempi) sia stato composto per la tastiera.

Approccio assai sostenuto (nell’agogica) esteso a tutti i tre movimenti, evidentemente deciso dalla coppia direttore-solista: personalmente avrei gradito un filino di vivacità in più, ma nell’insieme il tutto ha mantenuto un’assoluta coerenza. La cadenza dell’Allegro è di Orazio Sciortino, le altre due sono dello stesso Colli. Il quale ha mostrato le ormai acclarate qualità di grande protagonista del pianismo contemporaneo, ribadite da un mirabile bis. Sarò un po’ campanilista ma, essendo in origine suo concittadino, penso di non esagerare nel definire Colli - ieri applaudito anche da uno dei suoi maestri, Boris Petrushansky, pure lui di casa in Auditorium - il degno erede di un altro sommo bresciano: Arturo Benedetti Michelangeli.
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La seconda parte del concerto è dedicata ad un titolo del tutto desueto, la respighiana Sinfonia Drammatica (completata nel 1914) che il Direttore ha di recente riproposto all’attenzione dei musicomani, incidendola lassù in terra di Vallonia.

È fin troppo facile affibbiare a quest’opera epiteti poco edificanti: velleitaria, anacronistica, fumo-senza-arrosto, effetti-senza-cause e così via denigrando... Ed è innegabile che la sua fortuna non abbia nemmeno lontanamente avvicinato quella di simili composizioni coeve, che pur non si annoverano fra i capolavori assoluti: il Prométée di Scriabin (1910), la Decima di Mahler (1911), la Quinta di Sibelius (1915), la Alpensinfonie di Strauss (1915) o la Classica di Prokofiev (1917).

E dire che l’analisi approfondita (si veda ad esempio questa, proveniente dagli USA) della sua struttura (tematica, tonale e armonica) e del corposo materiale (appunti e schizzi) che il compositore bolognese ha lasciato, danno l’evidenza di un lavoro profondamente serio e meditato, non certo di una cosa buttata lì con superficialità e supponenza. Forse è stata proprio la smania di strafare dell'autore a nuocere a quest’opera, che continua ad apparire sovrabbondante, contorta, inestricabile e criptica.

Neschling ne ha esaltato i contrasti fra le pulsioni drammatiche (da cui il titolo) e le sezioni più dimesse ed elegiache e l’Orchestra, che credo fosse alla prima lettura del brano, si è meritata calorosi applausi da un pubblico piuttosto scarseggiante (complice forse il clima da... autunno inoltrato). Volendo ragionare in termini bassamente economici (e di spending review) si dovrebbe adesso ammortizzare l’investimento programmando la sinfonia come minimo nelle prossime 3-4 stagioni (!) Del resto, non vedo perchè non riservare a questo Respighi lo stesso trattamento che si garantisce al sinfonista Rachmaninov, per dire...

12 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°63


Il concerto di questa settimana è davvero particolare, per contenuti e… brevità quasi aforistica. Sul podio John Neschling, la cui sospetta combinazione nome-cognome ne tradisce la nazionalità: brasiliana. Pubblico limitato agli irriducibili intimi: fra le numerose assenze, notata quella di Nicola Campogrande, che ormai da mesi saliva regolarmente sul podio per ricevere gli applausi di prammatica per i suoi divertimenti targati EXPO.  

Abbiamo quindi tre poemi sinfonici (o affini): due di Respighi ad incastonarne uno di Sibelius. Questo però secondo la locandina ufficiale, chè la voce di Ruben Jais ci ha avvertito che la sequenza di esecuzione avrebbe più strettamente rispecchiato la cronologia di composizione: che va dalla fine ‘800 (per il finlandese) al 1930, passando per il 1920 (per l’italiano).

Si apre quindi con Il Cigno di Tuonela, la cui prima stesura, seguita da qualche aggiustamento, causa cambi di destinazione del brano, risale al 1893. È il secondo (o terzo, a seconda della collocazione) dei quattro numeri della suite titolata Lemminkäinen, dal nome di un personaggio della principale mitologia finnica, la Kalevala (alter-ego delle Edda norrene).  

Il cignone nero protagonista del brano è quello che maestosamente circumnaviga l’isola di morti di Tuonela, e che il prode quanto incallito sciupafemmine Lemminkäinen dovrebbe far secco per ottenere la mano di una principessa. Invece è lui che fa la fine del cigno del Parsifal, trafitto con una freccia avvelenata da un pastore cieco che poi lo riduce pure a spezzatino. Però sua madre recupera i pezzettini galleggianti sull’acqua (prima che il cigno se li ingoi) e li re-incolla con l’attak, rimettendolo in sesto meglio di prima (!? evabbè… i miti.)

Sono meno di 10 minuti di musica proprio… nordica, in cui ha una parte di spicco il corno inglese, che Paola Scotti mostra di saper suonare divinamente. A lei vanno i meritati applausi di pubblico e colleghi.
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Ecco poi Ballata delle gnomidi (1920). Il testo letterario che Respighi musicò è un poemetto di 13 strofe in settenari a rima incrociata, vergato dall’avvocato-musicomane partenopeo Carlo Clausetti, un dirigente della Ricordi. Il soggetto è assai curioso e un tantino macabro, con risvolti hardcore. Siamo in una comunità di gnomi, dove si svolge una specie di rituale sadico-erotico: due gnocche gnome scelgono un maschietto sfigato e lo trascinano in camera da letto per un triangolo erotico, culminante nello schiattamento del malcapitato. Il mattino successivo lo portano in corteo funebre, con seguito di gnomi smoccolanti, fino ad una roccia a strapiombo sul mare turchino, nel quale lo scaraventano senza tanti complimenti. Poi si danno, insieme agli gnometti superstiti, ad una danza sfrenata (Salome docet).

Mah, forse Respighi doveva pagare un debito all’editore, o magari dovette sottostare ad una qualche forma di ricatto da parte del Clausetti, chissà: non altrimenti si spiega un’iniziativa così bizzarra. Che però fa il paio con il bartokiano Mandarino, composto 7 anni più tardi.

Che la musica evochi puntualmente le improbabili vicende uscite dalla fervida fantasia di Clausetti sarebbe tutto da dimostrare: certo ci troviamo una prima sezione rapida (saranno gli gnomi che si agitano quando le due ninfomani sequestrano la vittima?); poi una sezione più lenta che con poca fantasia possiamo immaginare riguardi ciò che accade nell’alcova, dai preliminari di petting alle… ehm, effusioni orgasmiche; un improvviso Allegro con intervento di ottavini, flauti e violini, seguito da un crescendo concluso da alcuni schianti dell’orchestra potrebbe ricordarci il grido selvaggio dello gnomo che tira le cuoia. Ad esso segue l’unica sezione esplicitamente sottotitolata in partitura (la marcia funebre) che potrebbe benissimo evocare un’avanzata di panzer (o, trattandosi di Respighi, di legioni romane sulla via Appia?); quindi un tonfo che magari accompagna il corpo dello gnomo scaraventato in mare, con gli immancabili colpi di timpano a dargli il… colpo di grazia. Infine la danza delle gnome-sado-ninfomani seguita dal sabba selvaggio che chiude la storiella. Possiamo anche riconoscere alcuni temi che tornano a mo’ di Leit-motive, ad evocare i diversi personaggi.

Ma in sostanza non sorprende che il brano – a dispetto del magistero di Respighi in fatto di strumentazione - sia caduto presto nel dimenticatoio, nel quale per quanto mi riguarda (lo considero più fumo che arrosto) potrebbe tornare rapidamente, eccola. Ai ragazzi va l'encomio per l'abnegazione dimostrata.
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Chiude la serata Metamorphoseon (1930) una composizione di circostanza, commissionata dalla Boston Symphony di Koussevitsky per celebrare i 50 anni dalla sua fondazione. Come il successivo bartokiano Concerto per Orchestra, composto 14 anni dopo per la stessa Boston Symphony, è il pretesto per far risaltare le qualità solistiche delle sue prime parti. Il che di conseguenza si ripercuote sugli interpreti ad ogni nuova esecuzione: così anche qui sono i bravissimi ragazzi de laVERDI a mettersi in gran mostra. 

Il titolo tradisce vagamente la struttura dell’opera, che è un tema con (12) variazioni, che Respighi chiama modi, con un’abile ambiguità terminologica, che serve anche a indicare il ricorso a modi musicali antichi (sappiamo della predilezione dell’Autore per il canto gregoriano). Anche questo brano pare più ricco di affettazione e pedanteria scolastica che di genuina ispirazione: insomma, lascia un retrogusto come di vino… maderizzato, cioè invecchiato male.

Però la prestazione dell’Orchestra e dei singoli, chiamati a virtuosismi acrobatici, è come benzina sul fuoco dell’entusiasmo tanto da far sembrare la sala come stracolma di pubblico osannante.